lunedì 31 ottobre 2022

PACE, IL DOCUMENTO DEI CATTOLICI PER IL 5 NOVEMBRE

Antonio Socci su Libero commenta il documento dei movimenti e delle associaizoni cattoliche in favore della manifestazione pacifista del 5 novembre. E invita la destra a fare proprio il messaggio di Papa Francesco.



Giorgia Meloni prepara i suoi primi viaggi. Si parla di Washington, forse Kiev e poi il G20. Ma la data che dovrà tenere d'occhio è anzitutto quella delle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, l'8 novembre. Infatti è probabile che dopo quel voto cambi l'atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della guerra in Ucraina (soprattutto se Biden e i Democratici faranno naufragio nelle urne).

Come ha rilevato Eugenio Mazzarella, in un editoriale su Avvenire, oltreoceano si comincia a capire che - di fronte allo spettro sempre più minaccioso di una guerra mondiale e nucleare - «è tempo di offrirgli (a Putin, ndr) una via d'uscita, non per lui, ma per la Russia. Dopo Kissinger, in America, dove ci sono meno "atlantisti" duri e puri che da noi» ha sottolineato Mazzarella «anche Obama ha fatto notare i rischi della corda tesa su cui sta ballando l'Amministrazione Biden, già suo vice. E ha formulato espliciti inviti a "concessioni" su Crimea e Donbass che tolgano ogni alibi a Putin per farlo sedere a un tavolo di pace. Il che non significa abbandonare Zelensky, ma fargli intendere che non può interpretare il sostegno dell'Occidente come avallo a ogni intransigenza e al rifiuto di chiudere la guerra».

Alla base di questo ragionamento, che esprime la posizione del giornale della Cei, c'è la convinzione che nessuno può "vincere" questa guerra. Possiamo solo perderla tutti. A proposito di Avvenire e della Chiesa, inizia la settimana delle manifestazioni per la pace: in particolare quella del 5 novembre.

Il Centrodestra dovrà guardarsi dall'errore di fare di tutta l'erba un fascio, confondendo - nella polemica contro i "pacifinti" - la posizione del Pontefice con quella del Pd, perché sono due posizioni diametralmente opposte. Oltretutto dentro lo stesso Pd si scontrano idee antitetiche (per esempio l'ex ministro Guerini e il governatore De Luca). Il segretario Letta appare imbarazzatissimo. Nei mesi scorsi non si è limitato a sposare la linea ultrabellicista di Draghi e di Biden, ma ha preteso di fare il giudice che assegna agli altri patenti di ortodossia atlantica o bolli di putinismo. Che ora cerchi di far intruppare il Pd nelle manifestazioni per la pace può solo esporlo alle polemiche, agli attacchi e alle ironie.

 Il Centrodestra dovrebbe distinguere il confuso opportunismo del Pd (o i rigurgiti anti occidentali della Sinistra radicale) dalla posizione lineare e illuminata del Pontefice. Altrimenti farà un enorme regalo a questa Sinistra divisa collocandola a fianco dell'unica lucida e coerente autorità morale, papa Francesco, che in questi otto mesi - pressoché da solo - ha esortato tutti alla ragionevolezza e al senso di umanità, dicendo verità scomode a ogni parte in causa. Quanto sia lontana la posizione del Pd (e del governo Draghi) da quella del Papa lo mostrano queste parole di Francesco pronunciate il 24 marzo scorso, all'inizio del conflitto: «La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari ma un'altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo e di impostare le relazioni internazionali». Il Papa è rimasto inascoltato per tutti questi mesi dal governo Draghi e dagli altri governi. Oggi, dopo molti morti e distruzioni, si comincia a capire che se non si usa la logica negoziale che lui indica non si esce dall'incubo e si rischia sempre più la catastrofe. Bisogna però riconoscere che il Papa, in questi mesi, è rimasto inascoltato anche dentro la Chiesa. 

Tanto è vero che i «movimenti cattolici ed ecumenici» che lanciano la manifestazione del 5 novembre per il cessate il fuoco immediato e il negoziato, sono in ritardo di otto mesi. Oggi sottoscrivono l'appello "Insieme a Francesco, per la pace", dove si trovano citate quelle parole del Papa, ma in tutti questi mesi, in cui il Pontefice ha instancabilmente fatto risuonare la sua voce, chi li ha visti? 

A "Comunione e Liberazione" il Papa ha dovuto domandarlo esplicitamente, nell'incontro del 15 ottobre scorso: «vorrei chiedervi un aiuto concreto per oggi, per questo tempo. Vi invito ad accompagnarmi nella profezia per la pace - Cristo, Signore della pace! Il mondo sempre più violento e guerriero mi spaventa davvero, lo dico davvero: mi spaventa». Non fu così al tempo di Giovanni Paolo II e delle guerre in Iraq, quando il papa fu subito seguito dal mondo cattolico che fece sentire la sua voce molto energicamente. Perché non è accaduto anche stavolta? I motivi sono vari. 

Anzitutto i movimenti cattolici più vivaci (per esempio CL) oggi sono solo un pallido e confuso fantasma di ciò che erano allora. E non ritrovano la retta via. In secondo luogo le leadership delle associazioni cattoliche, a differenza delle basi, in genere gravitano in area Pd/Renzi, partiti che hanno tenuto, fin dall'inizio, una linea ultra bellicista. Inoltre fino a pochi giorni fa a Palazzo Chigi c'era l'"americano" Mario Draghi, che è stato il vero leader del "partito della guerra" in Europa. Si ricorderà la (disastrosa) standing ovation che il Meeting guidato da Giorgio Vittadini gli ha tributato ancora a fine agosto. Fu emblematica. 

E Sant' Egidio? L'Azione Cattolica? Le Acli? La Fuci? Hanno mai manifestato contro il governo Draghi sulla guerra? Non risulta. Oggi che c'è un governo di Centrodestra hanno ritrovato la parola. Tuttavia, a parte questi aspetti discutibili dei gruppi cattolici, la Meloni dovrebbe ascoltare con molta attenzione papa Francesco e appoggiare la sua azione di pace. Lui è stato l'unico coerente e saggio. Ed è l'unico vero leader mondiale.

LA SQUADRA DI FRANCESCO AL COMANDO DELLA CHIESA. TUTTA DI GESUITI

Incredibile ma vero. Proprio ora che ha perso in pochi decenni una buona metà dei suoi effettivi, la Compagnia di Gesù è assurta ai vertici di comando della Chiesa cattolica come mai in passato.

Di Francesco si sa. È il primo papa gesuita della storia: lui che pure aveva più avversari che amici dentro la Compagnia e si guardava bene dal mettere piede nella sua curia generalizia, tutte le volte che da cardinale veniva a Roma.

Ma la novità è che in quest’ultima fase del suo pontificato – declinante per età ma non per ambizioni – Francesco si è dotato di una agguerrita squadra d’attacco, tutta sua e tutta fatta di gesuiti.

