venerdì 27 gennaio 2023

PAZZI CRIMINALI


Per quel quasi nulla che so e capisco io, la guerra attualmente in corso tra Russia e Ucraina – che forse sarebbe ormai più corretto chiamare guerra tra Russia e Occidente per interposta Ucraina – può finire solo in due modi: o per mezzo di una trattativa o con un disastro di proporzioni immani, cioè a occhio e croce con la distruzione del “nostro mondo”, così come l’abbiamo conosciuto finora. Dopo un anno di battaglie, pare infatti assodato – come l’altro giorno ha potuto dire, e non in un qualche sito “complottardo e putinista” ma su La Stampa (!), anche un reputato analista quale Lucio Caracciolo, mica un “impresentabile” – che la sconfitta militare della Russia non possa essere ottenuta senza un coinvolgimento pieno e diretto (e non parziale e indiretto come ora) della Nato nel conflitto, cioè con la terza guerra mondiale (e non “a pezzi” o metaforica come la conosciamo ora, ma proprio quella vera, quella che con ogni probabilità conduce – come ho detto sopra – “alla distruzione del nostro mondo così come l’abbiamo conosciuto finora”).

Una trattativa è, per definizione, un processo negoziale attraverso il quale due parti contrapposte – cioè portatrici di visioni del mondo e di interessi opposti e confliggenti, che, in quanto tali, di norma considerano se stesse “buone” e gli avversari “cattivi” – cercano una soluzione di compromesso, in cui ciascuna delle due a qualcosa rinuncia e qualcosa ottiene. La proporzione di ciò che si guadagna e di ciò che si perde varia in funzione dei rapporti di forza sul campo e un po’ anche dell’abilità di coloro che svolgono il negoziato, ma è scontato che alla fine ciascuna delle due parti consideri ingiusto ciò che l’esito della trattativa assegna all’avversario. È sempre stato così, perché è così che funziona. Nel caso specifico, pur non intendendomi affatto di queste cose, azzarderei l’ipotesi che vi siano le condizioni per limitare ciò che la Russia può ottenere, dato l’altissimo costo che la prosecuzione della guerra comporta anche per quel paese – e questa è, se ci si pensa, l’unica ragione vagamente decente per “giustificare” la prosecuzione del conflitto. Ma è (o dovrebbe essere) ovvio che qualcosa debba ottenere: da una trattativa non può ottenere nulla, perché mai dovrebbe trattare? Ed è (o dovrebbe essere) altrettanto ovvio che ciò che ottiene alla nostra pubblica opinione sembri “ingiusto”. Ma, ripeto, è così che funziona, da sempre.

Durer: Apocalisse

Invece la linea ufficiale – e obbligatoria, pena l’accusa di putinismo! – qui da noi in Occidente mi pare che sia: “la Russia deve prima rinunciare a tutto quello che ha illegittimamente conquistato, compresa la Crimea; poi si tratta”. Il che equivale a dire, come è evidente, che non si tratta affatto. Ora, ci potrebbe anche stare che questo venga proclamato dalla propaganda – siamo in guerra, no? Quindi è normale che pubblicamente si dicano solo bugie – ma a condizione che nel frattempo, sotto traccia, una trattativa vi sia. Non pare proprio che sia così.

È vero che i popoli non sanno mai niente di quello che fanno veramente i capi, ma in questo momento dell’esistenza di una qualche forma di negoziato non si ha il minimo sentore, neanche il vago sospetto.

Pare proprio che i nostri governanti ci stiano portando, chi per convinzione e chi per pusillanime servilismo, dritti alla guerra totale.

Se è così, sono dei pazzi criminali.

 


giovedì 26 gennaio 2023

RIPUDIANO DI NUOVO LE RADICI CRISTIANE

L’UNIONE EUROPEA, IN CRISI DI IDENTITA’ E’ DEBOLE SU TUTTO TRANNE CHE SU REGOLE E BUROCRAZIA

Dietro la battaglia commerciale del vino l’ennesimo  tentativo di rinnegare una storia millenaria

RENATO FARINA

Scrivere sulle etichette che «il vino nuoce alla salute», oltre che essere una tipica calunnia da beoni irlandesi di Guinnes, è un chiaro segno di sottomissione all'Islam e alla Coca Cola. Un piccolo passo per l’Irlanda verso I'idiozia ma un grande balzo dell'Europa verso il suo stesso rinnegamento. Dopo aver estirpato le radici giudaico-cristiane dalla costituzione, adesso si passa al pratico: è in corso la character assassination del vino che Gesù Cristo ha proposto ai discepoli come bevanda in realtà "transustanziata" nel suo stesso sangue.

