giovedì 25 febbraio 2021

TERRA ROSSA A BELO HORIZONTE


Il  4 marzo prossimo alle ore 21 sul canale Zoom

“TERRA ROSSA A BELO HORIZONTE”

presenterà l'importanza della presenza di Padre Pigi Bernareggi nella realizzazione di progetti a sostegno delle favelas realizzati da AVSI a Belo Horizonte (Brasile).



Partecipano     ROBI RONZA

                        ARTURO ALBERTI (Allora Presidente di AVSI)

                        ROBERTO MINGUCCI, già Professore ordinario di Ingegneria 

moderatore     GIANCARLO GUASCO


Per partecipare all’incontro è necessario iscriversi, cliccando sul link sottostante:

https://zoom.us/meeting/register/tJAvceytqDIpGdbn1tbMH3foM6F1BjG4eP9j

Cliccando si apre un collegamento con una pagina nella quale  occorre compilare la richiesta di iscrizione. Alla mail che indicherete arriverà l’approvazione alla partecipazione.

Queste precauzioni burocratiche sono diventate necessarie da quando si sono verificati spiacevoli episodi di hackeraggio che hanno reso impossibile proseguire gli incontri

mercoledì 24 febbraio 2021

TERRA DI NESSUNO

 No non sta andando tutto bene

Marina Corradi 

Il “distanziamento sociale” mi è sempre più insopportabile. Necessario, non discuto, e obbediente lo osservo come tutti, ma vorrei potere dire che ci fa anche del male. Detesto quelli che se ti incrociano sulle scale si appiattiscono contro il muro, quasi tu avessi la lebbra. Saranno igienicamente corretti, ma mi avviliscono. Mi amareggiano quelli che non vanno neanche al funerale di un amico, pure opportunamente distanziati, perché è occasione di possibile contagio. Non andarci, invece, non è occasione certa di impoverimento umano?


Il dovere di proteggersi, trovo, sconfina spesso in uno sguardo sospettoso, in una grifagna difesa solo della propria personale salute. Salute, poi: come se, di malattie, esistesse solo il Covid.

Ho litigato per strada con una sconosciuta. Passavo con il cane al guinzaglio e quella, al mio avvicinarmi, si è rintanata nell’andito di un portone. Ho pensato avesse paura del cane. «Guardi che è buono», l’ho rassicurata. Lei, scuotendo la testa: «La distanza, la distanza di sicurezza». Era a quattro metri da me. «Signora, mi pare che lei esageri», dico, fredda. «Ma lei non la vede la tv?», ribatte la sconosciuta, ora aggressiva. «Lo sa a che velocità vanno le goccioline, quando si starnutisce? E fin dove possono arrivare?». No, non lo so, ho risposto, però so per certo che si può morire per tante malattie diverse dal Covid. Inoltre si può morire anche traversando la strada, accade tutti i giorni. In realtà, signora – e qui ho cercato di addolcire il tono della voce – la verità è che né io né lei siamo certe che saremo vive domani…». Quella si è infuriata: «Ah grazie, lei mi sta lanciando un malaugurio…». Mannò, signora, sto dicendo solo la verità. Nessuno al mondo può davvero garantirci che ci sveglieremo, domattina. La signora, rossa di rabbia, a questo punto mi ha mandato al diavolo e, aggirando con ampia prudenza me e il cane, si è allontanata.

Psicosi, mi sono detta. Tutte le luci sono puntate sull’epidemia, ma anche la salute mentale della popolazione dovrebbe preoccupare. Di chi, benché non ottuagenario né “fragile”, non apre neanche al fattorino del supermercato: solo quando quello se ne è andato, velocemente schiude la porta e allunga le mani a ritirare la spesa. Dovrebbe preoccupare poi, almeno a me preoccupa, la quantità di adolescenti che, lontani dalla scuola, non hanno una famiglia affettuosa, anzi magari non hanno proprio nessuno. Che fanno chiusi in casa, oltre a una svogliata Dad? Giocano a soldi, chattano, e con chi? I traffici pedopornografici sono in verticale aumento. Il consumo giovanile di alcol cresce. Di suicidi non si sente quasi parlare, ed è, convenitene, un po’ strano. Forse non se ne parla, ed è giusto, per evitare un effetto imitazione. Temo però che non siano diminuiti.

Ci sono effetti collaterali del lockdown di cui ci accorgeremo tardi. Già adesso, constato, quando un’ambulanza arriva sotto casa e porta via, solo, un anziano vicino, fra i condomini cade il silenzio. Sotto le mascherine bofonchiamo a occhi bassi un buongiorno, e ci allontaniamo veloci. Come sta, quel signore? domandi dopo tre giorni. E scopri che è già morto e seppellito. Funerali zero, nemmeno un annuncio sul portone. A pensarci, di ambulanze qui attorno ne ho viste parecchie che partivano in fretta, ma di partecipazioni di lutto sui portoni non ne ricordo neanche una.

Quasi fosse, quella morte, qualcosa da far sapere il meno possibile: quasi una vergogna.

“Andrà tutto bene”, scrivevano sui balconi gli ottimisti, un anno fa. Beh, non proprio. Quanto a numero dei morti, e anche quanto al nostro modo di stare insieme. L’ansia di proteggersi non ci sta facendo bene.

Lo so, che negli ospedali ci sono medici e infermieri che stanno dando l’anima, per curarci, e nelle scuole insegnanti che fanno di tutto per esserci, con i loro ragazzi. Ma sento, anche, piccole comunità di suore anziane abbandonate dalle badanti, e rimaste sole. Di vecchi morti soli in casa, e ritrovati dopo mesi.