Francesco e il Card. Jean-Claude Hollerich
Il numero uno di questa squadra è indiscutibilmente il cardinale Jean-Claude Hollerich (nella foto), arcivescovo di Lussemburgo. Numero uno, nei piani di Jorge Mario Bergoglio, sia per l’oggi che per il domani.

Per l’oggi il compito assegnatogli da Francesco è di pilotare, come relatore generale, il sinodo mondiale che ha preso il via nel 2021 e che durerà almeno fino al 2024 ma nella mente del papa anche oltre, con il compito di rimodellare la Chiesa all’insegna, appunto, di una “sinodalità” permanente.

Mentre per il domani non è un mistero che Hollerich sia anche il candidato “in pectore” di Francesco per la sua successione, sulla quale il sinodo in corso avrà un peso determinante, obbligando di fatto il futuro papa – chiunque sarà – a prenderlo in consegna e a continuarne il “processo”, un po’ come toccò a Paolo VI con il Concilio Vaticano II ereditato da Giovanni XXIII.


Di questo sinodo mondiale la prova generale è quella in corso in Germania, che sta già contagiando altre Chiese nazionali senza che Francesco vi opponga alcun freno efficace, con l’immancabile litania di riforme alla moda, che vanno dai preti sposati alle donne prete, dalla nuova morale sessuale ed omosessuale alla democratizzazione del governo della Chiesa.

Impossibile non ricordare che alcune di queste erano le riforme che un altro grande gesuita, il cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012), aveva incluso nell’agenda della Chiesa futura, in un suo memorabile intervento del 1999. Di Martini si sa che aveva un giudizio negativo di Bergoglio, ma i sostenitori dell’attuale pontificato hanno buon gioco a fare di lui il “profeta” delle riforme a cui Francesco starebbe finalmente aprendo la strada e delle quali Hollerich si è già dichiarato più volte a favore.

“L’Osservatore Romano” ha pubblicato lo scorso 24 ottobre un’intervista programmatica a tutto campo con questo colto cardinale gesuita con alle spalle ventisette anni di missione in Giappone. E in essa egli ha ancora una volta auspicato “un cambiamento di paradigma” nella pastorale e nella dottrina della Chiesa in materia di omosessualità, perché anche gli omosessuali “sono frutto della creazione” e quindi non sono “mele guaste” ma “cosa buona”. Certo, non c’è spazio – ha aggiunto il cardinale – per un matrimonio sacramentale tra persone dello stesso sesso, perché lì manca il fine procreativo che caratterizza un matrimonio, “ma questo non vuol dire che la loro unione affettiva non abbia nessun valore”.

E al direttore de “L’Osservatore Romano” che gli faceva notare che i vescovi del Belgio si sono pronunciati a favore della benedizione delle unioni omosessuali, Hollerich ha risposto: “Francamente la questione non mi sembra decisiva. Se rimaniamo all’etimologia di ‘bene-dire’, pensate che Dio possa mai ‘dire-male’ di due persone che si vogliono bene?”.

(...)


Ma oltre a Hollerich, vi sono altri due gesuiti che Francesco ha fatto recentemente cardinali e ha messo in squadra in ruoli importanti.

Il primo è il canadese Michael Czerny, per molti anni più concorrente che collaboratore del cardinale ghanese Peter K. A. Turkson prima nel pontificio consiglio della giustizia e della pace e poi nel dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, di cui ora è diventato prefetto. Czerny è stato anche segretario speciale del sinodo per l’Amazzonia. Dalla difesa della natura ai migranti, ai “movimenti popolari”, è il cardinale di cui Bergoglio si avvale in questi campi da lui prediletti.

Il secondo è l’italiano Gianfranco Ghirlanda, già rettore della Pontificia Università Gregoriana e navigato esperto in diritto canonico. Tra i suoi compiti c’è quello di tradurre in disposizioni giuridiche gli atti d’imperio che Francesco compie col piglio d’un monarca assoluto. È di Ghirlanda, ad esempio, la sbrigativa chiusura dell’annosa disputa teologica tra poteri di ordine, cioè derivanti dall’ordinazione episcopale, e poteri di giurisdizione, cioè conferiti da un’autorità superiore, optando per i secondi al fine di collocare anche dei laici, uomini o donne, a capo della curia vaticana, col semplice mandato del papa. E sono sempre di Ghirlanda, nel suo ruolo di “factotum” giuridico al servizio di Francesco, l’azzeramento e la rifondazione imposti dal papa all’Ordine di Malta.


Ma non è tutto. Anche tra i gesuiti non cardinali ve ne sono alcuni che il papa ha collocato in ruoli chiave, a suo servizio.

Nella segreteria generale del sinodo dei vescovi c’è un consultore che di fatto è il collaboratore più stretto del cardinale Hollerich. È padre Giacomo Costa, già direttore della rivista “Aggiornamenti Sociali” dei gesuiti di Milano e vicepresidente della Fondazione Carlo Maria Martini.

Per non dire di padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica” e vicinissimo a Francesco fin dalla sua elezione a papa, anche lui molto attivo e pressante nel promuovere il sinodo mondiale sulla sinodalità e in particolare nel coinvolgere nell’avventura – con l’aiuto importante del suo predecessore a “La Civiltà Cattolica” Bartolomeo Sorge (1929-2020) – la conferenza episcopale italiana, inizialmente molto diffidente.

E poi c’è il capitolo delle finanze vaticane, dove Francesco ha nominato il gesuita spagnolo Juan Antonio Guerrero Alves prefetto della segreteria per l’economia, l’ufficio che sovrintende all’intero settore.

Inoltre, da un paio d’anni c’è un gesuita anche alla Basilica di San Pietro, a fianco del cardinale arciprete Mauro Gambetti, vicario generale del papa per la Città del Vaticano. È Francesco Occhetta, segretario generale della Fondazione “Fratelli tutti” e fino al 2020 notista politico per “La Civiltà Cattolica”.


E c’è un gesuita anche tra i vescovi ausiliari della diocesi di Roma di cui è vescovo il papa: Daniele Libanori, al quale è affidata la cura pastorale del centro della città.


Col papa i nomi elencati fanno nove. E con Sorge e il “profeta” Martini undici, naturalmente senza mettere nel conto il cardinale Ladaria. Una squadra così, tutta di gesuiti, mai s’era vista al comando della Chiesa.

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 tratto da SETTIMO CIELO di Sandro Magister

domenica 30 ottobre 2022

IL "DIRITTO ALL'ABORTO" NON ESISTE LO DICE ANCHE LA 194

LEONARDO LUGARESI

Vedo che oggi tutti parlano tranquillamente di “diritto all’aborto”, dando per scontato che esista, sia che lo facciano per accusare il nuovo governo di minacciarlo, sia che si sbraccino per assicurare, al contrario, che nessuno lo toccherà. In realtà, tale presunto diritto in Italia non è sancito da alcuna alcuna legge, neanche dalla legge 194 del 1978, quella che “la legge sull’aborto non si tocca!”. Anche senza toccarla, basta leggerla. E ragionare, se ancora si riesce a farlo.