Il Vangelo racconta che il Nazareno di questo «frutto della vite e del lavoro dell'uomo›› ne regalò con il suo primo miracolo damigiane agli sposi di Cana. Il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida ha fotografato la situazione con ironia dolente: una «scelta gravissima», ha detto, aggiungendo che si accusa Gesù di aver provato «ad avvelenare», su istigazione di sua Madre, i convenuti alle nozze.

Questo caso fa capire perché la dizione del dicastero di Lollobrigida contempli la «sovranità alimentare». Quello dell'Irlanda non rappresenta soltanto un atto di sabotaggio economico che c'è e resta comunque una rottura della presunta fraternità europea, un'aggressione culturale e simbolica all'identità dei Paesi mediterranei, una provocazione ideologico-salutistica per conto dei Paesi del Nord che assistono silenti e conteinti a questo agguato da falsari del gastronomicamente corretto. Da sempre, proibire o imporre cibo e bevande, è tipico del potere religioso che si affianca a quello politico, fino a confondersi con esso. L'Islam insegna.

QUESTIONE DI CIVILTÀ

Bruxelles sta tornando a prima della rivoluzione portata dal cristianesimo: «Restituite a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio››. Cesare a Bruxelles si è allargato, e adesso stabilisce anche il menu e i tabù. Se l'Ue non blocca questa scorreria piratesca del Nord, Italia Francia e Spagna sono prontissime a brandire le spade della guerra commerciale. Utile a tutelare il fatturato, ma legittima difesa della propria essenza.

Il vino storicamente e simbolicamente coincide con la  civiltà che ci viene dalla tradizione cristiana. Il termine «civiltà» infastidisce, ha qualcosa di monumentale e retorico. Innaffiala di vino aiuta a farla scendere dal cavallo delle parole di marmo, e comunica l'idea di un gusto della vita, di una convivialità  che attraversa i sentimenti profondi dei popoli biblici e  latini, ed è la linfa che sgorgata biblicamente dalle pendici dell'Ararat, ha irrorato le opere e i giorni del popolo ebraico, indi di quello greco e romano, ed infine fornendo nei vigneti profumati vicino ai   monasteri  di tutta Europa. È vero che i monaci conservarono ì classici, ricopiando e le pergamene, ma raccolsero e svilupparono l'arte della viticoltura. Il vino sulla tavola è l'equivalente delle croci  in cima ai campanili e nelle campagne d'Europa.

Puoi essere astemio, ritenerti ateo, ma questi elementi sono come le campane per Oriana Fallaci. Sono la patria, il suono dei padri e dei figli.

Poche  storie, è così. Il vino, con la prima ebbrezza fu inventato e apprezzato da Noè. Questa meraviglia accadde - lo documenta l’archeologia- proprio in Caucaso, sulle falde del monte Ararat (Oggi nei confini della Turchia), dove si posò l'Arca e si svilupparono i vitigni. La Georgia ne rivendica la primogenitura, in contesa con gli armeni che da secoli ne ottengono un brandy che è meglio del Cognac, e ha proprio il nome di Ararat. Amatissimo  da Winston Churchill  che lo riteneva elisir di giovinezza.


L’ESEMPIO ARMENO 

Gli armeni  - il primo popolo  cristiano della storia, convertitosi al vangelo dal 303 - furono invasi da mongoli, persiani, turchi, orde di ogni genere. Usando forza e intelligenza, ingenuità e astuzia, preservarono  il vino e la fede non  necessariamente in quest'ordine, ma di sicuro insieme. Uno dei  primi atti degli invasori islamici, quando nell' autunno del 2020, si presero l'80 per cento del Nagomo-Karabakh (si traduce "il Bosco della Montagna Nera", in armeno Artsakh) fu di distruggere la culla preziosa del vino atavico, prodotto avendo ridato salute ai vitigni primigeni, nella provincia di Hadrut, vicino all'antico monastero Katarovan. I soldati dell'Azerbaijan, coadiuvati da turchi e da mercenari jihadisti, hanno sfasciato botti, rovesciato i tini, divelto i vitigni. Bisognerebbe dare a costoro la cittadinanza onoraria dell'Unione europea. Se la sono meritata, non è vero?



mercoledì 25 gennaio 2023

QUIRICO: ZELENSKY CREDE ALLA SUA MASCHERA

 Domenico Quirico sulla Stampa: il presidente dell’Ucraina rischia oggi di incarnare un ruolo superato, inadatto. Deve interpretare il “secondo atto” e non l’ha compreso.


