venerdì 29 giugno 2018

L’INCOMPIUTA DI VENOSA


GIANFRANCO AMATO SI DIMETTE DA SEGRETARIO DEL PDF. 
La storia di questi duemila anni - e anche la storia recente del nostro paese - insegna che il segreto del cambiamento della persona come della società è il Quaerere Deum,
Il cristiano, per sua stessa natura, è chiamato ad essere un ostinato realista.
La peggiore nemica della fede è l’ideologia, e l’ideologia più velenosa è quella utopistica, perché ti immerge nell’illusione di un mondo virtuale nel quale prevalgono i sogni, i progetti, i desideri e gli schemi mentali, a discapito della nuda e cruda realtà. Ciò che un cristiano, quindi, deve sempre evitare è il rischio di scivolare verso quel processo mentale che gli anglosassoni definiscono wishful thinking, ossia una sorta di pensiero illusorio per cui uno tende a crearsi convincimenti e prendere decisioni facendosi dirigere da ciò che gli appare essere più piacevole, gradito o appagante sotto il profilo personale, arrivando al limite in cui è il desiderio a prevalere sulla stessa realtà.
Da questo punto di vista io sono un irriducibile tomista.
Per me la verità resta sempre «adequatio rei et intellectus», ossia l’adeguamento del pensiero alla realtà. Lo ricordo sempre in tutte le mie conferenze quando parlo della ideologia gender. Una mela è una mela – ricordava San Tommaso ai suoi allievi della Sorbona – come un uomo è uomo e una donna è una donna. Non sono le nostre opinioni, i nostri sentimenti, i nostri desideri a determinare la realtà, ma la realtà a condizionare le nostre opinioni, i nostri sentimenti e i nostri desideri. Ricordava, infatti, San Tommaso nella sua Summa che «appartiene alla natura stessa dell’intelletto conformarsi alla realtà delle cose».
Questo non vale, ovviamente, solo per l’ideologia gender, ma resta vero per tutti gli ambiti d’azione dell’uomo. Compreso quello politico.
Ho fatto questa lunga premessa per spiegare che oggi è impossibile qualunque analisi della situazione politica italiana che prescinda da un’oggettiva presa d’atto di una realtà mutata.
Chi si ostinasse a ragionare come se fossimo ancora al 3 marzo 2018, commetterebbe un grave errore di prospettiva e, se cristiano, un tradimento del dovere morale di non privilegiare uno schema mentale rispetto all’osservazione intera, appassionata, insistente dei fatti, della realtà. Come insegnava anche il mio maestro don Luigi Giussani.
L’esito elettorale del 4 marzo 2018, infatti, ha determinato nel panorama politico italiano un vero e proprio tzunami. Un cataclisma che ha spazzato via certezze, progetti, accordi e sogni.