Sembra che questa epidemia ci costringa a scegliere: da che parte stiamo? Con chi pensa solo a sé, o con chi pensa anche agli altri. A tutti gli altri, a un mondo di sconosciuti malati o soli o senza lavoro. Almeno con una preghiera, la sera: ma che sia per tutti, per ogni uomo mai visto, dietro le finestre delle nostre città. Aprendo un po’ di cuore alla misericordia, che etimologicamente significa “con viscere materne”, ed è il modo di amare di Dio. Basta un piccolo spiraglio aperto, per dare una possibilità a Dio. Sarebbe, di questo tempo di dolore, un silenzioso grande dono.

tratto da Tempi

FOTO ANSA

PIGI BERNAREGGI. UNA FEDE VISSUTA OPEROSAMENTE

 di Arturo Alberti e Roberto Mingucci 

La storia di come nacque nella mente del primo missionario giussaniano l’idea di regolarizzare le favelas di Belo Horizonte, trasformando così un “cancro” della città in una risorsa per tutto il Brasile. Il racconto di due volontari che fecero con lui l’impresa


All’appello in classe al liceo Berchet di Milano era Pierluigi Bernareggi, ma gli amici lo hanno chiamato sempre solo Pigi. Poi lo hanno chiamato padre Pigi i tantissimi che lo hanno avuto come benefattore per la vita. Alcuni di noi, qui in Romagna, lo avevano già conosciuto quando, ancora universitario, già girava per l’Italia a tenere incontri. Partecipavano studenti che, avendo conosciuto qualche “giessino” come noi, andavano ad ascoltarlo. Sapeva come spiegare quella passione che già li aveva presi da quando si erano coinvolti in incontri pieni di canti e di giochi e nei cosiddetti “raggi”, raduni di Gioventù studentesca nei quali si interveniva sull’argomento all’ordine del giorno a partire dalla propria esperienza per arrivare a un giudizio.

Negli anni Sessanta, poi, tutti i giessini lo conoscevano per le “decime”, libere offerte raccolte allora per aiutare la presenza sua e di altri che come lui erano partiti per il Brasile. Di quella realtà lontana, che erano andati gratuitamente a incontrare, ci informavano le “lettere dal Brasile”, scritte da loro per raccontare e farci partecipi delle ragioni di quella scelta missionaria, ai nostri occhi di studenti così coraggiosa.

Avevamo appreso, seguendo don Giussani, che tre dimensioni qualificavano l’esperienza cristiana che ci coinvolgeva: cultura, carità e missione. La scelta di Pigi era la testimonianza concreta che effettivamente quell’esperienza si poteva proporla anche ai confini del mondo. Ma scoprivamo anche come fosse facile travisarla, in cerca di proprie soluzioni. In Brasile infatti, in pochi anni il Pigi si ritrovò solo a obbedire a quel mandato, dopo che tutti gli amici partiti con lui si erano persi. Li avevano attratti utopie di cambiamenti radicali, da realizzare più rapidamente, con le proprie mani, senza dover attendere e attingere alla carità di Cristo. Lui stesso, nei vari incontri, lo raccontava con tristezza a quelli che lo interrogavano. 

Per noi la sorprendente compagnia con lui è nata da un fatto inatteso. A fine anni Sessanta l’occasione della tesi di laurea in ingegneria edile di Roberto Mingucci (“la tesi del Rori”, la chiamava Pigi) aveva saputo cogliere l’amore che lui aveva ormai scelto per la gente di là: i favelados. Vivendo poveramente in baracche autocostruite su terreni abbandonati, sapevano reagire alla condanna alla miseria, decretata brutalmente da una società mal organizzata e rapace, trasformandola in una esperienza di povertà e di umiltà cristiana, con la libertà di condividere le loro energie e le loro povere risorse.

Questo colpiva Pigi. Che una lettura tecnica, professionale, progettuale avesse potuto documentare i valori culturali della vita in favela lo commosse, anche al di là del merito reale di quella proposta, e lo rese disponibile a presentarla in varie occasioni e a promuoverla come proposta di intervento. Scoprimmo poi che vi aveva scorto un metodo di presenza adeguato a valorizzare la condizione dei favelados del Brasile, che trasmettevano in favela la ricchezza delle ragioni cristiane di cui erano portatori per la loro cultura e che lui viveva con loro come sua responsabilità vocazionale. Ci trovammo così, di fatto, coinvolti con il suo impegno missionario.

Un obiettivo a lungo inseguito

Una decina d’anni dopo, nell’estate del 1982, l’idea di fare delle ipotesi di lavoro contenute nella tesi una mostra da presentare al Meeting per l’amicizia fra i popoli che nel frattempo era nato a Rimini portò a uno sbocco molto concreto. In quell’anno il Meeting di Rimini, come era già chiamato, avrebbe infatti ospitato la presenza di papa Giovanni Paolo II, e padre Pigi sarebbe potuto venire a presentare la mostra al Papa. Fu quindi ospite dell’evento, invitato a dare testimonianza dell’esperienza che stava conducendo a Belo Horizonte come sacerdote ormai incardinato nella diocesi di quella città e responsabile, per la stessa diocesi, della Pastorale di favela. 

Quell’occasione fece nascere in lui l’idea di un progetto di cooperazione internazionale di più ampio respiro, da collegare a quelli che già stava realizzando con l’aiuto di Arturo Alberti, allora presidente di Avsi, Ong fondata con altri amici di Cesena. Un progetto che proponesse il recupero e la legalizzazione di tutte le favelas di Belo Horizonte. Era quello l’obiettivo che da tempo perseguiva con la sua Pastorale di favela: fare sì che le famiglie dei favelados non fossero più espulse violentemente dalla polizia, mentre le loro case venivano demolite con le ruspe. I proprietari dei terreni, che prima dell’insediamento della favela erano sempre abbandonati, avrebbero potuto essere indennizzati in altro modo, senza privare quelle famiglie, quasi sempre poverissime, della loro unica possibilità di alloggio.

Fu così che decise, per avviare quel lavoro, di presentare il Rori all’Arturo, che in realtà già si conoscevano da anni, ma che senza di lui non avrebbero forse iniziato nulla di così complesso. Pigi diceva già allora con entusiasmo, fiducioso nella cultura della “povertà solidale”, che la legalizzazione avrebbe stabilizzato le famiglie e che gli abitanti stessi, resi sicuri del loro futuro su quei piccoli lotti di terreno, sarebbero diventati i protagonisti del miglioramento abitativo, avrebbero fatto diventare legali gli allacciamenti alle utenze di acqua e luce, fino ad allora abusive e precarie, e si sarebbe potuto ottenere anche l’intervento ufficiale del Municipio per le opere di urbanizzazione importanti, visto che la favela diventava in quel modo legalmente parte della città.