«Uno dei ruoli più spiacevoli e dannosi che possano capitare a un uomo politico è quello di finire per rappresentare la propria figura del passato. I suoi gesti diventano allora simili a smorfie. Per un Paese impegnato in una sfida mortale, come è l’Ucraina, che ha bisogno di soluzioni per il futuro poiché la geografia la condanna ad avere come vicino la Russia, chiunque sia colui che comanda al Cremlino, tutto ancor più si complica. È letale esser guidati da qualcuno segnato dal passato. Anche se questo passato è positivo, perfino eroico. La guerra richiede, nella prassi, metodi diversi e a volte uomini differenti. Colui che era formidabile e necessario nella resistenza e nella prima fase della lotta diventa, con il procedere dei fatti, sempre implacabili, superato, inadatto. Talvolta perfino dannoso.

Soprattutto se quel capo comincia a credere lui stesso agli slogan che pronunciava in una fase diversa, inizia a credere al proprio personaggio. A Zelensky, forse, questo non è ancora accaduto e vorremmo che non accadesse. Forse ha meritato di meglio. Ho sempre pensato, fino dalla prima fase della guerra, che Zelensky, l’ex attore Zelensky ma anche il presidente Zelensky, fosse un personaggio, potentemente o pateticamente, pirandelliano. Così se a Kiev, dove coraggiosamente e ostinatamente si continua, anche tra i sibili delle sirene e i resoconti di battaglie infernali, a tener viva la vita culturale, si dovessero allestire due spettacoli teatrali che siano specchio tragico e riflesso sulla realtà, (questo è il teatro) sarebbero I sei personaggi e l’Enrico IV. 


Zelensky di prima del 24 febbraio, prima della invasione russa, era un attore, e soprattutto un leader, scialbo, alla ricerca di un copione giusto, di una maschera di cartone che lo sollevasse dalla mediocrità di una recita senza profumo. Sillabava, povera animuccia prigioniera di questo secolo di ferro, in un luogo d’Europa dove geografia e Storia sono in pericolosa contraddizione perpetua, la parte del microscopico oligarca periferico: una comparsa, in fondo. Dopo le pagine alte del dramma di Maidan, le barricate di ghiaccio, il misticismo e la rivoluzione, a lui toccavano le battute della politica bassa, una guerra ignorata e marcia, la corruzione di sempre, il restare a galla tra il vicino sempre più minaccioso e l’Europa capace solo di promettere meraviglie, ma a parole. Rischiava di soccombere al mal di mare dell’invisibile. 

 

È Putin che ha scritto sciaguratamente, con l’aggressione, la parte perfetta per lui, quella che non avrebbe mai immaginato da solo: il leader che guida la resistenza eroica di un popolo intero contro una prepotenza condotta con metodo stalinista e brutale, spregiudicato, combattivo, una forza della natura nel suo vitalismo di piccola belva. Tanto da far sembrare, al confronto, il nemico, lo zar, un mediocre addetto impiegatizio del Male.

Zelensky ha recitato la parte con efficacia in questo imbrogliato scorcio del terzo millennio che sembra recedere alla più selvaggia preistoria: le passeggiate nella Kiev deserta e spettrale dei primi mesi a fianco dei leader occidentali, o al fronte tra le macerie riconquistate, i discorsi serali alla nazione, in perenne costume guerresco, la maglietta verdognola che allude a iconologie mistico consumistiche alla Guevara, gli interventi continui, incalzanti, assertivi via video per non dar scampo ad alleati tiepidi o riluttanti. 


Zelensky sa che nel nostro Occidente stanco, esausto, un discorso all’Onu, ormai ingombrante retrovia burocratica della impotenza, non conta quasi nulla. Molto più efficace irrompere al festival di Sanremo o sulla Croisette di Cannes.

Zelensky è consapevole che la sua persona, ovvero quello che era, è qualcosa di indistinto, informe, probabilmente mediocre e banale. Molti dei suoi connazionali, e non solo i filorussi, lo detestavano. L’importante dunque è ruotare attorno a un perno fissato nel gioco delle parti della vita e della politica, e ripetere sempre lo stesso dramma. Nel ruolo di eroica guida suprema degli ucraini Zelensky ha trovato l’inconfondibile, l’indistruttibile, forse l’eterno. Non a caso il suo anno terribile e memorabile non è un composto di atti, di decisioni: in realtà non ha fatto nulla di politicamente o militarmente memorabile. I russi aggressori e gli americani hanno deciso tutto per lui


Vive, teatralmente, tutto nelle parole che ha pronunciato sul palcoscenico tragico della guerra. È come se scandisse un interminabile monologo quasi astratto, quasi parlasse a se stesso o a un interlocutore inesistente: vinceremo... La Russia è criminale… Abbiamo bisogno di armi... Tutto, appunto, molto pirandelliano. In realtà sa che l’unico spettatore in prima fila che conta è Biden.