mercoledì 27 giugno 2018

IL PARTITO RADICALE DI MASSA



PD: stupefacente è quanti lo votano ancora
Non il partito della rivoluzione (e del popolo) ma il partito della borghesia, attento alle aspirazioni individualiste e libertarie dei ceti medi.
LUCA RICOLFI
Per molti versi i risultati dei ballottaggi non fanno che confermare quelli del primo turno. L’elettorato si è spostato decisamente a destra, il movimento Cinque Stelle non riesce a replicare il successo delle politiche, la sinistra arranca. Se però si osservano le cose più da vicino, si possono notare anche altri elementi.
Il primo è che in diversi comuni i risultati hanno ribaltato le previsioni della vigilia, o hanno contraddetto i trend nazionali. In Sicilia, il Movimento di Grillo ha perso Ragusa, che governava da cinque anni; ma in Puglia il centro-sinistra, sconfitto alle Politiche del 4 marzo, ha vinto 10 ballottaggi su 11. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Si potrebbe osservare che la mobilità dell’elettorato italiano non è una novità, perché risale almeno ai primi anni ’90. Ma l’impressione è che ora si sia davanti a un salto di qualità. Con l’affermazione del tripolarismo, e la formazione di un’alleanza di governo del tutto inedita, gli elettori sono diventati pronti a capovolgere le proprie scelte ad ogni appuntamento elettorale, non di rado in una logica essenzialmente punitiva. Al modello della “fedeltà leggera” (cambiamenti di partito all’interno del medesimo schieramento), descritto da Paolo Natale ormai molti anni fa, sembra essere subentrato un modello che si potrebbe chiamare di “infedeltà repentina”, per cui l’elettore non si sente minimamente vincolato ad alcuna appartenenza, sia pur definita in senso lato.
E qui incontriamo il secondo elemento saliente di queste ultime tornate elettorali: la perdita, da parte del principale partito della sinistra, di molte sue roccaforti delle regioni rosse, in particolare in Toscana (emblematico il caso di Siena).
Ora il gruppo dirigente del Pd si interroga sul perché dell’ennesima sconfitta, tanto più sorprendente se si pensa che, dopo l’alleanza dei Cinque Stelle con la Lega, per i delusi di sinistra è diventato molto più difficile di prima punire il partito di Renzi votando quello di Grillo. Quel che stupisce, tuttavia, non è la sconfitta della sinistra, ma che essa sia arrivata così tardi. Personalmente trovo miracoloso che, nonostante il carattere elitario della cultura di sinistra, i ceti popolari abbiano pazientato così a lungo prima di abbandonare il partitone in cui quella cultura si incarnava. Anzi, in un certo senso, trovo che – per quel che è diventato – il Pd abbia ancora troppi voti.
Provo a spiegare queste due affermazioni, volutamente provocatorie (ho ancora un lumicino di speranza che qualcuno le provocazioni le raccolga).
La ragione per cui trovo stupefacente che la sinistra abbia mantenuto i suoi consensi fino a poco fa ha un nome e un cognome: Giorgio Guazzaloca. Ve lo ricordate? Il 27 giugno 1999 (esattamente 19 anni fa) veniva eletto sindaco di Bologna, primo sindaco non comunista della città rossa. Nella vittoria di Guazzaloca un posto centrale occupava il tema della sicurezza, che giusto in quegli anni emergeva anche in altre città del Nord (ad esempio a Torino, a Padova), e nel 2001 avrebbe contribuito non poco al trionfo elettorale del centro destra (2° punto del “Contratto con gli italiani”). Ebbene quella vittoria, avvenuta nel cuore dell’Emilia rossa, era un campanello d’allarme chiarissimo, e perciò difficilissimo da ignorare. E invece la classe dirigente del maggior partito di sinistra, con pochissime eccezioni, ci riuscì benissimo. Allora come oggi, di fronte ai timori della gente, la parola d’ordine della cultura di sinistra è sempre rimasta la stessa: dimostrare alla gente che le sue paure sono infondate. L’ho sentito ripetere ancora pochi giorni fa, in una trasmissione radiofonica, da uno dei più autorevoli giornalisti progressisti: il dovere della sinistra è “smontarle”, le paure della gente. Perciò la mia domanda non è: perché il Pd perde? Ma semmai: perché i suoi elettori hanno resistito così a lungo?
La ragione per cui trovo che il Pd abbia ancora troppi voti ha anch’essa un nome e un cognome: Emma Bonino. Così come Berlusconi non è mai riuscito a costruire un partito liberale di massa (Forza Italia è stato di massa, ma non è mai stato liberale), così Emma Bonino (con e senza Marco Pannella) non è mai riuscita a costruire un partito radicale di massa (le liste Bonino-Pannella sono state radicali, ma non di massa). Quel che non è riuscito ai radicali, tuttavia, è riuscito perfettamente al Pd: oggi il Pd è un perfetto partito radicale di massa. Se pensate ai temi su cui, specie in questa legislatura, il Pd ha puntato per definire la sua identità, trovate: unioni civili, testamento biologico, riforma carceraria, reato di tortura, ius soli, accoglienza dei migranti, Europa (ricordate lo slogan? ci vuole “più Europa”). E che cosa sono questi temi? Sono i temi tipici di un partito radicale di massa, assai più attento ai diritti civili che a quelli sociali. Ecco perché dico che il bicchiere del Pd può essere visto come mezzo vuoto ma anche come mezzo pieno. Il Pd è un partito ormai piccolo, se continuiamo a pensarlo come l’erede unico del Pci, ma è un grande partito se lo pensiamo come la realizzazione del sogno radicale.
Che queste, al di là della provocazione, possano essere in realtà due facce della medesima medaglia lo aveva perfettamente capito il grande filosofo Augusto del Noce, che nel 1978, giusto 40 anni fa, in un libro significativamente intitolato “Il suicidio della rivoluzione“, aveva coniato quella definizione, intuendo quel che il Pci sarebbe diventato: non il partito della rivoluzione (e del popolo) ma il partito della borghesia, attento alle aspirazioni individualiste e libertarie dei ceti medi.
Non c’è niente di male nell’essere un partito radicale (quasi) di massa, paladino dei diritti individuali, aperto alla globalizzazione e ai flussi migratori. Quel che stride è credersi quel che più non si è, ovvero un partito popolare, paladino dell’eguaglianza, attento ai poveri e ai diritti sociali (nel marxismo si chiama falsa coscienza, in filosofia autoinganno). Perché gli elettori possono metterci più tempo dei filosofi a cogliere i grandi cambiamenti, ma prima o poi li riconoscono.


mercoledì 20 giugno 2018

«CARI ILLUMINATI DI SINISTRA, VI SIETE MAI CHIESTI PERCHÉ GLI ITALIANI NON LA PENSANO COME VOI?»


Intervista al sociologo Luca Ricolfi

Giugno 19, 2018 Caterina Giojelli
La maggioranza dei cittadini (un terzo del Pd) «non riesce proprio a vedere il parallelismo fra disumanità nazista e disumanità salviniana».