Attraverso Avsi fu chiesto e ottenuto un finanziamento europeo e già nel giugno del 1983 l’Arturo e il Rori volavano per la prima volta a Belo Horizonte. Quello sarebbe stato il primo di 23 viaggi per l’Arturo, e di molti di più, che però non ha mai contato, per il Rori, che da quella tesi aveva iniziato la carriera universitaria e su quei temi aveva coinvolto molti dei suoi colleghi dell’allora istituto di Architettura della facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna. 

L’inizio dell’avventura

martedì 23 febbraio 2021

“CHRISTUS PATIENS”

Nella nuova «Pietà» di dolore universale il senso profondo del Cristianesimo

VITTORIO SGARBI

U n commando composto da sei uomini armati ha attaccato il convoglio dei quale faceva parte il nostro ambasciatore italiano a Kinshasa, Luca Attanasio, ucciso insieme al carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci ed all’autista congolese.

L'attacco è avvenuto tra Goma e Bukavu».

Così il dispaccio di agenzia ci ha informato nella tarda mattinata di ieri della morte di tre persone in Congo. Poi è arrivata una fotografia e quella notizia triste, nella quale si agitava un ferito orgoglio patriottico, ha assunto una diversa dimensione.

 Negli uomini africani che abbracciano il corpo 
la vera «Pietà» cristiana

Abbiamo visto la morte sul volto di Luca. Senza forze, nei suoi ultimi istanti.

Una immagine di dolore universale,  fuori del tempo, legata alla condizione umana, alla vita di un giovane uomo e alla improvvisa irruzione della morte, che interrompe l'ordine del mondo. Una ingiustizia, una tempesta.

Come scrive Plutarco: «La morte diun giovane è un naufragio, la morte di un vecchio è un approdare al porto». Non ci sarà un porto per Luca, che non è più l'ambasciatore d'Italia

In un Paese difficile, una sede disagiata, come si dice nel linguaggio diplomatico, ma un giovane uomo pallidissimo, come un Christus patiens, deposto fra le braccia di due congolesi che lo soccorrono e lo trasportano verso l'ospedale.

Ecco il senso profondo del cristianesimo, la forza di un Dio che sceglie di farsi uomo con il rischio di morire. È incommensurabile la distanza fra la vita e la morte, ma è un istante il passaggio dall'una all'altra.

La vita si interrompe con la fine del respiro. Lo vediamo, Luca Attanasio, pallido, esanime, mentre le sua mani stringono debolmente quelle dei soccorritori congolesi, e il suo sangue si è versato sulle braghe di uno di loro. L'altro sostiene la testa di Luca che ha la bocca socchiusa, cercando aria. Sta per andarsene. Come Nicodemo, soffre in una smorfia anche il nero che lo sostiene. Luca è stato giustiziato da uno di loro, bestia, assassino, e non per errore.

Lo dice un altro dispaccio: «Portati nella foresta, dopo aver eliminato l'autista, e uccisi: così sarebbero morti l’ambasciatore italiano in Congo e il carabiniere di scorta, secondo una pri ma ricostruzione delle fonti di polizia locali, al vaglio degli inquirenti italiani.

Il commando di 6 persone avrebbe prima attaccato il convoglio e ucciso l'autista. Gli assalitori avrebbero quindi condotto gli altri nella foresta e, proprio mentre stavano arrivando forze locali in soccorso, avrebbero sparato al carabiniere, circostanza nella quale anche l'ambasciatore è morto».

Luca ha sentito la vita andare via. Leggiamo nei suoi occhi la fine, in quella commovente deposizione. Ci turba la sensazione che la vita stia passando, vedendolo disteso, con la vita che lo abbandona.

Aveva poco più di quarant'anni, un volto luminoso, una quantità di speranze, in una terra diflicile, dominata dalla disuguaglianza. Ambasciatore dal 2017, nel 2020 aveva ricevuto il Premio internazionale Nassirya per la Pace «per il suo impegno volto alla salvaguardia della pace tra i popoli». L'aveva inseguita, la pace, in un Paese difficile, dove i ribelli ruandesi di etnia Hutu combattono per affermare la supremazia insensata della loro razza.

Luca ha pagato per tutta l'umanità. Chi lo ha ucciso non ha ottenuto nulla. Ci ha lasciato un uomo che continua a vivere, come le sue idee. E con quella immagine resta dentro di noi.

Foto La Presse tratta da Il Giornale

domenica 21 febbraio 2021

UNA GUERRA E DUE RESISTENZE

QUEI GIORNI TORBIDI A CESENA FINITE LE OSTILITA'

(Sogno improvviso a occhi aperti di una scena realmente avvenuta tanti anni fa)

 PROTAGONISTI: LA ROCCA MALATESTIANA, UN PRETE (Don Lino Mancini), UN CAPO PARTIGIANO (Fabio Ricci), UN GRUPPO ARMATO FINO AI DENTI DI PARTIGIANI.

 Da Facebook di Piero Pasini


MENTRE SCATTAVO la foto dell'ingresso della Rocca Malatestiana (che fu prigione fino agli anni '60 dello scorso secolo) mi venne in mente una scena avvenuta proprio nello stesso luogo tanti anni fa appena finita la guerra quando imperversava la caccia al fascista o assimilato e dove il sopravvivere era legato ad un'occhiata del capo o a una proposta lanciata in mezzo a un gruppo di armati. Riporto ampi stralci della testimonianza resa da Don Lino Mancini e riportata nel libro “Don Lino Mancini – Una vita per Cristo” stilgraf 2011 pag. 272.