Perché è dagli Stati Uniti che dipende la sopravvivenza del suo Paese e il suo personaggio; dalla volontà americana di preservare la centralità della onnipotenza americana in campo internazionale contro qualsiasi tentazione anti egemonica. Il tutto senza l’uso diretto della forza che comporti anche minime perdite americane. Questo finora. 

Il rischio per Zelensky è di cominciare a credere al copione che finora ha recitato, di persistere, come accade al protagonista dell’Enrico IV, nella parte che ha recitato, anche se sa che è finzione, non corrisponde più alla realtà. Costringendo gli altri a uniformarsi. Ciò significa credere che la vittoria totale contro la Russia, la eliminazione diretta o indiretta di Putin, sia l’unica opzione possibile. 

E che invece non sia arrivato il tempo del secondo atto. Non cedere al prepotente, che con quanto è accaduto in questi mesi, ovvero la efficace resistenza di Kiev e il consolidarsi quasi inesauribile della forza ucraina grazie all’aiuto occidentale, è una ipotesi superata dai fatti; ma, sfruttando le evidenti debolezze russe, saper trattare i margini della vittoria. Altrimenti il sapore del finale rischia di essere di cenere».

 

24 GENNAIO 2023 ripreso da :”La versione di Banfi”


martedì 24 gennaio 2023

COSA SPINGE UN GIOVANE A DIVENTARE FRATE DOMENICANO?

 Massimo Camisasca su Tempi

Ecco come mi hanno risposto alcuni frati studenti della Provincia del Nord Italia dell’Ordine. Dall'anticlericale al cattolico tiepido, ecco cosa mi hanno detto

Per i lettori di Tempi mi sono recato a Bologna, alla Basilica di san Domenico. Nella chiesa, in un grande altare laterale sulla destra, sono raccolte le spoglie di san Domenico, il santo padre fondatore dell’Ordine. A Bologna aveva trascorso gli ultimi tempi della sua vita. Nel convento accanto alla chiesa è spirato il 6 agosto del 1221. All’Arca di san Domenico ha collaborato anche un giovanissimo Michelangelo Buonarroti.

Bologna Basilica di San Domenico

Lo scopo principale del mio viaggio è stato incontrare alcuni frati studenti della Provincia del Nord Italia dell’Ordine. Mi aveva colpito leggere che molti ragazzi erano stati attratti dal rinnovamento vissuto nei conventi del Nord Italia e desideravo, perciò, conoscerli da vicino.

Nel convento di Bologna la Liturgia delle Ore è semplice e curata. Tutti cantano in coro, in italiano, riservando la lingua latina alle antifone e agli inni. La sera, dopo i vesperi, si rinnova ogni giorno una tradizione secolare: i frati, in fila, cantano la Salve Regina recandosi a un’immagine della Madonna, nel silenzio della chiesa, e poi all’Arca del santo cantando un antico inno latino a lui dedicato. Nello stesso convento ha sede lo Studio teologico dove i giovani frati si preparano ad una vita di predicazione. Oltre che nel coro, nel refettorio, nelle pause di riposo, emerge l’importanza della vita comune, dove ogni fratello diventa a poco a poco per gli altri un segno efficace della volontà di Cristo a riguardo della loro stessa esistenza.

A quei giovani, la maggior parte di loro ha tra i 25 e i 35 anni, ho posto alcune domande. Trascrivo le loro risposte lasciando al lettore di immedesimarsi, attraverso di esse, nelle loro vocazioni personali.

Cosa ti ha portato qui? Cosa ti ha attratto di questa vita?

a) «Sono stato attratto dalla vita comune e della chiarezza dell’impostazione teologica che ho trovato qui. È stato decisivo per me l’incontro con san Tommaso. Devo invece a san Domenico la mia vocazione missionaria, un grande desiderio di predicazione attraverso cui esprimere i frutti dello studio».

b) «Io stavo studiando informatica e non avevo nessuna idea di entrare nella vita religiosa. Attraverso la scienza sono arrivato a Pascal e alla filosofia, e da qui alla teologia. Ho conosciuto i santi Alberto Magno, Tommaso e Caterina. Pensavo comunque di proseguire i miei studi e concluderli. Sono entrato però improvvisamente in un periodo di crisi. Gli approfondimenti della fede che vivevo, si scontravano fortemente con ciò che vedevo nei miei compagni di università. Questo mi interrogava: che cos’era importante per la vita? Non riuscivo più a trovare uno scopo in quello che facevo. Sono tornato, così, ai santi domenicani che avevo incontrato. In loro ho trovato una risposta alla mia esigenza di verità».