Ieri non ha letto su Repubblica l’appello dei dodici finalisti del Premio Strega che chiedono venga revocato immediatamente l’ordine di chiusura dei porti, «ma è come se l’avessi fatto, questo genere di appelli sono tutti eguali ed estremamente prevedibili».  Solo il giorno prima Luca Ricolfi, sociologo, docente di Analisi dei dati all’Università di Torino e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, sulla scorta del sondaggio Ipsos che dava il 71 per cento degli italiani a favore della linea dura di Salvini – «non solo gli elettori che votano destra o Cinque Stelle, ma anche un terzo degli elettori del Pd» –, aveva firmato una lettera agli illuminati sul Messaggero: 

«Cari politici progressisti, cari intellettuali impegnati, cari manager illuminati, cari prelati, scrittori, cantanti, professori, conduttori televisivi, giornalisti che ogni giorno vi esercitate in accorati appelli a coltivare il senso di umanità, vi siete mai chiesti perché tanti italiani non la pensano come voi?».

In compenso, racconta a tempi.it, «ho ascoltato (sta su youtube) il pensiero di uno di questi premi-Strega, che pochi giorni fa, quando la Aquarius non era ancora arrivata a Valencia, ha confessato: “Io stesso, devo dire, con realpolitik, di cui mi sono anche vergognato, ieri ho pensato, ho desiderato che morisse qualcuno sulla nave Aquarius. Ho detto: e adesso, se muore un bambino, io voglio vedere che cosa succede del nostro governo”. Non è nemmeno il caso di specificare chi, in particolare, abbia fatto un simile miserabile ragionamento perché, a giudicare dalle non-reazioni del mondo progressista (e anzi dalle difese d’ufficio delle sue parole, che sarebbero state “estrapolate dal contesto”) viene da pensare che quel che è scappato a un singolo intellettuale sia il retro-pensiero di molti.
Un retro-pensiero che non è solo segno di mancanza di umanità ma anche di scarso interesse per il bene comune. Io trovo profondamente barbaro l’atteggiamento di chi cova in sé un odio e un disprezzo per l’avversario politico così grandi da augurarsi qualsiasi cosa possa nuocere al nemico: oggi che muoia un bambino, domani che salga lo spread e l’Italia vada a picco. E guardi che io non amo per niente questo governo, e l’unica posizione pubblica esplicita che ho preso prima del voto è stata contro Lega e Movimento Cinque Stelle, perché li ritenevo (e li ritengo) un pericolo per l’economia italiana. Ma questo non mi induce a sperare che mandino a picco il paese, tutto al contrario spero siano in grado di dimostrarmi che mi sbagliavo».

Repubblica ripropone la copertina dell’Espresso “Uomini e No”: questo schema manicheo volto a sintetizzare il problema in categorie così assolute non sembra una forma uguale e contraria agli slogan cosiddetti populisti?

No, non mi sembra uguale e contrario: mi sembra peggiore. Perché c’è una profonda differenza fra sinistra e non-sinistra. La sinistra, o meglio una componente ancora importante della sinistra, è convinta della sua superiorità etica rispetto alla destra, mentre il contrario non succede. La destra e i populisti possono detestare l’establishment di sinistra, ma raramente si sentono portatori di una superiore moralità. Quando scrissi Perché siamo antipatici? (quasi quindici anni fa) pensavo che nel giro di qualche anno la sinistra sarebbe guarita dal suo complesso di superiorità morale, ma mi sbagliavo: è migliorata molto con Veltroni e il Renzi di governo, ma è bastata la sconfitta del 4 marzo a farla tornare ai peggiori anni dell’antiberlusconismo. Forse la classe dirigente che guida la sinistra, non avendo vere soluzioni per i problemi del paese, ha bisogno di un nemico da demonizzare, disprezzare, odiare: ieri era Berlusconi, oggi è Salvini.

Ha senso dare del non-uomo a Salvini come se le sue idee circolassero in una setta marginale di fanatici? Applicare lo schema di solito utilizzato per i partiti dello zero virgola (penso a Casapound o Forza nuova)?

È vero che il fatto che le idee di Salvini piacciano a tanti, anche a sinistra, dovrebbe fare riflettere. Ma questo non preoccupa troppo la cultura di sinistra, perché quella cultura prevede (non senza motivo, a giudicare dalla storia) l’eventualità che sia la maggioranza a sbagliarsi, e sia la minoranza ad avere ragione.
Dico “non senza ragione” perché l’esperienza nazista ha dimostrato una volta per tutte che la maggioranza può benissimo avere torto. Ma il punto vero è un altro: ha senso trattare l’ondata populista come se fosse l’invasione degli Hyksos o l’ascesa del Führer? Quel che l’establishment di sinistra si ostina a non capire è che, mentre il linguaggio di Salvini e alcune sue prese di posizione sono indifendibili, la sostanza della politica migratoria di questo governo è discutibile ma non irragionevole, e per questo è appoggiata dalla maggioranza dei cittadini.
La gente pensa che Salvini voglia solo mettere un po’ di ordine (e di equità europea) nei flussi migratori. E, per quanto sia continuamente sollecitata a farlo, non riesce proprio a vedere il parallelismo fra disumanità nazista e disumanità salviniana. Anzi, si potrebbe congetturare che siano proprio l’antifascismo e l’antinazismo che legittimano Salvini: la cultura progressista, e la retorica della Resistenza, hanno tenuta viva per oltre mezzo secolo un’idea così estrema del male incarnato dal nazi-fascismo, che alla gente vien da sorridere quando personaggi come Giorgia Meloni o Matteo Salvini vengono accostati al male assoluto.