don Lino Mancini
“Seppi che la moglie del vigile urbano Rasi di Cesena era tornata dal nord ove si era rifugiata con tutta la famiglia di 7 figli. Appena arrivata il partigiano Fabio Ricci che comandava la piazza e risiedeva in municipio la portò alla Rocca in prigione........Appena saputolo io (Don Lino Mancini. ndr) mi premurai di liberare questa povera donna con un bimbo cosi' piccolo (dormivano ambedue sulla paglia). Mi recai da Ricci in municipio.....mi rispose che con i fascisti ci voleva la mano dura (la mano dura allora era spesso farli fuori). Lo supplicai. Niente. Alzai la voce e lui sfiorò la rivoltella ghignando. Allora gli ricordai un aiuto importante e pericoloso che avevo dato ad un gruppo di partigiani che erano in collina e lui era responsabile. Allora si convinse e mi disse di precederlo alla Rocca. Lo feci. Arrivato alla porta d'ingresso (quello della foto. ndr), chiusa, mi fermai e sentii delle voci che venivano da sopra. Alzai gli occhi e vidi alcuni partigiani armatissimi. Mi guardarono e, ridendo, dissero “Tiremi?”. Risposi che aspettavo Ricci. Non dissero piu' niente. Il linguaggio era quello. Lo stile era quello. Quando, poco dopo, entrai col Ricci, colsi un movimento impercettibile del plotone di partigiani armati all'interno del cortile della Rocca. Quel movimento era una domanda precisa al Ricci. Il quale fece un lievissimo cenno di no con la mano. E se faceva cenno di si?”.

 

Nota: a Fabio Ricci, che fu per molti anni bidello presso il Liceo Scientifico A. Righi, e' intitolata una via a Cesena,  a Don Lino Mancini sacerdote, educatore di tante generazioni di giovani la richiesta non è stata accettata.

lunedì 15 febbraio 2021

RIUSCIRA’ LA SINISTRA A SOPRAVVIVERE SENZA UN NEMICO DA ACCUSARE?


IL  CONFRONTO SALVINI –ZINGARETTI

DEVASTANTE PER IL SEGRETARIO DEM 

di ANTONIO SOCCI

Certe notizie passano quasi inosservate, ma sono le più rivelatrici. Mi ha colpito una cosa accaduta, nella disattenzione generale, durante le consultazioni di Mario Draghi per formare il nuovo governo.

Così venerdì sera, ascoltando la lista dei ministri, l’ho sintetizzata in questo tweet: “Da padre che vive il (vero e proprio) dramma della disabilità, ringrazio Matteo Salvini perché è stato l’unico che ha portato sul tavolo del premier incaricato la sofferenza di milioni di persone dimenticate da tutti e inascoltate: un ministero per i disabili è una grande cosa”.

Il leader della Lega ha spiegato, in un’intervista a Mentana, che negli incontri con Draghi – oltre all’ovvio e primario obiettivo di spazzar via il flagello Covid – ha portato alla sua attenzione la necessità di “un ministero per le disabilità, perché in Italia ci sono sei milioni di disabili troppo spesso inascoltati, ed (il ministero) è stato creato”.

Salvini ha segnalato anche la necessità di un ministero “ad hoc” per il turismo, “che è il settore che ha sofferto di più in questo anno di crisi e che rappresenta il 13 per cento del Pil”.

Inoltre ha affrontato il problema centrale del Paese, quello delle impreseche hanno necessità di essere sostenute per riprendere vigorosamente a produrre ricchezza e costruire il futuro dell’Italia.

Il leader della Lega ha concluso: “non ho parlato di poltrone o di nomi, ma di cose da fare per il Paese”. Fra le cose da fare mi ha colpito la sua attenzione a quei milioni di persone che soffrono per disabilità spesso terribili perché sono soli e abbandonati e spesso nessuno li ascolta.

Il confronto con Zingaretti e il Pd si è imposto ieri mattina aprendo il “Corriere della sera” e leggendo questo titolo su un’intera pagina riferito al nuovo governo: “Il segretario del Pd soddisfatto: ‘Così possiamo impedire che centrodestra e Renzi prendano il sopravvento’”.

La differenza è abissale. Il primo, Salvini, ha parlato con Draghi degli italiani (i disabili, il settore turismo che è ko, le imprese che devono riprendere a lavorare). Il secondo, Zingaretti, si è preoccupato di poltrone e di piantare bandierine di partito, cosa che confessa apertamente: “Il Pd ha mantenuto una grande unità che gli ha permesso di collocarsi bene… Non era scontato. E’ stata un’altra importante prova che ripropone il Pd come forza centrale del cambiamento”.

A parte l’uso a sproposito della parola cambiamento (giacché il Pd è sempre al governo e c’è pur avendo perso le elezioni, cosicché l’unico cambiamento vero sarebbe il suo passaggio all’opposizione dove lo avevano messo gli italiani con il voto del 2018), appare chiaro che Zingaretti è andato da Draghi con questo unico obiettivo: le poltrone.


Avendogli tolto gran parte del potere, Draghi (secondo gli osservatori, come Marzio Breda, avrebbe avuto un ruolo anche Mattarella) ha fatto concessioni d’immagine al Pd, per esempio lasciando alcuni (pessimi) ministri del governo Conte, cosicché Zingaretti ora parla di una certa continuità e vanta un successo mentre in realtà la sua è una disfatta.

Il mandato di Draghi infatti stava in queste parole di Mattarella: “Avverto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo”.

Il monopolio del potere PD/M5S nei fatti è stato archiviato. Si deve aprire una stagione nuova all’insegna dell’unità della nazione e dei partiti: a questo appello hanno aderito Lega e FI. Però Zingaretti, per non apparire il grande sconfitto, sbandiera le poltrone ottenute e l’unità col M5S (che in realtà sta esplodendo) come l’asse che condizionerà questo governo.

Il confronto fra Zingaretti e il comportamento tenuto da Salvini e Berlusconi è impietoso per il segretario Dem. La presunta (e autocertificata) superiorità culturale e morale della Sinistra, sempre sbandierata sui giornali progressisti, non si è vista. Anzi, si è visto l’esatto contrario.

Fra l’altro Zingaretti è incorso nell’ennesimo incidente che evidenzia la storica ipocrisia della Sinistra. L’ha sottolineato perfino Concita de Gregorio sulla prima pagina di Repubblica: “Parole tante. Alla prova dei fatti, poi, la sinistra non porta donne al governo. Zero, dal Pd e da Leu. E’ tristissimo, è antistorico, desolante, ma è così: inconfutabile”.