c) «Sono il maestro dei frati studenti, sono di Bologna. Vent’anni fa mi ha portato qui una vocazione inaspettata, iniziata con il Giubileo del Duemila. Non ero praticante. Il Giubileo mi ha fatto considerare il posto di Cristo nella mia vita. Nello specifico di Cristo crocifisso. Ho visto un segno per me negli apostoli e in alcuni santi che davano la loro vita per Cristo. Così ho desiderato farlo anch’io. Mi capitò di entrare in questa chiesa [San Domenico a Bologna, ndr.], di confessarmi e di trovare delle risposte non banali alle mie domande. Da quel momento sono tornato qui continuando a farmi delle domande».

d) «Non so dire come si sia palesata a me la mia vocazione, se non come una mano che si protende nel buio. Io ero estremamente lontano dalla fede. Avevo rigettato completamente tutta l’educazione cattolica impartitami in famiglia. Questa lontananza si era acuita con lo studio della filosofia a scuola. Consumatasi questa rottura completa, non mi interessava più nulla e nessuno. Improvvisamente mi ritrovai però a dover chiedere aiuto perché non riuscivo con le mie sole forze ad affrontare certe difficoltà. Ritornai così a riconsiderare quel Dio di cui mi avevano parlato i miei genitori. Il mio problema non era tanto il superamento degli esami, ma il non riuscire a vivere. Ritornato alla “Verità” non volevo però viverla. Perché la Verità costa. La Verità è attraente, ma c’è sempre la possibilità di dire di no. Andai a confessarmi da un padre domenicano, il quale mi disse senza mezzi termini ma con grande carità che non potevo vivere così. Questo incontro fu per me decisivo perché compresi che la verità non è una clava che si abbatte senza misericordia su di noi».

Beato Angelico: San Domenico in orazione
Convento di San Marco, Firenze
e) «Durante il liceo, in un paese della Valsugana, mi sono ritrovato in una classe di studenti anticlericali. Questo mi ha obbligato a riscoprire ciò che mi era stato dato dai miei genitori. Attraverso l’insegnante di latino e di italiano ho capito cosa volesse dire vivere per Cristo, dare la vita per lui. Rimasi affascinato da questa testimonianza di vita. In quegli anni ero ossessionato dalla domanda se la vita, con tutti i suoi semi di bontà, i suoi affetti, le amicizie, i progetti, sia destinata a finire nel vuoto, a piombare nel nulla, come sostenevano i miei compagni, oppure sia lecito sperare. La mia ricerca non è stata solitaria, ero accompagnato da questa insegnante di Comunione e Liberazione che è morta qualche anno fa. Mi ha portato qui, in convento, la certezza che nella vita comune c’è una continua ricerca della Verità. Un aspetto che ha sempre toccato la mia vita è la liturgia vissuta in modo partecipato e sobrio. Il luogo in cui è possibile sensibilmente fare esperienza di Dio».

f) «Sono di Bologna, la mia famiglia è cattolica. I miei genitori, senza che ne fossi consapevole, avevano studiato qui teologia, trasmettendo quanto avevano appreso nell’impostazione della nostra famiglia. Una serie di lutti familiari mi hanno posto la domanda: è vero che Cristo è risorto? Mi avevano insegnato un grande rispetto per la Madonna, perché lei porta sempre le preghiere dei suoi figli a Dio. Grazie alla preghiera alla Madonna e l’aiuto dei miei familiari, ho compreso che Cristo c’è e che la morte non è l’ultima parola della vita. Fu il punto di svolta della mia esistenza. L’incontro con un padre domenicano mi fece decidere a dare la vita per annunciare che Cristo vince la morte».

g) «Mi ha portato qui la ricerca della misericordia di Dio e il desiderio di imparare ad amare. San Domenico gioiva con chi era nella gioia e soffriva con chi era nella sofferenza. Si abbassava per entrare nella vita dell’altro. Questo mi ha colpito. In un momento particolare della mia vita mi sono consacrato a Maria. Tutto è nato da lì».

Cosa hai trovato qui?

a) «Il giorno dei miei voti semplici ero turbato da molte preoccupazioni e dolori. Mi sono messo nelle mani di Dio. Ho pensato: “Oggi la tua veste ti appare dolorosa in ragione del sacrificio. Un giorno sarà bella”».

b) «Ho trovato la misericordia di Dio nella misericordia dei fratelli. E poi la conoscenza di me stesso: noi siamo tutti voluti da Dio e mandati da lui. Ognuno di noi è un roveto ardente di fronte a cui togliersi le scarpe».