Lei ha ricordato, dati Ipsos, che il 71 per cento degli italiani è a favore della linea dura di Salvini basata sulla chiusura dei porti, tra questi un terzo degli elettori del Pd: cosa è successo? Quando e per quale ragione il dubbio sulle politiche di accoglienza ha iniziato a serpeggiare in quello che lei ha definito «l’elettorato malconcio del Pd»?

Il dubbio c’è sempre stato, negli ultimi 20 anni, ma la moltiplicazione degli sbarchi dopo le cosiddette primavere arabe e la crisi libica ha determinato un salto di qualità. Però, più ancora degli sbarchi, ha contato l’atteggiamento negazionista (“l’immigrazione non è un problema, è una risorsa”) di tutto l’establishment politico della sinistra, con l’unica tardiva eccezione di Marco Minniti.

Qual è il nocciolo del problema migratorio e chi è oggi il vero nemico dei migranti?
Il nocciolo del problema, come ha spiegato lo storico britannico Niall Ferguson su The Times, è che l’Europa non può accogliere che una piccola parte degli africani che vorrebbero trasferirvisi, nel 90 per cento dei casi non in quanto rifugiati ma in quanto portatori di legittime aspirazioni a cambiare la propria vita.
Chi è il nemico dei migranti? I migranti hanno molti nemici, a partire dai trafficanti d’uomini, ma il nemico più grande sono le classi dirigenti dei loro paesi, che hanno lasciato quei paesi in balia della povertà, del disordine, dell’arbitrio e della corruzione. Una condizione che potrà cambiare sul serio, se mai cambierà, quando i cittadini di quei paesi si convinceranno che la soluzione è sostituire i propri governanti, non fuggire verso i paesi che hanno governanti migliori.

 TRATTO DA TEMPI


martedì 19 giugno 2018

FEDE E POLITICA


 OMELIA DEL CARD. JOSEPH RATZINGER

Quest’omelia è stata tenuta il 26 novembre 1981 durante una liturgia per i deputati cattolici del parlamento tedesco nella chiesa di San Winfried a Bonn. Le letture erano quelle della liturgia del giorno: IPt 1,3-7 e Gv 14,1-6.

L’epistola e il vangelo, che abbiamo appena sentito, derivano da una situazione, in cui i cristiani non erano soggetti attivi dello Stato ma erano perseguitati da una dittatura crudele. Non era loro consentito di portare insieme con altri lo stato, ma potevano soltanto sopportarlo. Non era loro consentito di formare uno stato cristiano. Il loro compito era di vivere da cristiani nonostante lo stato. I nomi degli imperatori al potere, nel periodo in cui la tradizione colloca la data di entrambi i testi, bastano ad illuminare la situazione: si chiamavano Nerone e Domiziano. Così anche la prima lettera di Pietro definisce i cristiani come «dispersi» o stranieri in un simile stato (1,1) e denomina lo stato stesso come «Babilonia» (5,13). Essa indica in tal modo incisivamente la situazione politica dei cristiani di allora: corrispondeva in qualche modo a quella degli ebrei esiliati a Babilonia, che non erano soggetto ma oggetto di quel potere e che perciò dovevano imparare come avrebbero potuto sopravvivervi e non come avrebbero potuto realizzarlo. Lo sfondo politico delle letture odierne è dunque radicalmente diverso da quello attuale. Tuttavia contengono tre affermazioni importanti, con un significato anche per l’azione politica fra cristiani.
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1) Lo stato non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana.L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno stato che si chiama Babilonia, ma per ogni genere di stato. Lo stato non è la totalità. Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale. Lo stato romano era falso e anticristiano proprio perché voleva essere il totum delle possibilità e delle speranze umane. Così esso pretende ciò che non può; così falsifica ed impoverisce l’uomo. Con la sua menzogna totalitaria diventa demoniaco e tirannico. L’eliminazione del totalitarismo statale ha demitizzato lo stato ed ha liberato in tal modo l’uomo politico e la politica.
Ma quando la fede cristiana, la fede in una speranza superiore dell’uomo, decade, insorge allora di nuovo il mito dello stato divino, perché l’uomo non può rinunciare alla totalità della speranza. Anche se simili promesse si atteggiano a progresso e, rivendicano per sé in assoluto il concetto di progresso, esse sono tuttavia, storicamente considerate, una retrocessione a prima della Novità cristiana, una svolta a rovescio della scala della storia. Ed anche se esse vanno propagandando come proprio scopo la perfetta liberazione dell’uomo, l’eliminazione di qualsiasi dominio sull’uomo, sono tuttavia in contraddizione con la verità dell’uomo e in contraddizione con la sua libertà, perché costringono l’uomo a ciò che può fare egli stesso. Una simile politica, che fa del regno di Dio un prodotto della politica e piega la fede sotto il primato universale della politica, è per sua natura politica della schiavitù; è politica mitologica.
La fede oppone a questa politica lo sguardo e la misura della ragione cristiana, la quale riconosce ciò che realmente l’uomo è in grado di creare come ordine di libertà e può così trovare un criterio di discrezione, ben sapendo che l’aspettativa superiore dell’uomo sta nelle mani di Dio. Il rifiuto della speranza che è nella fede è, al tempo stesso, un rifiuto al senso di misura della ragione politica. La rinuncia alle speranze mitiche propria della società non tirannica non è rassegnazione, ma lealtà che mantiene l’uomo nella speranza. La speranza mitica del paradiso immanente autarchico può solo condurre l’uomo allo smarrimento: lo smarrimento davanti al fallimento delle sue promesse e davanti al grande vuoto che è in agguato; lo smarrimento angoscioso per la propria potenza e crudeltà.
Il primo servizio che la fede fa alla politica è dunque la liberazione dell’uomo dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo. Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo; limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica.
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TRUMP IL G7 E L’ABORTO