E anche qui il confronto con il Centrodestra è micidiale, perché Forza Italia e Lega, senza mai aver fatto proclami femministi, né quote rosa, hanno tre ministri donne e tre uomini.

Ma soprattutto risalta la diversità di atteggiamento culturale, morale e politico. Le parole di Mattarella invitavano tutti i partiti a voltare pagina e a dare al Paese un segnale di forte coesione in questo momento drammatico.

Ieri, tramite il solito quirinalista, dal Colle più alto è stato fatto arrivare un messaggio che va nella stessa direzione, condensato in una frase di Albert Camus che “in tempi di catastrofi” invitava a fare “lo sforzo di dominare i propri risentimenti”.

Una splendida esortazione, che però Pd e M5S non mostrano di voler ascoltare. I Dem e i grillini non si sono ancora accorti che la guerra è finita e sono in subbuglio.

Zingaretti anche ieri rivendicava il merito di aver “salvato il Paese dalla marea populista”: l’ennesima gaffe visto che il Pd, proprio grazie alla “marea populista” del M5S, è tornato al potere dopo la sconfitta elettorale.

A prendere sul serio l’esortazione del Capo dello Stato è stato solo il centrodestra che non ha messo veti a nessuno. In particolare Salvini – a costo di scandalizzare qualche suo tifoso superficiale – ha dato l’esempio di una politica che sa mettere da parte gli interessi di partito e sa trovare l’unità d’intenti nei momenti drammatici: ha evocato il governo di unità nazionale guidato da De Gasperi nel dopoguerra, quando il Paese era in macerie (un po’ come oggi), si è detto pronto a collaborare con chiunque e ha perfino glissato, venerdì, sull’incomprensibile riconferma dei ministri Speranza e Lamorgese, dichiarando che, se non cambiano approccio, “avranno bisogno di aiuto e sostegno”. Insomma un dialogo costruttivo.

Più collaborativi di così non si può essere. Ma a Sinistra, anziché cogliere questa mano tesa e rispondere con eguale disponibilità, si sono scatenate le tifoserie dei social e dei giornali per irridere le “conversioni” di Salvini.

E’ una Sinistra che è vissuta finora di odio e non sa uscirne. Col governo Draghi riuscirà a pensare finalmente al Paese e a fare a meno di un nemico da indicare al pubblico disprezzo?

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 14 febbraio 2021

 

MONS. NEGRI: “LA BATTAGLIA DI DON GIUSSANI PER LA FEDE PUBBLICA E POLITICA”

 La riflessione di monsignor Luigi Negri, vescovo emerito di Ferrara, sulla battaglia di Don Giussani per una fede “politica”.

 È  uscito nelle librerie il nuovo saggio di Monsignor Luigi Negri, vescovo emerito di Ferrara, “Con Giussani. La storia & il presente di un incontro” (ed.Ares) in cui viene analizzata  la battaglia di Don Giussani per la fede “politica”.

 Don Negri :“Nel 1965, in occasione del ventennale della Resistenza, nel quale si celebrava la fine del fascismo e la nascita della nuova società, ricordo che facemmo un numero speciale del nostro giornale, Milano studenti, che arrivava a una tiratura di ventimila copie.


Era presente un editoriale, che Giussani lesse e riprese in più interventi, nel quale si diceva: «Non ci basta più la libertà della Resistenza, facciamo resistenza per la libertà». Venivano poi segnalate anche le battaglie per le quali valeva la pena impegnarsi. Quella che era indicata come prioritaria rispetto a tutte le altre era la libertà di educazione perché un popolo cristiano che non è educato, o peggio, viene diseducato dalla scuola ideologizzata, perde la propria identità“. Per Giussani l’educazione era davvero un punto imprescindibile tanto da sostenere all’infinito la formula «mandateci in giro nudi, ma lasciateci liberi di educare». Egli ha cercato di promuovere in tutti i modi la consapevolezza dell’importanza della libertà di educazione, in un mondo in cui né i laici né i cattolici sembravano rendersene conto; un mondo dove l’impostazione ideologica tendeva a identificare la scuola statale con la scuola pubblica, di fatto affermando che solo lo Stato avesse il diritto di educare, retaggio del totalitarismo risorgimentale prima, fascista poi e infine comunista“.

DON GIUSSANI E LA CHIESA “MADRE E MAESTRA”

Nell’anticipazione, pubblicata da “La Verità”, Negri prosegue ammettendo che “da un punto di vista politico i risultati ottenuti sono stati forse modesti perché, se si escludono alcuni provvedimenti legislativi locali e qualche piccolo passo verso la parità scolastica, ancora oggi solo parzialmente realizzata, la società italiana è tra quelle in cui la libertà educativa risulta essere meno rispettata. Tuttavia, l’insistenza di Giussani per la lotta a favore della libertà di educazione ha avuto un risultato importantissimo: mobilitare migliaia di adulti, insegnanti e genitori, che, in nome della libertà di educazione, si sono sacrificati per dare vita o sostenere scuole libere, spesso pagando di tasca propria cifre imponenti per il bilancio delle famiglie“. Don Negri però mette in guardia: “Anche un grande movimento di popolo, come quello che ha originato tali importanti opere di carattere educativo, rischia di affievolirsi e ridimensionarsi fino a venir meno; non solo per le durissime condizioni di carattere economico, che in modo discriminatorio colpiscono maggiormente le scuole paritarie delle scuole statali, ma ancora di più per la perdita della memoria di quanto è stato generato a partire dal carisma di Giussani“. 