Quando l’ordinamento giuridico riconosce e garantisce un diritto, lo fa sempre a protezione e promozione di un bene, mai di un male. Esiste il diritto alla vita, ma non esiste il diritto alla morte. La morte è l’esito di un processo naturale o di una forza maggiore oppure, quando è voluta, è il risultato di una azione che l’uomo in certi casi ha la possibilità di compiere, ma non è mai un diritto. Anche i più sfegatati sostenitori della legalizzazione dell’eutanasia, del suicidio assistito o perfino dell’omicidio del consenziente, sostengono le loro posizioni in nome di un diritto alla libertà di scelta, non di un diritto alla morte. (Non entro qui nel merito se abbiano ragione o, come io credo, abbiano torto: è un altro discorso che non possiamo fare ora). Allo stesso modo, esiste il cosiddetto diritto alla salute (che sarebbe più appropriato chiamare diritto alla cura), perché la salute è un bene; non esiste il diritto alla malattia. Il diritto (per altro sottoposto a limiti) di rifiutare le cure, sancito dall’art. 32 comma 2 Cost., è un diritto alla libertà di determinazione sul corpo, non un diritto alla malattia. Esiste il diritto all’istruzione (che ex art. 34 comma 2 Cost. si configura come diritto-dovere, stante l’obbligatorietà dell’istruzione inferiore), ma non esiste alcun diritto all’ignoranza: restare ignoranti è una mera facoltà, non un diritto, perché l’ignoranza non è un bene. E così via.

Dunque, per poter parlare di diritto all’aborto, bisognerebbe necessariamente postulare che l’aborto – che è, incontrovertibilmente, l’uccisione di un essere umano – sia un bene, il che ci farebbe piombare a capofitto in una concezione nazionalsocialista del diritto in cui vi sono esseri umani che è bene sopprimere. L’unica alternativa è allora quella di sostenere che sotto tale etichetta si intende in realtà difendere e promuovere un’altra cosa, cioè di nuovo un diritto alla libertà di scelta, in questo caso un diritto della donna alla libera determinazione sul proprio corpo. Questo, di per sé, può senz’altro essere considerato un bene meritevole di tutela. Se però ci si mette su questa strada, che è l’unica decentemente percorribile, bisogna necessariamente affrontare il problema di come tale diritto possa mai comporsi con il diritto alla vita del concepito, il quale è, senza alcun possibile dubbio, un individuo appartenente alla specie umana. L’aborto, infatti, come tutti sanno (anche se fanno finta di non saperlo) non è un atto che riguarda esclusivamente la donna; non è un trattamento del suo corpo e basta: l’aborto è la soppressione di un individuo appartenente alla specie umana. Ora, poiché il diritto alla vita è, senza alcun possibile dubbio, preminente in quanto previo a tutti gli altri, risulta concettualmente molto difficile sostenere che altri diritti – al di fuori di quello alla vita della madre che è parimenti preminente – possano prevalere sul diritto alla vita del concepito senza implicare ipso facto la conseguenza che allora alcuni esseri umani hanno meno diritto alla vita degli altri dato che devono morire per garantire ad altri la salute, il benessere, la libertà eccetera. Una volta ammesso tale principio discriminatorio, quando ci si pone la domanda immediatamente successiva, assolutamente inevitabile, cioè quali individui debbano trovarsi in questa condizione di deminutio capitis, si vedrà che l’unica risposta possibile è: i più deboli. Risposta che ci precipita nuovamente nella barbarie di quel diritto che sopra abbiamo chiamato nazista.

La legge 194 del 1978 è certamente una cattiva legge perché non affronta questo problema cruciale, e a causa dell’ipocrisia che la caratterizza e della malafede con cui è stata applicata ha molto contribuito alla diffusione e al consolidamento di una mentalità abortista nel nostro paese ma a) nell’intenzione dichiarata e b) nella sua formulazione testuale è tutto fuorché una legge che sancisca il diritto all’aborto. Chi c’era quando fu varata e ricorda l’intenso dibattito che preparò e accompagnò la sua approvazione, può testimoniare che non fu mai presentata come un “legge per l’aborto”; si sostenne, al contrario, che era necessaria “contro la piaga dell’aborto clandestino” (il milione di aborti all’anno di cui parlavano, mentendo, i radicali!). Nessuno mai sostenne, allora, che l’aborto fosse un bene; anzi, si sottolineava quale tragedia fosse per le donne che “lo subivano” e si rivendicava perciò la necessità di ridurne il più possibile l’impatto attraverso l’uscita dalla clandestinità e la “socializzazione” tramite un percorso di presa in carico di quel dramma personale da parte dell’istituzione.

Tutto questo è stato rimosso, sepolto sotto una pesante cortina di dimenticanza e di doloso travisamento. Però il testo della legge è ancora lì, a disposizione di chiunque lo voglia leggere. E parla chiaro, pur nella disonestà di fondo che sopra ho denunciato. Vediamone alcuni articoli: oggi il primo e la prossima volta gli altri.

LEGGE 22 MAGGIO 1978 n. 194: NORME PER LA TUTELA SOCIALE DELLA MATERNITA’ E SULL’INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA

Articolo 1

Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. [Commento: la legge si occupa primariamente del diritto alla procreazione e della tutela della vita umana si dal suo inizio, anche se poi, disonestamente, non determina la natura e la portata di questa tutela. Queste finalità escludono di per se stesse l’esistenza di un diritto all’aborto].

L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. [Commento: una donna che abortisce per affermare il suo diritto alla libertà di rifiutare una gravidanza agisce contro la legge. Altro che “la legge 194 non si tocca!”. Sono più di quarant’anni che la si tocca e la si stravolge, stando almeno alla sua formulazione letterale.]

Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite. [Commento: tutta l’operazione di traslazione dell’aborto dal privato / clandestino al pubblico – che è l’asse portante e il senso etico-politico della legge – viene solennemente (e ipocritamente) finalizzata all’obiettivo di ridurre il più possibile il fenomeno dell’aborto, inequivocabilmente qualificato come un disvalore].