UN SEGRETO BEN CUSTODITO


Tra le censure che caratterizzano l’attuale ordine costituito dei media nel nostro Paese (ma anche altrove) una delle più clamorose è quella che riguarda la politica del presidente Trump a proposito dell’aborto. A prescindere dal giudizio che si può dare sul resto della sua prassi di governo, si tratta di qualcosa che merita ovviamente una valutazione a parte.
Justine Trudeau, Presidente del Canada

Già in altre occasioni ricordavamo, e quindi non vi ritorniamo sopra qui nel dettaglio, che quella della banalizzazione e quindi della legalizzazione dell’aborto nel mondo non è affatto la marcia trionfale che ci raccontano. In sede di Assemblea generale delle Nazioni Unite c’è una maggioranza a ciò stabilmente contraria; e l’opposizione è crescente in tutti i paesi dove l’aborto è legale da lunga data. Il fenomeno risulta di particolare rilievo negli Stati Uniti, a conferma tra l’altro del fatto che — diversamente da quanto spesso si pretende in Italia — il no all’aborto non è affatto una “cosa cattolica”. In realtà, diciamo noi, è in primo luogo una cosa umana. Ciò fermo restando, sta di fatto che negli Usa il movimento anti-abortista è per lo più di ambiente protestante. E ai protestanti si aggiungono non solo i cattolici ma anche un numero consistente di quelli che noi chiameremmo “laici”: persone che sono contrarie all’aborto in nome di quel vitalismo che è una componente tipica della mentalità comune americana.
In questo quadro l’elezione di Trump ha segnato una svolta anche a livello istituzionale. In campagna elettorale egli si era apertamente schierato per la vita promettendo che, se fosse stato eletto, avrebbe sospeso l’erogazione di finanziamenti federali alle fondazioni, tra cui in primo luogo Planned Parenthood, che praticano gli aborti in loro appositi ambulatori. Al contrario Hillary Clinton lo sosteneva a spada tratta e aveva promesso, in caso di sua vittoria, ulteriori finanziamenti a Planned Parenthood.

Negli Stati Unit ad ogni modo né la sanità pubblica né le casse sanitarie private riconoscono ipso facto l’aborto come una forma di cura (come d’altra parte non è). Perciò di regola non lo si pratica negli ospedali, ma appunto in strutture apposite, e non fa parte delle prestazioni ordinariamente fornite nel quadro dei servizi sanitari. La legislazione sull’aborto è poi di competenza degli Stati e non del governo federale. Obama tuttavia lo sosteneva in modo indiretto appunto con finanziamenti come  quello che Trump ha adesso sospeso.