Secondo Giussani la Chiesa non poteva “vivere fino in fondo la propria natura senza essere «madre e maestra», senza prendere sul serio la propria responsabilità educativa“. La comunità era il luogo” dove “doveva essere fatta ai giovani una proposta di vita; dove essi dovevano essere aiutati a vivere la novità della vita cristiana non secondo un generico richiamo, ma attraverso un’esperienza autentica“. Questa doveva essere:

“1. «Chiara di fronte a chiunque», cioè senza indecisioni causate da eccessive remore o timori di urtare gli altri; 

2. «elementare nella comunicazione», cioè capace di coinvolgere la libertà dei ragazzi in un’azione concreta; 

3. «integrale nelle dimensioni», cioè capace di tenere insieme cultura, carità e missione; 

4. «comunitaria nella realizzazione», cioè sviluppata senza trascurare nessuno dei fattori costitutivi della comunità (l’adesione personale, le diverse funzioni e responsabilità, l’autorità, l’unità). Come si può educare a vivere la novità cristiana, se non favorendo il pieno riconoscimento del desiderio del vero, del bene, del giusto, di quell’insieme di esigenze ed evidenze del cuore che Giussani chiamava «esperienza elementare»?“.

DON GIUSSANI: L’INEVITABILE DIMENSIONE POLITICA DELLA FEDE

Monsignor Negri insiste ricordando: “Non bisogna dimenticare che, secondo la dottrina sociale della Chiesa, spesse volte richiamata proprio su questo punto da Giussani, l’educazione è affidata alla famiglia, poi in modo sussidiario alla Chiesa, ma non direttamente allo Stato. Giussani ha favorito, allora, lo sviluppo, a livello ecclesiologico, del concetto di dottrina sociale come difesa della libertà della Chiesa e del popolo, soprattutto assimilando e approfondendo il grande magistero di Giovanni Paolo II; ma non è stata solo una riscoperta teorica, perché ha saputo favorire la creazione di un numero davvero impressionante di opere.

Penso che anche oggi non si possa pensare di proseguire sulla strada da lui avviata dimenticando il concetto di opera e pensando la fede in termini intimistici. Per questo, credo anche che la questione della politica non possa venire trascurata. La dimensione politica della fede è inevitabile perché, da una parte, è resa necessaria per la difesa della libertà della Chiesa, a partire dalla difesa della missione, dall’altra, coincide con un’espressione importante dell’amore al popolo che si realizza nelle opere.

L’opera, infatti, non è solo un’iniziativa di carattere sociale perché, da un lato, esprime la capacità del singolo o del gruppo di interagire con i problemi reali, svolgendo nell’assunzione dei problemi reali tutte le capacità scientifiche, culturali delle quali si dispone; dall’altro, costituisce un àmbito di testimonianza e missione. Anche l’impegno per i diritti fondamentali, come il diritto alla vita, il principio di sussidiarietà o quello di solidarietà, non è qualcosa di secondario, perché questi, sebbene possano essere formulati diversamente a seconda delle circostanze, sono veramente diritti inalienabili, come ci ha ricordato Benedetto XVI, e quindi imprescindibili, se si vuole contribuire significativamente alla costruzione del bene comune. La missione coincide con questo impegno continuativo, che si rinnova ogni giorno, a investire tutte le circostanze della vita di quella umanità nuova, di quella mobilitazione nuova dell’intelligenza e del cuore che nasce dall’appartenenza a questa compagnia“.

Don Negri conclude: “Il popolo si realizza nella missione. Ripeteva spesso Giussani che Giacomo, Andrea e Giovanni, neanche per un momento, hanno pensato moralisticamente di cambiare vita; hanno piuttosto pensato di andare dietro all’Avvenimento più grande di loro che li aveva presi e li aveva portati magari dove non volevano. In questo seguire quello che avevano incontrato è poi scaturito inesorabilmente il cambiamento della loro vita. Se invece avessero preteso, come condizione necessaria per andare dietro al Signore, di cambiare, di non vivere più come gli altri, prima di seguire, non si sarebbero mossi. La missione è il grande movimento di autorealizzazione della Chiesa. In che cosa consiste il nesso straordinario tra Giovanni Paolo II e don Giussani? Certamente in un’affinità di temperamento, in un’ampiezza di cultura che per certi aspetti aveva visitato gli stessi grandi autori. Ma dove si radicano l’apertura intellettuale, la vivacità umana, il non clericalismo di Giovanni Paolo II e di Giussani? Nell’idea che la missione è il movimento che compie la Chiesa“.

 

domenica 14 febbraio 2021

L’IMPEACHMENT È FINITO. ANDATE IN PACE.


Mettere i presidenti degli Stati Uniti in stato d’accusa serve a qualcosa?
La storia passata e presente suggerisce di no. Bill Clinton, accusato di aver mentito e di aver abusato del suo potere, se la cavò senza problemi. Donald Trump ne è uscito indenne all’inizio del 2020 e ieri è stato assolto di nuovo, nonostante l’ardore focoso dei DEM e l’appoggio dei media. Paradossalmente l’impeachment è servito al suo scopo solo quando non è stato usato ma solo minacciato: nel 1974 Richard Nixon si dimise prima che la camera lo incriminasse. Che senso ha pretendere che siano i partiti a decidere sull’impeachment? E anche in Italia ricordate il giovane Di Maio quando parlava di impeachment Vs Mattarella?

Cosa resta di questa buffonata? Due cose.

PRIMA: l’odio dei DEM, soprattutto delle donne DEM (Nancy Pelosi, Kamala Harris, Elizabeth Warren, Alexandria Ocasio-Cortez, ecc), contro i Repubblicani e il loro leader aggredito fin dal primo giorno, il 20 gennaio 1917, quando la Pelosi stracciò in diretta TV il discorso alle Camere che Trump stava pronunciando.

SECONDA: Biden non voleva l’impeachment, che era contro gli interessi di tutti, ma non ha saputo resistere alle pressioni della sinistra estrema del partito. Conclusione: Biden è l’immagine rassicurante ma impotente di un partito in mano a quegli estremisti che gli hanno fatto vincere la partita contro Trump e ai quali deve tutto. Tempi durissimi per un’America sempre più divisa e dominata dagli estremisti di entrambe le parti.

E, a proposito, se volete avere un’idea più chiara di come sono andate le elezioni leggete quest’articolo: “La storia segreta della campagna ombra che ha salvato le elezioni 2020“.
Si parla di elezioni americane, E LA TESTATA NON È L’ECO DEL NEBRASKA, È LA PRESTIGIOSA RIVISTA TIME.