c) «L’Ordine Domenicano è il compimento di ciò che il mondo cerca e l’antitesi di ciò che vive. Trovo qui armonia, amicizia, pace. Nonostante le nostre fatiche, esiste la realtà dell’Ordine: vita comune tesa alla ricerca della verità, nel perdono reciproco e nella liturgia. È Dio che ci guida e ci porta all’unità. Non potrei essere altrove. Stare fuori mi dà un senso di desolazione».

d) «Ho trovato grande realismo: la vita cristiana si verifica nella vita quotidiana. La vita comune è un antidoto ad ogni idealizzazione sbagliata, è un richiamo costante, anche nelle nostre ferite, al bisogno di Dio, a una conoscenza per esperienza. Così si sono amplificate per me le occasioni di incontro con Cristo e io sono diventato più capace di giudizio».

e) «Non siamo una comunità di perfetti, ma di perfettibili. Essere umani che la grazia sorregge e aiuta. I fratelli si abbandonano a Cristo ed egli agisce in loro. Non dobbiamo mai dimenticare che tutti abbiamo dei limiti, siamo perciò anche causa di fatiche per gli altri».

f) «Ho trovato un torrente di doni. Potevo finalmente “stare con Dio”. Lui mi aveva ritrovato non sono perciò solo, mai. Alle mie spalle ci sono 800 anni di sapienza, cibo già masticato. Sono aiutato ad una certa regolarità, io che altrimenti sarei un irregolare».

g) «In questa casa ho trovato strumenti di vita importanti: la Regola, la liturgia corale, la vita comune, lo studio. E poi maestri che mi aiutano a vivere con equilibro queste strade.

Come si coniugano nella vostra vita verità e carità?

a) «Conoscere e amare non possono essere mai disgiunti: il fuoco sempre illumina e scalda. L’amore non vero che il mondo insegna ci distruggerà se non sarà educato».

b) «La mia vita è stata sempre una ricerca della verità. Sono convinto che la prima carità è la verità su di noi stessi. Oggi riconosco che non sono io a decidere il fine della mia vita, mi riconosco limitato mentre prima pensavo di essere senza limiti».

c) «Tante persone fanno fatica e sentirsi amate da Dio. Per questo Egli ha voluto intrattenersi con noi».

Qual è il posto dello studio e della vita comune nelle vostre esistenze?

a) «Lo studio è necessario alla mia crescita: mi aiuta a vedere le cose in modo profondo. Educa le mie parole perché tocchino la vita delle altre persone. Attraverso di esse posso trasmettere ciò che ha toccato me».

b) «La vita comune rende vero lo studio perché permette un continuo confronto con i fratelli. Infine, lo studio è preghiera, perché ci porta a Dio. Aiuta a far chiarezza su noi stessi e ci rende annunciatori. Il dialogo con i miei fratelli a tavola è dedicato il più delle volte ai temi emersi nello studio. Dobbiamo stare attenti: il Signore non ci chiede di diventare professori, ma annunciatori».

c) «Nessuno può dirsi amico di Cristo se non si dedica a conoscerlo. Lo studio è conoscenza di Cristo. La vita comune mi ha aiutato a trovare un metodo per studiare».

Cosa senti più urgente per la Chiesa?

a) «Pronunciare più esplicitamente il nome di Cristo. Quel nome ha una potenza, agisce, fa quel che deve fare. Spesso la nostra missione manca di Colui che deve essere portato».

b) «La Chiesa deve essere una madre che parla di suo Figlio. La verità di questo Figlio non può essere mai banalizzata o appiattita».

 


lunedì 23 gennaio 2023

LODE AI PROLIFE AMERICANI: DA 50 ANNI IN MARCIA PER «CELEBRARE LA VITA»

Ieri si è svolta la cinquantesima Marcia per la vita a Washington. Ribaltata la Roe v. Wade, l'obiettivo resta «cambiare la cultura perché l'aborto diventi semplicemente inconcepibile»

 


Anche questo 20 gennaio, nell’anniversario della sentenza della Corte Suprema Roe v. Wade, per il cinquantesimo anno di fila, la chiassosa banda dei pro life americani si è riunita a Washington al National Mall e ha marciato verso Capitol Hill per «riunirci insieme a celebrare la vita», festeggiare le vittorie ottenute nell’ultimo anno e concentrarsi sui «prossimi passi» da intraprendere.

I pro-life festeggiano l’America “post-Roe”

La Marcia per la vita americana è la più grande manifestazione pro-life al mondo e quest’anno ha molto da festeggiare: lo scorso giugno, infatti, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha cancellato il diritto costituzionale all’aborto, in vigore dal 1973, restituendo ai singoli stati la libertà di decidere se legalizzare o meno l’interruzione di gravidanza e come regolamentarla.