Di quale diritto all’aborto si sta parlando? [Continua]

 

GRAZIE DON GIUSSANI PER IL TEMPO CHE CI HAI DONATO

L'intervento di monsignor MASSIMO CAMISASCA in occasione del centenario della nascita

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo il testo del discorso pronunciato da monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia, al convegno “Educazione: comunicazione di sé: testimonianze e dialogo” tenutosi a Desio in occasione del centenario della nascita di monsignor Luigi Giussani, 7 ottobre 2022. Da Tracce

La gita al faro di Portofino 1956

Don Giussani, so che sei qua. Non solo attraverso il bellissimo quadro di Fosco Bertani, non solo perché sono convinto che la morte non recide il legame con il presente. Sei presente attraverso di noi, di tutti noi che, in un modo o in un altro, siamo qui ancora per imparare da te, per camminare traendo insegnamento da quello che tu hai vissuto.

E allora voglio dirti, Don Giussani, alcuni grazie. E li dico, non per fare una celebrazione di te, che non ne hai bisogno e neppure semplicemente per evocare il passato, ma per dire ciò di cui abbiamo bisogno oggi, oggi più che mai.

Il primo grazie: tu negli anni ‘50 hai lasciato Venegono, il seminario, dove insegnavi teologia e dove avresti avuto un futuro brillante. Hai saputo tagliare. Ma per cosa? Per chi?

Per i ragazzi.

Sapevi benissimo, come anche noi dovremmo sapere, che l’albero si rinnova continuamente dal basso, dalle radici. Se noi non abbiamo a cuore i ragazzi non possiamo neppure più riconoscere noi stessi. Credevi veramente che in ogni generazione ci fosse un dono. Anche i ragazzi di oggi hanno un dono. Non dobbiamo guardare alle difficoltà di relazione con loro come a un muro, ma come ad una prova per la nostra vita di adulti. I ragazzi ci mettono alla prova, magari senza saperlo. Come possiamo trasmettere loro una ragione per vivere, se non crediamo neppure in ciò che diciamo?

Grazie Giussani per avere avuto il coraggio di tagliare, di venire in un’altra città, Milano. Una città grande, una città difficile, una città in cui tu hai voluto cominciare a parlare ai ragazzi in un liceo. Perché non solo amavi i ragazzi, ma amavi ancor di più ciò che tu avevi incontrato, da ragazzo e poi da giovane, e poi da uomo. E volevi che questo fosse un incontro fra loro e te, o meglio, fra loro e ciò che viveva in te e che ti faceva vivere. Ma sapevi che questo non poteva passare attraverso una predica, o delle messe celebrate ogni tanto, neppure attraverso dei libri, e neppure in fondo (sto dicendo qui qualcosa di ardito e apparentemente contraddittorio), attraverso le tue lezioni, che pure sono state decisive. Ma innanzitutto attraverso del tempo che davi a questi ragazzi.

Se ci fosse stato solo un tuo insegnamento (io ne sono stato uno dei fortunati ascoltatori e quell’insegnamento mi ha sconvolto la vita, vi assicuro) se non ci fosse stato GS, una comunità, nata da quelle parole, quell’insegnamento sarebbe diventato il ricordo struggente di una cosa impossibile. Hai deciso di dare del tempo. Dare del tempo vuole dire dare se stessi.

CON PAPA FRANCESCO PER LA PACE

IL CAMBIO DI ROTTA DEL MOVIMENTO

Comunione e Liberazione aderisce alla manifestazione nazionale "Europe For Peace" che si terrà a Roma il 5 novembre. E firma il manifesto delle realtà cattoliche che chiede il disarmo nucleare



Per manifestare tutta la vicinanza del movimento a papa Francesco, CL sottoscrive anche il manifesto "Diciamo No alle armi nucleari e Sì a forti gesti di pace e di dialogo", promosso dai Presidenti e Responsabili delle realtà ecclesiali, del mondo cattolico italiano e i movimenti ecumenici e nonviolenti a base spirituale. È un contributo di riflessione al dibattito e al confronto sul tema della guerra e sulla necessità di avviare concreti percorsi di pace.

Si tratta di un tentativo di risposta alla richiesta che il Santo Padre ha fatto al movimento durante l'Udienza del 15 ottobre, quando ha detto: «Vi invito ad accompagnarmi nella profezia per la pace – Cristo, Signore della pace! Il mondo sempre più violento e guerriero mi spaventa davvero, lo dico davvero: mi spaventa –; nella profezia che indica la presenza di Dio nei poveri, in quanti sono abbandonati e vulnerabili, condannati o messi da parte nella costruzione sociale; nella profezia che annuncia la presenza di Dio in ogni nazione e cultura, andando incontro alle aspirazioni di amore e verità, di giustizia e felicità che appartengono al cuore umano e che palpitano nella vita dei popoli. Arda nei vostri cuori questa santa inquietudine profetica e missionaria. Non rimanere fermi».

lunedì 24 ottobre 2022

LA SFIDA E’ ANCHE CULTURALE

 Il Crocevia: 

"Non c'è un passato da difendere, 

ma un futuro da costruire"

L’essenza della cultura della destra non è solo conservazione dell’ordine politico e sociale esistente. L’ideale di questa cultura ha come fine la restaurazione dei principi a cui si ispira, da non confondersi con la “restaurazione dei fatti”, propria dell’atteggiamento reazionario



L’editoriale di un quotidiano pubblicato ieri, domenica 23 ottobre, si intitola: “La sfida è anche culturale”. 

Il che significa che finalmente anche la destra è riconosciuta come presenza culturale viva nel nostro paese, dopo anni di ostracismo, di negazione o di equiparazione al fascismo.

Nel linguaggio corrente oggi il fascista non è individuato dalla sua consapevolezza di essere tale, ma dall’avere idee contrarie alle mie. Allora “sradicare il fascismo” rischia di significare: bisogna sradicare l’avversario, cioè farlo tacere con la forza, adottando paradossalmente un metodo fascista. Il fascismo è innanzitutto un metodo, uno stile di trattare gli altri.

Il Crocevia con le sue iniziative culturali, dalle quali ha tratto anche precisi giudizi politici, accoglie positivamente questa sfida culturale. Non c’è un passato da difendere, ma un futuro da costruire.

L’essenza della cultura della destra non è solo conservazione dell’ordine politico e sociale esistente. L’ideale di questa cultura ha come fine la restaurazione dei principi a cui si ispira, da non confondersi con la “restaurazione dei fatti”, propria dell’atteggiamento reazionario. 

Quindi non fedeltà a fatti o eventi storici, attuata con spirito passivo e acritico, ma fedeltà a principi ispiratori (il primo dei quali è dare priorità alla preoccupazione per l’uomo, per “quel” singolo uomo, rispetto a quella per le istituzioni). 

Questa è perciò fedeltà creatrice: creatrice di soluzioni nuove alle problematiche sempre nuove che l’esperienza storica offre.

Da questo confronto potrà nascere solo un bene per tutti.





mercoledì 19 ottobre 2022

COME SI RAPPORTERÀ GIORGIA MELONI CON PAPA FRANCESCO?