Sostanzialmente, è una vanteria, che afferma chiaramente quello che tanti avevano capito o sospettato da un pezzo, cioè che c’è stato un “complotto” (parole loro) per assicurarsi che Trump non potesse vincere le elezioni. A fin di bene, ovviamente. Quel cattivone, lasciato a se stesso, avrebbe distrutto la democrazia. Loro, invece, essendo i migliori, come credono di esserlo tutti i DEM del mondo, pretendono di averla salvata. Perché, scrivono, se non avessero fatto qualcosa, “In a way, Trump was right”.

E l’articolo conclude: “Democracy won in the end. The will of the people prevailed. But it’s crazy, in retrospect, that this is what it took to put on an election in the United States of America”.
Senza pudore, perchè sanno che l’hanno fatto per la democrazia. Come quelli che ti ammazzano per il tuo stesso bene. Per un pelo non è stato un disastro, asseriscono. Loro l’hanno evitato.
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https://time.com/5936036/secret-2020-election-campaign/?amp=true

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FEBRUARY 4, 2021 5:40 AM EST

sabato 13 febbraio 2021

LA CRISTIANITÀ È FINITA. QUESTI SONO TEMPI APOSTOLICI.

GEORGE WEIGEL

“Quella forma di ‘cristianità’ è ormai lontana. Oggi, in tutto il mondo occidentale, l’aria culturale che respiriamo non trasmette la fede né è neutrale riguardo alla fede; l’aria culturale è ostile alla fede. E quando questa ostilità conquista le altezze di comando della politica, cerca aggressivamente di emarginare la fede. (…) Chi immagina che “non può succedere qui” dovrebbe leggere l’ordine esecutivo sull'”identità di genere” firmato dal presidente Biden poche ore dopo il suo insediamento.”

Un articolo di George Weigel, biografo di San Giovanni Paolo II, pubblicato su First Thing, nella traduzione di Sabino Paciolla

Raffaello Sanzio, La scuola di Atene,
Roma Musei Vaticani

Trent’anni fa, il 22 gennaio 1991, veniva pubblicata l’ottava enciclica di Papa Giovanni Paolo IIRedemptoris Missio (La Missione del Redentore). In un pontificato così ricco di idee che il suo insegnamento ha solo cominciato ad essere digerito, la Redemptoris Missio si distingue come un progetto per il futuro cattolico. Le parti vibranti della Chiesa mondiale stanno vivendo la visione del discepolato missionario a cui l’enciclica ci chiama. Le parti morenti della Chiesa mondiale non hanno ancora recepito il messaggio o, fraintendendolo, lo hanno rifiutato – ed è per questo che stanno morendo.

La Redemptoris Missio ha posto una sfida schietta e formidabile ai cattolici che si trovano a proprio agio: Guardatevi intorno e riconoscete che i nostri sono tempi apostolici, non tempi della cristianità. La cristianità, come disse Fulton Sheen nel 1974, è finita.

“Cristianità” connota una situazione in cui i codici culturali della società e il modo di vivere che essi sostengono aiutano a trasmettere “la fede consegnata una volta ai santi” (Giuda 1:3). Luoghi del genere sono esistiti a memoria d’uomo; io sono cresciuto negli ultimi, fugaci momenti di uno di essi, nella cultura cattolica urbana di Baltimora del 1950. Quella forma di “cristianità” è ormai lontana. Oggi, in tutto il mondo occidentale, l’aria culturale che respiriamo non trasmette la fede né è neutrale riguardo alla fede; l’aria culturale è ostile alla fede.

E quando questa ostilità conquista le altezze di comando della politica, cerca aggressivamente di emarginare la fede. (Questo, per esempio, è ciò che accade quando i governi cercano di imporre alla società l’ideologia LGBTQ e di genere penalizzando coloro che, per ragioni di convinzione, non si inchineranno alla dannosa nozione di infinita plasticità dell’umanità – l’idea biblica e cristiana della persona umana è criminalizzata. Chi immagina che “non può succedere qui” dovrebbe leggere l’ordine esecutivo sull'”identità di genere” firmato dal presidente Biden  poche ore dopo il suo insediamento).

I “tempi apostolici” ci chiamano a rivivere l’esperienza della Chiesa primitiva, vividamente descritta negli Atti degli Apostoli. Lì troviamo gli amici del Signore Gesù risorto infiammati dalla passione per la missione. La “buona notizia” che Gesù aveva proclamato prima della sua morte era stata confermata oltre ogni dubbio dalla sua risurrezione dai morti e dalle sue apparizioni ai suoi amici nella sua umanità trasformata e glorificata. Questa non era una buona notizia per pochi eletti; questa era una buona notizia che esigeva di essere condivisa con tutti.

Così un gruppo raffazonato di nullità dai margini di quello che si immaginava essere il mondo civilizzato si mise a convertire quel mondo alla fede in Gesù Cristo come Signore. Affrontarono il ridicolo; alcuni li ritenevano ubriachi, “pieni di vino nuovo” (Atti 2:13). Altri li liquidarono come ciarlatani, come scoprì San Paolo all’Areopago di Atene (in Atti 17:18). Altri ancora li ritenevano pazzi, come quando il governatore romano Festo esclamò a Paolo: “La tua grande cultura ti sta facendo impazzire” (Atti 26:24). Ma essi perseverarono. Manifestarono uno stile di vita più nobile e compassionevole. Alcuni morirono come martiri. E nel 300 d.C. avevano convertito a Cristo una parte considerevole dell’impero romano.

Ai tempi della cristianità, un “missionario” è qualcuno che lascia una zona di comfort culturale e va a proclamare il Vangelo dove non è stato ascoltato prima.

Nei tempi apostolici, insegna la Redemptoris Missio, ogni cattolico è un missionario a cui è stato dato il mandato di “andare e fare discepoli tutti i popoli” (Matteo 28:19).

Nei tempi apostolici, il “territorio di missione” non è una meta di viaggio esotica; è ovunque. Il territorio di missione è il tavolo della cucina, il quartiere e il posto di lavoro; la missione si estende nella nostra vita di consumatori e cittadini.