Il ribaltamento della Roe v. Wade e della Planned Parenthood v. Casey è sempre stato il grande obiettivo dei pro-life americani, raggiunto dopo 50 anni di instancabile e pacifica militanza. Impossibile, da questo punto di vista, non guardare come a un modello agli Stati Uniti, che anche grazie ai pro-life hanno saputo tenere aperto un dibattito che sembrava chiuso, non solo dalle sentenze della Corte Suprema, ma soprattutto dall’orientamento a senso unico della grande stampa americana.

«Costruire la cultura della vita»

Il variegato movimento pro-life, invece, battendosi stato per stato e legge per legge, ha saputo mantenere viva la grande battaglia culturale e scientifica che soggiace al tema dell’aborto: quella sul feto, che non è un soltanto un grumo di cellule ma un bambino. Ed è per continuare a portare avanti questa battaglia culturale che, nonostante la vittoria giudiziaria, la Marcia per la vita prosegue. L’obiettivo, infatti, è quello di «costruire una cultura della vita negli Stati Uniti. Purtroppo, il numero degli aborti ogni anno supera di molto i 900 mila e dopo la cancellazione della Roe v. Wade questo numero dovrebbe calare di appena 200 mila unità all’anno». Pur essendo le leggi il principale e quotidiano terreno di scontro in America, «il nostro lavoro più importante è quello di cambiare i cuori e le menti. L’obiettivo della Marcia nazionale per la vita non è solo quello di cambiare le leggi a livello statale e federale, ma di cambiare la cultura perché l’aborto diventi semplicemente inconcepibile».

La lotta all’aborto continua

Lode allora alla chiassosa, pacifica, gioiosa e variegata compagnia che ogni anno sfila arrembante per le strade di Washington fino al Congresso per dare voce a coloro che non hanno voce e per proteggere coloro che non possono proteggersi da soli. Oltre che per invocare aiuti concreti per tutte quelle donne che non vogliono abortire, ma che spesso si trovano in situazioni di grande difficoltà. Come mostrava un cartello sorretto da una giovane manifestante alla marcia di ieri, con sopra disegnate una donna e il bambino nella sua pancia: «Amiamo entrambi». Per «marciare nell’America post-Roe», lo slogan di quest’anno, non si può che partire da qui. Il “cattolico” Joe Biden farebbe bene a prendere appunti.

Leone Grotti da Tempi

domenica 22 gennaio 2023

L’ARTICOLO 15, QUESTO SCONOSCIUTO.

 APOLOGIA DELLA #LIBERTÀ (CHE NOI NON SOPPORTIAMO E DIO INVECE AMA).

LEONARDO LUGARESI 

Renè Magritte: The Large Family 1963

Una volta, quando esisteva la Repubblica Italiana, si credeva che vigesse una Costituzione fondata sul principio che «la libertà personale è inviolabile» (art. 13, comma 1). Una conseguenza diretta ed essenziale di tale principio è quella dichiarata all’articolo 15 comma 1 della stessa Carta: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili». Poiché anche i costituenti avevano notizia del peccato originale e del fatto che, di conseguenza, il mondo in cui viviamo non è perfetto come l’aveva pensato Dio, essi si premurarono di scrivere nello stesso articolo un secondo comma così composto: «La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». Il tenore di questo dettato costituzionale è chiaro, a chiunque sappia leggere: spiare le persone è male, ma talvolta – quando non se ne può fare a meno – “per atto motivato dell’autorità giudiziaria”, cioè portando delle ragioni convincenti, lo si può fare, ma sempre e solo “con le garanzie stabilite dalla legge”.

Nel regime in cui siamo adesso, che non saprei come definire e come denominare, quella chiarezza è andata completamente perduta, non solo nelle menti degli attori del dibattito politico ma, temo, soprattutto in quella del popolo (se ancora esiste). Non si spiega altrimenti la stortura dell’attuale discussione sulle intercettazioni, che prescinde totalmente dalla preliminare e imprescindibile affermazione condivisa che esse sono un male. Qualunque intercettazione, di per sé, è un male perché lede il fondamentale diritto a non essere spiati, che a sua volta è un presidio indispensabile della libertà personale. Una delle discriminanti tra la condizione del cittadino in un stato democratico e liberale e quella del suddito di un regime totalitario è la garanzia di non essere spiato. Pensando alla nostra attuale situazione, ognuno si domandi a quale gradino della scala che porta dall’uno all’altro sistema noi ci troviamo.