In sede internazionale a premere per la diffusione dell’aborto legale nel mondo sono principalmente i Paesi del Nord Europa, il  Canada e altri Paesi sviluppati di tradizione  anglosassone, e a opporre resistenza sono invece l’Africa e molta parte dell’Asia, dell’America Latina e dei Caraibi.
In tale quadro il fatto che con Trump gli Usa siano passati da un campo all’altro è ovviamente una novità di cruciale importanza. Se fosse avvenuto il contrario tutta la stampa italiana più diffusa ne avrebbe dato la notizia con grandi squilli di trombe. Stando invece così le cose la consegna è il silenzio. E il bello è che pure il giornali e telegiornali cattolici ufficiali e ufficiosi tengono la bocca ben chiusa confermando la loro subalternità all’élite post-illuminista, variamente vicina all’area erede del Pci, che è la razza padrona della stampa italiana. Perdono così tra l’altro l’occasione per far scoprire ai loro lettori quanto la questione dell’aborto non sia appunto una “cosa cattolica”.
Un’importante conseguenza della posizione del governo Trump in tema di aborto si è avuta nel caso recente vertice del G 7 in Canada. Facendo leva sulla sua posizione di Paese organizzatore dell’incontro il Canada del premier Justin Trudeau, che è  schierato a tutta forza a favore della diffusione dell’aborto, ha tentato di introdurre ufficialmente la questione (come pure quella del “gender”) nell’agenda dei lavori dell’incontro, ma ha dovuto recedere di fronte al “no” della delegazione statunitense. 
E’ rimasta così nel cassetto la bozza di un documento in cui si voleva che i Paesi del G 7 si schierassero in blocco contro la “criminalizzazione e le regolamentazioni restrittive dell’aborto”  e a favore dell’ “inclusione  nel concetto di assistenza umanitaria anche della legalizzazione dell’aborto, della sua promozione e del suo finanziamento con fondi pubblici”.  
Qualcuno in Italia è venuto a saperlo? In tutta la valanga di luoghi comuni scritti e audiovisivi sul G7, da cui per giorni siamo stati sommersi, di questa vicenda non c’era traccia.
18 giugno 2018

STUDI VIETATI AGLI STUDENTI CATTOLICI


Canada vieta l'iscrizione per “discriminazioni di persone LGBT”


Una sentenza della Corte suprema canadese vieta l'iscrizione alle scuole di sviluppo professionale agli studenti provenienti da università cattoliche, ecco di cosa si tratta

Hai studiato in una scuola o in una università cattolica? Be', ci dispiace ma non la ammettiamo agli studi di specializzazione e agli istituti di formazione lavoro. E' quello che ha stabilito la Corte superiore canadese, un paese sempre più votato all'ateismo di stato come ai vecchi tempi della Russia sovietica, che ha detto che le cosiddette "law societies", istituti di specializzazione successivi alla laurea che permettono la formazione professionale, possono rifiutarsi di accettare studenti provenienti da università o scuole religiose  perché gli istituti religiosi, dicono, discriminano gli studenti LGBT. Altro esempio: siccome per statuto di iscrizione gli studenti della Trinity Western University, una università cattolica, devono astenersi per regola dai rapporti sessuali prima del matrimonio, la Corte suprema ritiene questa regola discriminatoria.
CANADA SEMPRE PIÙ PRO-LGBT
La Trinity Western ha ottenuto nel 2012 dal ministero dell'istruzione e dalla Federazione delle Law Societies l'autorizzazione ad aprire la propria "law school", ma la Federazione oggi ritiene che la visione sessuale dell'università sia discriminatoria e contraria alla popolazione LGBT. L'Alta Corte dello stato della British Columbia in realtà ha sentenziato che non si possono negare iscrizioni di studenti in base al loro credo religioso, ma due associazioni hanno fatto appello alla Corte Suprema che ha sentenziato che, volendo, le "law school" possono rifiutare l'iscrizione a chi proviene dalla Trinity Western. Nella sentenza si legge che questa decisione è il riconoscimento del dovere dello stato. Secondo uno dei responsabili dell'università cattolica, "La libertà di religione e di associazione non è essenziale solo per le organizzazioni basate sulla fede, ma per il funzionamento della democrazia stessa. Seguendo questa sentenza, quella libertà vitale è ora in pericolo".
IL SUSSIDIARIO

MIGRANTI USA


Bambini separati dalle famiglie: è ora di rimettere insieme politica e cuore
La politica anti immigrazione di Donald Trump divide le famiglie messicane: anche la moglie Melania è contro di lui. Diario da un Paese che ha perso il cuore.