 

ARTICOLO DA “AMERICA MEDIA” 

IL MAGAZINE ON LINE DEI GESUITI AMERICANI

 

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia,  nella notte elettorale presso la sede del partito a Roma il 26 settembre 2022. Gli elettori italiani hanno consegnato la vittoria a una coalizione di partiti di centro-destra e hanno preparato il terreno affinché Meloni diventasse il prossimo primo ministro. (foto CNS/Guglielmo Mangiapane, Reuters)

Papa Francesco e Giorgia Meloni non si sono mai incontrati, ma sono destinati a farlo dopo che alla fine di questo mese sarà diventata la prima donna primo ministro d'Italia e leader del governo più di estrema destra del Paese dalla seconda guerra mondiale.

Ci sono molte opinioni su come si relazioneranno tra loro. Le loro posizioni sulla questione dei migranti appaiono diametralmente opposte. La sua politica identitaria nazionalista e la sua comprensione del cristianesimo sembrano escludere piuttosto che includere e comunicare una visione molto diversa da quella di Francesco. Allo stesso tempo, lei, come il papa, è molto preoccupata per la bassa natalità in Italia e vuole aumentarla. Entrambi vedono la necessità di creare posti di lavoro in modo che i giovani e qualificati non debbano lasciare il Paese.

Considerato tutto ciò, fonti vaticane contattate dall'America (che desiderano rimanere anonime perché non autorizzate a parlare sull'argomento) ritengono che fra il papa 85enne e il futuro primo ministro di 45 anni l'Italia potrebbe infatti sviluppare un rapporto costruttivo.

La signora Meloni ha parlato poco da quando ha vinto le elezioni e invece ha sottolineato che dal momento che ora ha "grandi responsabilità", ha bisogno di parlare con attenzione, un atteggiamento apprezzato in Vaticano, riferiscono fonti all'America .

“Il Vaticano non cerca di influenzare o interferire nella politica italiana. Le sue porte sono sempre aperte a tutti, dal presidente della Francia, Emmanuel Macron, al primo ministro ungherese, Viktor Orban, e saranno aperte a Giorgia Meloni”, ha affermato un alto funzionario vaticano.

Ha aggiunto: "Meloni è una persona che ha un'idea del cristianesimo 'sui generis' e credo che non dobbiamo giudicare né saltare a conclusioni prima di vedere come si muove".

Nella sua autobiografia, Io sono Giorgia la signora Meloni ha scritto della sua vita e della sua fede.

Nella sezione del libro intitolata "Io sono cristiana", esordisce dicendo: "Devo tutto a mia madre". Rivela che sua madre, Anna, l'ha partorita all'età di 23 anni, resistendo alle pressioni per abortire. Descrive sua nonna Maria come “molto devota” e ricorda come lei e Arianna, sua sorella maggiore, accompagnavano la nonna a messa ogni sabato sera. Dice che suo padre, un ateo che lasciò la famiglia quando lei era molto giovane, si oppose al battesimo delle due ragazze, ma padre Guido, il parroco della chiesa che frequentavano, convinse sua madre a farle battezzare quando aveva 6 anni.

Il “santo” padre Guido si prese grande cura del suo gregge e ne salvò molti dalla droga e dai cattivi compagni, ricorda. “È grazie a lui che ho cominciato ad avvicinarmi a Dio”. Da allora, dice, «il mio dialogo con Dio non è mai cessato». Lei e sua sorella hanno servito come chierichette. Ha sviluppato una grande devozione per il suo angelo custode, "una guida, un consigliere e il migliore amico", che a volte identifica con la coscienza. Non è sposata ma ha una figlia di sei anni, Ginevra, con il compagno, giornalista che lavora nel mondo televisivo; rivela che ogni notte recita una preghiera all'angelo custode con sua figlia mentre la fa addormentare.

La Meloni descrive San Giovanni Paolo II come "un altro grandissimo uomo" (come padre Guido) e "il più grande papa dell'era moderna". Ha avuto un notevole impatto su di lei perché “con semplicità e il suo potente esempio mi ha avvicinato a Dio”. Lo ha incontrato quattro volte, nel suo ruolo politico di consigliere comunale. Il suo primo incontro con lui, all'età di 21 anni, è stato "elettrizzante", scrive. Fu profondamente toccata dal modo in cui "eroicamente" sopportò la sofferenza nei suoi ultimi anni e andò a renderle omaggio quando morì nel 2005. In quell'occasione pianse.

Ella rivela: «Ho seguito ogni papa, ma non con lo stesso entusiasmo. Sarà anche questione di età, e della consapevolezza che ne deriva, ma pur essendo cattolico e non avendo mai permesso a me stesso di criticare un papa, ammetto di non aver sempre capito papa Francesco. A volte mi sono sentito come una pecora smarrita, e spero che un giorno avrò il privilegio di poter parlare con lui, perché sono certo che i suoi occhi grandi e il suo parlare schietto sapranno dare un senso a [fare senso di] ciò che non capisco”.

In un paragrafo significativo del suo libro, dichiara: “Non ho mai smesso di credere in Dio. Ma la dimensione intima è così molto personale che non può e non deve essere usata come paradigma di un movimento politico collettivo o addirittura di una nazione. La mia fede in Dio è imperfetta, dubbiosa, dolorosa, ma è mia e solo mia». E aggiunge: «Grazie a Dio ho scelto di essere una persona per bene, convinta che Egli vede e riconosce – anche in questa vita e non solo nell'altra – chi sceglie di stare dalla sua parte. Ed è grazie a Lui che ho capito che ognuno di noi ha una missione nella vita”.

Alla luce di tutto ciò, è interessante ascoltare parte di ciò che ha detto durante la campagna elettorale. Gran parte di questo è stato riassunto in un discorso che ha tenuto a una manifestazione in Piazza San Giovanni, a Roma, nell'ottobre del 2019: “Io sono Giorgia. Io sono una donna. Sono una madre. Sono un Cristiano. Difenderemo Dio, la patria e la famiglia dall'islamizzazione".

Ancora una volta, parlando a Marbella, in Spagna, lo scorso giugno, a una manifestazione a favore di Vox, il partito politico spagnolo di estrema destra, la signora Meloni si è identificata come "una donna, una madre, un'italiana e una cristiana". Ha fatto alzare la folla quando ha gridato: “Sì alla famiglia naturale, no alle lobby LGBT! Sì all'identità sessuale, no all'ideologia del genere! Sì all'universalità della croce, no alla violenza islamica! Sì alle frontiere sicure, no alla migrazione massiccia!”

È orgogliosa di essere non solo italiana ma anche europea. Finora gli alleati da lei corteggiati nei 27 stati membri dell'Unione Europea sembrano essere di destra o di estrema destra dello schieramento politico, primo fra tutti il ​​primo ministro ungherese Viktor Orban. Spera con il loro aiuto, e quello di altri partiti di destra, di portare un cambiamento nell'Unione Europea a vantaggio degli Stati nazionali sovrani rispetto al governo centrale dell'Unione a Bruxelles.