I laici cattolici, scriveva Giovanni Paolo II, hanno l’obbligo particolare di essere missionari nella cultura, negli affari e nella politica, perché la testimonianza dei laici in quei luoghi ha una credibilità speciale.

Nell’essere una Chiesa di discepoli missionari, dobbiamo usare il metodo della libertà. Come scrisse Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio, mettendo in corsivo le sue parole per enfasi, “La Chiesa propone, non impone nulla”. Ma noi dobbiamo proporre, dobbiamo invitare, dobbiamo testimoniare il grande dono che ci è stato fatto: l’amicizia con il Signore Gesù Cristo e l’incorporazione al suo corpo, la Chiesa. Come disse il Signore stesso in Matteo 10:8, poiché abbiamo ricevuto gratuitamente, gratuitamente dobbiamo dare.

La Chiesa cattolica del XXI secolo è chiamata dalla conservazione alla missione, il che significa la trasformazione delle nostre istituzioni in trampolini di lancio per l’evangelizzazione. La qualità del nostro discepolato sarà misurata da quanto bene rispondiamo a questa chiamata a condividere il dono con cui siamo stati benedetti.

 

https://www.firstthings.com/web-exclusives/2021/02/from-christendom-times-to-apostolic-times

 


venerdì 12 febbraio 2021

“IMAGINE”: IL PIÙ POPOLARE INNO ANTI-CRISTIANO COMPIE 50 ANNI!

 Ogni identità è abolita. Ma non ogni spiritualità. Quel and no religion too (e anche nessuna religione, ndr) è il colpo di grazia. O meglio, sarebbe dire ‘dell’anti-Grazia’. E non a motivo di prospettare – davvero – un mondo senza religione. Neppure l’Anticristo annuncerà ciò. Il sostituirsi a Dio non è mai per annullare il divino. Ma per identificarlo nell’uomo”

di Pierluigi Pavone

Lui morì a causa della folle gloria ricercata da Mark Chapman, fan (secondo alcuni, deluso) di John Lennon e dei “suoi ideali”. Andò ben oltre gli stessi Beatles. E nessuno – ovviamente – sta qui a disquisire sul livello di rivoluzione musicale che seppero realizzare tra il 1960 e il 1965, registrando dischi su dischi, fino alla scelta di rinunciare ai tour dopo il 1967 e di fatto fino allo scioglimento nel 1970. Nessuno, almeno qui, è interessato ad approfondire l’influenza di Yoko Ono su Lennon o la sua responsabilità sulla fine stessa dei Beatles. In sé, possiamo tralasciare anche il pacifismo direttamente legato alla guerra in Vietnam (nota a tutti è la protesta al letto presso l’Hilton Hotel di Amsterdam).

Il punto è un altro: quel singolo del 1971 è un manifesto che esprime una sintesi perfetta di ciò che significa spirito anti-Occidentale e anti-Cristiano. E il paradosso è che solo nell’Occidente cristiano poteva essere creato ed espresso: non indica infatti valori solo alternativi, quanto una radicale opposizione all’ordine religioso, politico, culturale, economico e sociale dell’Europa, come forgiata nei secoli di Roma. Non prospetta una “invasione straniera”, ma un ribaltamento, un rovesciamento – essenzialmente religioso – di ciò che chiamiamo Occidente cristiano.

Prima di tutto il sognare: ciò che la Bibbia ha spesso considerato come luogo privilegiato per un messaggio angelico o una profezia – un “privilegio” che Freud ha poi inteso come surrogato di pulsioni inespresse e castrate razionalmente –, diventa in Lennon la vera speranza. Il non sperare con lui diventa automaticamente oscurantismo e meschinità guerrafondaia. Perché, cosa altro può essere in fondo il Cristianesimo e l’Occidente tutto – da misconoscere e di cui vergognarsi senza riserve – se non l’abisso della inimicizia? Non è forse menzogna la legge, l’ordine, il Logos, come già suggerito dal serpente?  

L’utopia moderna si è quasi sempre mossa sul piano sociale o almeno a partire da quello. L’egualitarismo ideologico della indifferenziazione assoluta l’ha predicato in astratto (le isole senza tempo e spazio della letteratura) o riferendosi alla innocenza selvaggia, corrotta da famiglia e proprietà (Rousseau), o in chiave di rivoluzione politica marxisticamente pensata.

Lennon va oltre, raggiunge il cuore, con una violenza ideologica mai vista: invita non tanto a credere alle sue opinioni, quanto a sognare con lui, a sperare con lui. Il mondo forgiato dal sogno della sua religione è fede, speranza e carità dei popoli tutti. Anzi degli uomini tutti, perché anche la determinazione dei popoli va abolita, fonte di divisione e guerra. E forse l’uomo stesso, nella sua identità ultima (come coerentemente si muove il Gender).

Il sogno della pace annulla ogni distinzione: la proprietà, la tradizione, la terra per cui vivere o morire. To be as “one”. E non l’unità con Dio o di Dio, nelle Tre distinte Persone. L’Unità indifferenziata e illimitata dell’Uno-Tutto. La pace è data dall’immaginare above us only sky, senza peccato né giudizio. La pace è data perché there’s no heaven, no hell below us. (non c’è paradiso, nessun inferno sotto di noi, ndr)

Ogni identità è abolita. Ma non ogni spiritualità. Quel and no religion too (e anche nessuna religione, ndr) è il colpo di grazia. O meglio, sarebbe dire “dell’anti-Grazia”. E non a motivo di prospettare – davvero – un mondo senza religione. Neppure l’Anticristo annuncerà ciò. Il sostituirsi a Dio non è mai per annullare il divino. Ma per identificarlo nell’uomo. Non a caso la questione è quel Paradiso che l’espiazione della Croce consente alle opere potenziali di ogni uomo di meritare. E il Paradiso esige – cattolicamente – non l’anonimato della interiorità mistica e nichilista, quanto il Giudizio. Questo è il vero Reset: il nulla del peccato e del Giudizio, perché l’uomo faccia del suo stesso nulla di identità l’abisso della pretesa divinità.





https://www.sabinopaciolla.com/imagine-il-piu-popolare-inno-anti-cristiano-compie-50-anni/