RIRO MANISCALCO

 Esiste un modo per osservare i fatti e giudicarli secondo criteri certi, veri, radicali, quelli iscritti nell'anima di ognuno? Detto con le parole che Melania Trump ha tirato fuori l'altro giorno, si può essere un paese che osserva le leggi ma che governa col cuore?
Mentre l'Europa litiga e si sfilaccia sulla questione degli immigrati, noi, l'America, la terra divenuta casa di milioni e milioni di immigrati "liberi" e "coraggiosi" (come cantiamo nell'inno nazionale) osserviamo la tragedia di famiglie separate in nome della legge: oltre duemila bambini strappati alle loro mamme e raccolti in strutture rimediate, da capannoni dismessi di Walmart a scuole abbandonate. Oltre duemila tra i confini del Texas e le strade a pedaggio del New Jersey e tutti radunati in queste ultime settimane. 
Certamente non c'è solo Melania a sollevare dubbi sull'operato dell'amministrazione Trump in questo tentativo di inasprimento radicale dell'immigrazione clandestina. Santa Romana Chiesa ha sempre avuto una posizione netta rispetto alla questione e proprio in questi ultimi giorni l'arcivescovo José Gomes, vicepresidente della Conferenza episcopale statunitense, ha pubblicamente denunciato questa pratica di separare genitori e figli, quantificandola sia come entità (ogni giorno una sessantina di bambini sono strappati alle loro famiglie) che come inutile costo per il paese (oltre 200 dollari persona/giorno). Ci sono persino vescovi che invocano "penalità canoniche" contro chi armeggia alla messa in atto di queste policies di violenza alle famiglie ed alla vita in quanto tale, paragonabili — parole dei vescovi — alla pratica dell'aborto. 
A leggere le storie di questa gente vien da piangere. Tutti in fuga da miseria, violenza, tutti alla ricerca di un briciolo di sogno americano, magari in edizione tascabile e super-economica sotto forma di un tetto per i propri figli ed un lavoro qualsiasi nella speranza di un domani. Storie diverse da quelle che vivete voi eppure profondamente uguali: ci sono Messico, Guatemala, Honduras, El Salvador invece del Middle East e del Nord Africa, il Rio Grande invece del Mediterraneo, povertà e criminalità feroce invece di guerre, tutte piaghe incurabili che nessuno sa guarire. E noi dall'altra parte del muro, di là del mare alla ricerca di un criterio giusto, intrappolati come siamo tra un comprensibile voler tutelare quello che riteniamo essere il nostro interesse ed il cuore che ancora c'è e non ama confini di nessun genere. Allora magari arriva la politica a soccorrerci, a levarci dallo stomaco il peso di una scelta e di un sacrificio che capiamo essere imminente ma al tempo stesso sconosciuto. Lasciamo allora che sia la politica, che siano le forze dell'ordine e magari gli accordi internazionali ad imporre il criterio "giusto" — purché non costi nulla a me, al mio benessere, alla mia quotidianità, ai miei soldi. 
C'è un modo disumano di guardare all'umanità, soprattutto all'umanità ferita, ed è quello di pensare che a me non è chiesto nulla. Chi ci ha insegnato a guardare l'altro come un estraneo e non come un fratello? Proprio ieri mi son ritrovato a fissare la prima pagina del New York Times. Leggevo e sentivo qualcosa di stonato, poi ho capito. Non da voi, ma da noi ieri era "Father's Day", la "Festa del Papà" — e su cos'era l'articolo principale del NY Times? Sulla mancanza di tutela della maternità negli Stati Uniti d'America. Verissimo, ma perché tirarlo fuori nel giorno dei "Padri" quasi a voler generare distanza, rivalità o inimicizia? Forse che un padre può essere tale senza una madre?
Che la politica si adoperi per trovare quegli equilibri la cui creazione è parte del suo compito, e che tutti gli uomini di buona volontà quando dicono "Padre Nostro" permettano al cuore di capirne il significato elementare ed alla ragione di indicare il passo. 


venerdì 15 giugno 2018

CAOS MIGRANTI INTERVISTA A MONS. PENNISI


Europa irresponsabile, serve un'ospitalità condivisa
Mentre Francia e Italia si scontrano sulle politiche di accoglienza, la nave Diciotti è arrivata a Catania con 932 migranti. Il commento di MICHELE PENNISI, arcivescovo di Monreale (Palermo)