La Meloni sale al potere mentre infuria la guerra in Ucraina, ma è ferma nell'affermare il totale sostegno dell'Italia all'Ucraina contro l'aggressione russa, insieme alla NATO e all'Unione Europea. Ha preso questa posizione alla vigilia di diventare presidente del Consiglio, anche se i leader degli altri due partiti che formano la sua coalizione di centrodestra, la Lega di Matteo Salvini e il partito Forza Italia del magnate dei media Silvio Berlusconi, hanno rapporti molto stretti al presidente russo Vladimir Putin.

La signora Meloni, che è stata ministro della Gioventù nel governo Berlusconi nel 2008 e che ora guiderà il 70° governo italiano dal 1946, potrebbe infatti incontrare più problemi nell'immediato futuro con i suoi alleati politici nella coalizione che con il papa o la Chiesa cattolica .

Da parte sua, papa Francesco ha lasciato la politica italiana alla conferenza episcopale italiana, e il suo presidente, il cardinale Matteo Zuppi la conosce. Il cardinale le ha espresso la sua apertura e si è detto di non essere preoccupato per il fatto che sia a capo di un movimento postfascista, Fratelli d'Italia, né di temere il ritorno del fascismo in Italia. Parlando ai giornalisti, ha espresso il suo personale rispetto per lei e ha affermato di riconoscere che il suo ruolo di primo ministro è "particolarmente difficile" in questo momento storico, vista la guerra in Ucraina e la crisi energetica ad essa collegata, nonché i problemi economici come il Paese esce dalla pandemia.

Il cardinale Zuppi si augura che il nuovo governo lavori per "il bene comune" e non per "interessi particolari" e ha detto che seguirà da vicino come affronterà i problemi di "povertà, disuguaglianza, giovani e anziani, ambiente, inverno demografico, l'accoglienza dei migranti e la costruzione di una società più giusta e inclusiva”. Come il Vaticano, sta adottando un approccio “aspetta e vedi”, sapendo bene che non pochi cattolici in Italia hanno accolto con favore la vittoria di Meloni.

 

Gerard O'Connell

Gerard O'Connell è il corrispondente vaticano americano e autore di The Election of Pope Francis: An Inside Story of the Conclave That Changed History . Dal 1985 segue il Vaticano.

@gerryorome

 

martedì 18 ottobre 2022

L’IRA CATTO-DEM CONTRO IL CATTOLICO FONTANA

In casa cattolica si scatena l’attacco ai neopresidenti di Camera e Senato. La loro elezione ha rivelato l’esistenza di filoni culturali non allineati e non graditi a quei cattolici “adulti” che li consideravano estinti. Ma sono questi ultimi ad estinguersi favorendo la secolarizzazione.

di Riccardo Cascioli

Mattarella riceve Fontana Presidente della Camera
Per cercare di capire il becero livore espresso contro i due neoeletti alla presidenza di Senato e Camera, di cui grondano purtroppo anche bocche e penne cattoliche, occorre sollevarsi a considerare dall’alto le dinamiche della cultura italiana. Lasciamo stare per un momento i significati politici – che possono essere più di uno – della svolta costituita dalle elezioni di La Russa al Senato e di Fontana alla camera, e cerchiamo di concentrarci solo su quelli culturali.

Quelle elezioni hanno fatto gridare allo scandalo e hanno riempito molti cuori di rabbia perché hanno mostrato l’esistenza di una cultura a lungo costretta alla clandestinità e che ora improvvisamente dà segno di esistere. Più che una cultura compatta, si tratta di filoni culturali, di famiglie culturali diverse ma comunque alternative a quella dominante. Si voleva far pensare che non esistessero più, si è fatto ogni sforzo per ostracizzarle, le si è dipinte con colori che alla fine si è visto non essere i loro, le si è presentate come pericolose, retrograde, reazionarie, autoritarie.

La svolta ha invece rivelato che in Italia c’è anche chi non è mai entrato in una libreria Feltrinelli, che non segue le indicazioni di vita di Ezio Mauro o di Corrado Augias, che non ride delle vignette di Vauro perché non le guarda, che non compera Micromega o Il Mulino, che alla sera, dal suo divano, non assiste a Piazzapulita di Corrado Formigli. Gente che di Saviano conosce a malapena il nome, che non ha mai riso per le performance della Litizzetto, corrosive in apparenza ma perfettamente conformiste nella sostanza, che non si interessa delle opinioni sull’aborto della Ferragni. Questo ha provocato, nei comparti della cultura ufficiale italiana, come un impatto da panico. Gli insulti senza ritegno hanno quindi un significato “culturale”, sono i sussulti scomposti di una cultura che riteneva di essere ormai la sola. Nascono dalla sorprendente esperienza che esistono in Italia anche altre culture oltre a quella di Repubblica e della RAI. Ci si preoccupa, poi, che queste culture “rozze e primitive” ora abbiano cinque anni di tempo per uscire ancora di più allo scoperto, che nascano centri culturali nuovi, nuove riviste, nuovi quotidiani, nuove catene librarie oltre l’universo Feltrinelli.

La cultura egemone non è riuscita ad esserlo completamente e questo, per i seguaci di Gramsci e Gobetti, risulta una catastrofe inaccettabile, dato che essi ritenevano di essere dalla parte del senso della storia. La fusione tra la rivoluzione liberale e la rivoluzione gramsciana ha prodotto – diceva Del Noce – la fine della rivoluzione nel senso leninista del termine. Era finito il significato violento della rivoluzione, quello strettamente politico e addirittura “religioso” (palingenetico direbbero gli amanti del bel dire), ma non era finito il suo significato culturale che anzi prese ancora più piede, perché considerato innocuo e capace di passare tramite il consenso piuttosto che tramite la lotta. Negli ultimi decenni quella cultura si è estesa, come un ampio manto coprente, su tutto il Paese. Contrastarla era molto difficile, richiedeva coraggio e il rischio della proscrizione. I partiti che la promuovevano fondavano il loro potere su quella cultura diffusa e, tramite il potere, la confermavano e la alimentavano in un circolo ritenuto indefinitamente virtuoso.

Però, sotto la coltre del conformismo imposto, molti continuavano a pensare che il fascismo non fosse il “male assoluto”, se non altro perché il comunismo era peggio, che la storia italiana non veniva raccontata bene da chi si arrogava il compito autoritativo di raccontarla, che il narcisistico principio di autodeterminazione distruggeva la famiglia e ogni convivenza sociale, che una repubblica atea non era perciò una repubblica migliore, che prima dello Stato c’erano molte società naturali che lo Stato doveva rispettare, che la libertà diventa totalitaria separata dalle verità, che le azioni orrende non cessano di esserlo perché votate da una maggioranza e decretate dagli “illuminati”. Le elezioni dei due presidenti delle Camere non hanno espresso queste culture sotterranee, ma le hanno adombrate, hanno fatto la spia, hanno fatto capire che esistono e che se sono state finora sotterranee è perché vi sono state costrette con la forza.

Ormai anche la cultura cattolica era stata cooptata all’interno della coltre egemone del gramscismo. Il cattolicesimo democratico ha transitato il popolo cattolico verso le culture secolarizzate, ha insegnato ai cattolici a frequentare le librerie Feltrinelli e alle editrici e librerie cattoliche a diventare delle piccole Feltrinelli. Hanno insegnato a fare le Bonino e le Cirinnà pur senza esserlo.

Anche per i cattolici adulti la sorpresa è stata quindi grande, perché anche loro pensavano che una cultura cattolica diversa dalla loro si fosse ormai estinta, superata dalla ideologia postconciliarista.

Parlo di una cultura cattolica che non affidi alla sola coscienza personale il rapporto tra la fede e la politica. Perché per fare questo sono sufficienti i protestanti, non servono i cattolici. È così che anche Avvenire, stupito e contrariato, prende le distanze dal cattolico Fontana, e con Avvenire perfino intellettuali e docenti cattolici di alto bordo. 

Leggi Avvenire dal link

Non un solo modo di far politica da cattolici. E molto da ricostruire (avvenire.it)

Il video su Avvenire you tube        https://youtu.be/1hIbVUAGjFk

 - VIDEO: AVVENIRE COMPLICE DELLA CAMPAGNA D'ODIO CONTRO FONTANA, 

domenica 16 ottobre 2022

UDIENZA DI CL DAL PAPA: “LA CHIESA HA BISOGNO DI VOI”

 DON GIUSSANI: CARISMA, EDUCAZIONE, AMORE ALLA CHIESA

IL 15 ottobre , in Piazza San Pietro, il Santo Padre Francesco ha incontrato i Membri del Movimento di Comunione e Liberazione, in occasione del centenario della nascita del Fondatore, il Servo di Dio don Luigi Giussani.

Discorso del Santo Padre

 Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti! Siete venuti in tanti, dall’Italia e da vari Paesi. Il vostro movimento non perde la sua capacità di radunare e mobilitare. Vi ringrazio di aver voluto manifestare la vostra comunione con la Sede Apostolica e il vostro affetto per il Papa. Ringrazio il Presidente della Fraternità, prof. Davide Prosperi, come pure Hassina e Rose, che hanno condiviso le loro esperienze. Saluto il Cardinale Farrell e i Vescovi presenti.

Siamo riuniti per commemorare il centenario della nascita di Mons. Luigi Giussani. Lo facciamo con gratitudine nell’animo. Io esprimo la mia personale gratitudine per il bene che mi ha fatto, come sacerdote, meditare alcuni libri di don Giussani; e lo faccio anche come Pastore universale per tutto ciò che egli ha saputo seminare e irradiare dappertutto per il bene della Chiesa. E come potrebbero non ricordarlo con gratitudine commossa quelli che sono stati suoi amici, suoi figli e discepoli?

Grazie alla sua paternità sacerdotale appassionata nel comunicare Cristo, essi sono cresciuti nella fede come dono che dà senso, ampiezza umana e speranza alla vita. Don Giussani è stato padre e maestro, è stato servitore di tutte le inquietudini e le situazioni umane che andava incontrando nella sua passione educativa e missionaria. La Chiesa riconosce la sua genialità pedagogica e teologica, dispiegata a partire da un carisma che gli è stato dato dallo Spirito Santo per l’“utilità comune”.

Davide Prosperi, Presidente della Fraternità

Non è una mera nostalgia ciò che ci porta a celebrare questo centenario, ma la memoria grata della sua presenza: non solo nelle nostre biografie e nei nostri cuori, bensì nella comunione dei santi, da dove intercede per tutti i suoi. So, cari amici, fratelli e sorelle, che non sono per niente facili i periodi di transizione, quando il padre fondatore non è più fisicamente presente. Lo hanno sperimentato tante fondazioni cattoliche nel corso della storia. Bisogna ringraziare padre Julian Carrón per il suo servizio nella guida del movimento durante questo periodo e per aver mantenuto fermo il timone della comunione con il pontificato.

Tuttavia, non sono mancati seri problemi, divisioni, e certo anche un impoverimento nella presenza di un movimento ecclesiale così importante come Comunione e Liberazione, da cui la Chiesa, e io stesso, spera di più, molto di più. I tempi di crisi sono tempi di ricapitolazione della vostra straordinaria storia di carità, di cultura e di missione; sono tempi di discernimento critico di ciò che ha limitato la potenzialità feconda del carisma di don Giussani; sono tempi di rinnovamento e rilancio missionario alla luce dell’attuale momento ecclesiale, come pure delle necessità, delle sofferenze e delle speranze dell’umanità contemporanea.

La crisi fa crescere. Non va ridotta al conflitto, che annulla. Sicuramente don Giussani sta pregando per l’unità in tutte le articolazioni del vostro movimento. Voi sapete bene che unità non vuol dire uniformità. Non abbiate paura delle diverse sensibilità e del confronto nel cammino del movimento. Non può essere diversamente in un movimento nel quale tutti gli aderenti sono chiamati a vivere personalmente e condividere corresponsabilmente il carisma ricevuto. Questo sì è importante: che l’unità sia più forte delle forze dispersive o del trascinarsi di vecchie contrapposizioni. Un’unità con chi e con quanti guidano il movimento, unità con i Pastori, unità nel seguire con attenzione le indicazioni del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, e unità con il Papa, che è il servitore della comunione nella verità e nella carità. Non sprecate il vostro tempo prezioso in chiacchiere, diffidenze e contrapposizioni.

Adesso vorrei ricordare alcuni aspetti della ricca personalità di don Giussani: il suo carisma, la sua vocazione di educatore, il suo amore alla Chiesa.

1.       Uomo carismatico. Don Giussani è stato certamente un uomo di grande carisma personale, capace di attrarre migliaia di giovani e di toccare il loro cuore. Ci possiamo chiedere: da dove veniva il suo carisma? Proveniva da qualcosa che aveva vissuto in prima persona: da ragazzo, a soli quindici anni, era stato folgorato dalla scoperta del mistero di Cristo. Aveva intuito – non solo con la mente ma con il cuore – che Cristo è il centro unificatore di tutta la realtà, è la risposta a tutti gli interrogativi umani, è la realizzazione di ogni desiderio di felicità, di bene, di amore, di eternità presente nel cuore umano. Lo stupore e il fascino di questo primo incontro con Cristo non lo hanno più abbandonato.

sabato 15 ottobre 2022

CENT’ANNI DI DON GIUSSANI

 LA FEDE COME ATTO DI RAGIONE, LA SUA EREDITA’

Il 15 ottobre avrebbe compiuto un secolo: ha rivoluzionato la vita di molti fedeli, soprattutto giovani, proponendo un’esistenza dove ogni istante valesse tutto.