14 GIUGNO 2018 ilsussidiario 
I paesi europei hanno lasciato l'Italia sola. Integrare si può e si deve, ma con intelligenza: non si possono accogliere tutti, dice al Sussidiario mons. Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale (Palermo). La Sicilia è la frontiera dell'immigrazione italiana, e proprio mentre Francia e Italia si scontrano sulle politiche di accoglienza, la nave Diciotti è arrivata a Catania con 932 migranti. 
Monsignor Pennisi, cosa pensa del caso Aquarius
Si tratta di una situazione ambigua, perché gli immigrati sono stati trasbordati sull'Aquarius anche da navi militari italiane (la motovedetta della guardia costiera italiana CP319, ndr). Poco fa è attraccata a Catania la nave Diciotti, con quasi mille migranti a bordo. Che gli altri siano stati lasciati in balia del mare, mi pare una cosa strana.
E cosa pensa di questo cambio di passo nelle politiche migratorie italiane?
Obiettivamente, il passo compiuto dal governo di alzare un po' la voce ha richiamato l'Europa alle sue responsabilità. L'Unione Europea non può limitarsi a pacche sulle spalle e telefonate di solidarietà, deve affrontare in modo responsabile questo fenomeno che non è di breve durata ma epocale. Però i paesi europei hanno lasciato l'Italia sola, questo va detto.
E adesso?
Alzare la voce qualcosa può smuovere, ma non risolve il problema. Tocca agli Stati rendersi reciprocamente interlocutori per affrontarlo in modo serio. Il regolamento di Dublino va cambiato, ma anche qui c'è qualcosa di contradditorio: i governi amici del nostro attuale governo sono quelli (il gruppo di Visegrad, ndr) che poi nei fatti hanno chiuso a che tutti i paesi europei possano accogliere una quota di immigrati.
A questo proposito, che soluzione auspica?
Se il flusso dei migranti venisse suddiviso in modo ragionevole fra Grecia, Malta, Italia, Francia e Spagna e se anche altri paesi fossero ricettivi, faremmo un serio passo avanti. 
Il governo intende consentire di sbarcare solo a navi militari italiane, non a quelle di Ong, che sono a tutti gli effetti navi private. 
Non si può generalizzare. Conosco Ong che fanno un lavoro umanitario assolutamente meritorio, ma qualcuno nutre il sospetto, da provare, che qualche Ong abbia un accordo con i mercanti libici di carne umana. 
Lei che dice?
Se queste Ong impegnate sul campo battono bandiera tedesca, olandese, spagnola eccetera, perché Germania, Olanda, Spagna non si fanno carico di quei migranti? Potrebbero attraccare in un porto italiano e poi far proseguire le persone nei paesi di destinazione.
Qual è la soluzione che la convince di più?
Quella dei corridoi umanitari, perché con la collaborazione di ambasciate e consolati si identificano le persone bisognose di protezione e il loro viaggio è tutelato. Ho conosciuto un immigrato che ha speso 7mila euro per venire in Italia dal Bangladesh e poi è stato derubato in Libia.
La crisi migratoria nasce nell'Africa subsahariana. Senza un impegno su quel fronte, non resteremo sempre impotenti?
Non conosco bene gli Stati dell'Africa subsahariana, tranne il Burkina Faso dove un mio ex alunno è direttore della Caritas della capitale, però posso dire senz'altro che laggiù l'Europa non c'è. Ci sono le organizzazioni umanitarie, ci sono i singoli stati, e tra questi la Cina, che fanno i loro interessi. Ogni politica di sviluppo funziona se le persone vengono aiutate sul posto. Conosco la Tanzania, è uno Stato con una stabilità politica, laici e gruppi cristiani di ogni confessione stanno investendo molto in istruzione e sanità, anche la mia diocesi ha fatto la sua parte: abbiamo attrezzato una sala parto in un villaggio, tempo addietro abbiamo costruito asili, un convitto per ragazze di un liceo scientifico. La Tanzania non solo in questi anni non ha mandato nessun migrante, ma ha accolto circa un milione di profughi dagli Stati confinanti. 
Qual è il cuore di una vera politica di sviluppo?
Un aiuto alle persone fuori da logiche speculative. Purtroppo la collaborazione internazionale fatta attraverso i governi spesso ha finanziato i governi locali, non le opere e i popoli.
E il cuore di una politica migratoria?
Saper tenere conto di vari fattori, prima di tutto l'accoglienza ma anche la sicurezza.
Si possono accogliere tutti?
No. Occorre un'accoglienza aperta, benevola ma equa. Di nuovo, parlo delle realtà che conosco, non mi pronuncio su ciò che accade da altre parti. In Sicilia la gente è accogliente, ci sono comuni dove gli immigrati, invece di essere fatti oziare, vengono impiegati in piccoli lavori socialmente utili. E' un inizio di integrazione, a mio modo di vedere fondamentale. Nella mia diocesi c'è un piccolo comune, Roccamena, dove un bambino immigrato è stato battezzato, il sindaco gli ha fatto da padrino, è stata una festa per tutti. Nel  comune Balestrate in questi giorni si svolge un campo estivo per bambini da 3 a 5 anni al quale partecipano due bimbi nigeriani, due cinesi e alcuni venezuelani. A Montelepre si tiene ogni anno una sacra rappresentazione della Bibbia con centinaia di personaggi, in questi anni si sono coinvolti anche i migranti. 
Avete strutture diocesane che ospitano immigrati?
No, lo facciamo nelle parrocchie, dove questo è possibile, a spese nostre, senza volere nulla dalla prefettura. La Caritas mi ha detto che in questi anni abbiamo accolto circa 750 migranti spendendo 30mila euro dei fondi dell'8 per mille. Possiamo provvedere all'emergenza, poi tocca alle prefetture.
Perché ci tiene a sottolinearlo? 
Perché le soluzioni non possono essere estemporanee, le persone vanno sistemate in modo dignitoso altrimenti l'accoglienza diventa controproducente.
Cosa pensa dell'ipotesi di rimandare indietro i migranti economici?
Non sono d'accordo, la Sicilia è stata per decenni una terra di emigrazione, e lo è stata per necessità economiche. Non è facile distinguere, mi rendo conto, e certamente la cosa va razionalizzata. Non si possono accogliere tutte le persone possibili e soprattutto quelle che si accolgono bisogna integrarle. Perché questo avvenga al meglio ci vogliono centri piccoli, vedere fino a 4mila persone di etnie e religioni diverse in un Cara (centro accoglienza richiedenti asilo, ndr) come quello di Mineo non ha senso, fa male a noi e a loro.
Dal punto di vista operativo, quali sono i pilastri dell'integrazione?
Una organizzazione di carattere amministrativo molto efficiente, persone culturalmente senza pregiudizi e rispetto della sicurezza. Se qualcuno delinque, deve sapere che viene subito rispedito a casa.
(Federico Ferraù)