Cento anni fa nasceva don Luigi Giussani. Un piccolo prete brianzolo e, in quanto tale, in apparenza fuori dal suo tempo di devoti a liturgie e templi laici, eppure tra gli spiriti che questo tempo vissero con più intensità e perciò compresero e interpretarono più a fondo. Del resto, fu lui, sacerdote, che in una lettera dell'ottobre 2004 a Papa Giovanni Paolo II nel 50° anniversario della nascita di Comunione e Liberazione, scrisse che “non ho mai inteso fondare niente”; e forse, proprio per questo, è stato, con suo stesso stupore,  uno dei grandi protagonisti della Chiesa e della cultura del secondo dopoguerra, anima di un movimento ecclesiale capace di cambiare la vita di migliaia di giovani prima e poi di lavoratori, professionisti, intellettuali e con essi di dialogare e incidere in profondità nella società italiana e dei circa settanta Paesi in cui è tuttora presente.

Quello di don Giussani, per i nostri tempi è stato un dolce terremoto iniziato da una scossa, una osservazione semplice eppure rivoluzionaria, ovvero, come Giussani scrisse nella stessa lettera a Wojtyla, generato dalla «urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti fondamentali del Cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali».

All'origine Cristo, quindi. Pare poco per un prete, eppure diventa tutto perché don Giussani non professò mai un Cristo chiuso nelle sacrestie delle chiese, ma una Presenza incontrabile tutti i giorni, nelle persone, negli avvenimenti, con cui farci i conti nella vita reale di ogni tempo. È tutta qui, in fondo, la sua rivoluzione, la sua capacità di essere figlio del suo tempo che, in qualche modo, ha le radici nella stessa origine di Giussani, figlio di una fervente cattolica e di un socialista, cioè dell'incanto del reale e dell'indomita esigenza di chiedere le ragioni di ogni cosa. “Datti ragione di tutto”, gli ripeteva sempre suo padre.

UN BEL GIORNO

Ed è proprio dalla ragione che anni dopo Giussani, brillante professore del seminario di Venegono, partirà lasciando una carriera teologica ed accademica per andare a insegnare in uno dei licei simbolo della borghesia illuminata e laica milanese, il Berchet.

Ciò che colpì Giussani, in quei primi anni Cinquanta, fu che i giovani formalmente ancora tutti cristiani, in realtà vivessero la fede solo come retaggio tradizionale, sentimentale e quindi astratto senza alcun fondamento con la ragione. Sta qui la sfida alla modernità del Gius, come l'hanno sempre chiamato i suoi: propone la fede come un atto di ragione, sperimentabile, verificabile.

Per lui era avvenuto così, a quindici anni, "un bel giorno", così lo definiva, in un incontro in cui l'annuncio cristiano si era mostrato quale unica efficace e convincente risposta alla nostalgia e allo struggimento che poi avrebbe ritrovato in tanti giovani ribelli o afflitti e che lui aveva vissuto attraverso la poesia di Leopardi tanto da sentire quel giovane di duecento anni prima che, con gli occhi al cielo, si chiedeva “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna?”, come un autentico amico con cui dialogare giorno e notte, fino a impararne a memoria l'intero canzoniere.

Questa è stata la fede per Giussani, una sequela di incontri, sempre più reali e convincenti, dai genitori, agli insegnanti del seminario, ai compagni di studio, fino ai giovani delle scuole e alle migliaia e migliaia di persone conosciute lungo i decenni e in giro per mezzo mondo dove la sua storia l'ha portato. Incontri con persone, non perfette, di carne perché  come affermava c’è «bisogno di uomini commossi, non di uomini riverenti». Occasioni, avvenimenti che rimandavano all'unico incontro decisivo, «non con un'idea ma con una Persona, con Gesù Cristo», come disse Francesco nel 2015 nel corso di una udienza con il movimento di Cl.

Questa è stata la proposta fatta a migliaia di giovani. Al cospetto di un'epoca di cuori tiepidi, in cui di eccesso in eccesso si è giunti a una normalità senza gusto e sale, dove tutto è lecito ma insapore, Giussani ha proposto un modello di vita dove ogni cosa, ogni istante, al cospetto dell'Eternità, valesse tutto. Gli avversari hanno spesso definito i ciellini "integralisti", ma in realtà ciò che il Gius ha proposto è un modello di esistenza “integra”, non perfetta, integra, possibilmente piena in ogni sua parte. Ogni battaglia, politica o sociale, così come ogni aspetto della vita, dall'amore alla ricerca del lavoro, dal metter su famiglia alla salute, dalla scuola allo sport è per Giussani un'occasione per confrontarsi con il proprio Destino, la fonte e la ragione stessa della vita. E perciò diventa testimonianza, opere, fatti, non bei sentimenti. Tutto ciò, a guardar bene, che della Chiesa, in ogni epoca, ha suscitato scandalo.

LE ETERNE DOMANDE

Una visione della vita totale, che sappia rendere ragione di ogni suo aspetto. Questa, aldilà delle battaglie vinte e perse, delle opere, della grande lezione teologica, delle decine di libri, è la grande eredità che oggi resta di don Giussani.

Un'eredità che si vede risplendere soprattutto tra le mani e negli occhi di chi Giussani non l'ha nemmeno conosciuto e tuttavia si riconosce nella storia che lui ha iniziato. In anni in cui Francesco si interroga su come rendere la proposta cristiana ancora credibile agli occhi dei giovani e nei quali lo stesso Papa chiede ai movimenti, anche a Cl, di rinnovarsi; in un'epoca senza memoria né punti di riferimento, la lezione di don Giussani continua ad attirare migliaia di giovani interrogati dalle eterne domande che dalla notte dei tempi tengono ogni uomo desto al cospetto del proprio destino.

Questa forse è la maggiore eredità che dà la misura della testimonianza del sacerdote brianzolo, oltre che la sfida alla quale il suo movimento è chiamato a rispondere. A proposito di destini, non deve essere solo uno scherzo del fato che nei giorni in cui cade il centenario della nascita di don Giussani ricorra anche il primo anniversario della morte di Luigi Amicone (avvenuta il 19 ottobre 2021), uno degli allievi più genuini e amati dal Gius proprio perché uomo non perfetto, di carne, non riverente, commosso. Una commozione che il fondatore di Tempi aveva imparato dal suo maestro e di cui si era fatto testimone senza pallidi paludamenti e timori di sbagliare, consapevole che la bellezza ricevuta deve illuminare ogni istante. Questa era l'eredità, il tesoro da reinvestire.

Non certo da seppellire sotto la morta terra di una memoria devota

MAURIZIO ZOTTARELLI  Giornalista e scrittore

Tratto da LIBERO