Una volta stabilito che sono un male – ma bisognerebbe dirlo pensandoci bene e credendoci sul serio – si può senz’altro convenire che in certi casi le intercettazioni siano un male necessario a prevenire danni maggiori e che dunque in certi casi si debbano consentire, nelle forme e con le garanzie previste dalla costituzione repubblicana. Ma il dibattito, impostato così, avrebbe uno svolgimento assai diverso da quello che stiamo vedendo. Non sono un lettore di giornali né un appassionato di spettacoli televisivi di intrattenimento politico, quindi è probabile che mi sbagli, ma a mia conoscenza l’unico che abbia fatto un’osservazione che va in questo senso è stato Mattia Feltri, il quale sulla Stampa (!) qualche giorno fa ha avuto l’onestà di porre questa domanda:

«Se si trovasse il modo di intercettare ognuno di noi, fino all’ultimo, per ventiquattro ore su ventiquattro, magari con il supporto dell’intelligenza artificiale, la questione sarebbe chiusa: diventeremmo una società perfettamente onesta, e i pochi imprudenti andrebbero a far compagnia a Messina Denaro in un quarto d’ora. Avremmo perduto la libertà, ma avremmo guadagnato la sicurezza. Ed è questa la vera grande domanda: abbiamo costruito le società liberali e democratiche per garantire il massimo della libertà a ogni individuo o le abbiamo costruite per garantirgli il massimo della sicurezza? Le abbiamo costruite per la libertà sapendo che la libertà è un rischio o le abbiamo costruite per non correre rischi? Perché se pensiamo di averle costruite per blindarci dentro un fortino inespugnabile, vuol dire che abbiamo dimenticato le ragioni dei nostri valori fondanti, ma almeno dobbiamo dircelo».

Facendo una politica del terrore e agitando il feticcio della sicurezza (di non ammalarsi, in quel caso), i nostri governanti hanno minato altri principi costituzionali come il diritto al lavoro (art. 4), il diritto alla libertà di movimento (art. 16), il diritto a non essere obbligati a subire un trattamento sanitario «se non per disposizione di legge» (art. 32). Per carità, sul menu questi piatti ci sono ancora, ma sono di quelli che si possono ordinare solo per concessione del cuoco, quando non vi siano “emergenze” che li rendono improponibili. E le “emergenze”, come ormai dovremmo aver capito tutti, ci sono sempre

Zenos Frudakis : FREEDOM, Philadelphia
 

Quanto poi al diritto sancito dall’art. 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», beh è ormai passata, nella convinzione comune, l’idea che tale libertà valga solo per le “opinioni accettabili”, le “idee perbene” (cioè quelle che non hanno alcun bisogno di tutela perché sono così conformi alla corrente che galleggiano da sole). Per sicurezza (di nuovo questa ossessione securitaria), le idee brutte, quelle cattive, è meglio criminalizzarle. Adesso poi che siamo in guerra …

La verità è che della libertà non frega più niente a nessuno, o quasi. C’è un nesso profondo, a mio modo di vedere, tra questa tragica perdita di stima per la libertà e l’abbandono della fede nell’Occidente che un tempo fu cristiano. Il Dio del cristianesimo, infatti, è il supremo amante della libertà dell’uomo, l’unico che, su questo punto, è davvero inflessibile: l’ha data a tutte le creature razionali, la rispetta rigorosamente – direi quasi che la venera, se di Dio si potesse mai dire una cosa simile – e non ci ascolta mai quando lo imploriamo di riprendersela (come facciamo continuamente).

 

sabato 21 gennaio 2023

MARCELLO PERA BENEDETTO XVI E AGOSTINO INTERVISTA PARTE SECONDA

 

Tutte le grandi battaglie condotte da Ratzinger-Benedetto XVI, tanto quelle ecclesiali quanto quelle culturali-politiche, paiono oggi perse. La Chiesa sembra sconvolta da un radicale processo rivoluzionario tanto l’insegnamento di Benedetto XVI è distante da quello che oggi dicono le Gerarchie. È proprio la direzione di marcia ad essere stata invertita sul piano dottrinale, liturgico, morale, socio-politico. Non minore la distanza tra i moniti di Ratzinger in campo politico-culturale e lo stato in cui versa l’Occidente odierno. Vede ancora possibile una “ri-conversione” dell’Occidente a Cristo, una nuova unità di fede e ragione, di fede e cultura, di fede e politica oppure la deriva nichilista e post-anti-cristiana dell’Occidente è umanamente inarrestabile? La parola di Benedetto XVI fu profezia o sogno? 

La storia, mi scusi, è una baldracca. Va con tutti i clienti che incontra e cambia continuamente gusti. Dunque, cambierà ancora. Ma su una riconversione a Cristo dei popoli europei ho dei dubbi, almeno per le prossime generazioni. Temo che dovremo berci l’amaro calice ancora per un bel po’. Viviamo un’epoca scristianizzata e che pensa che scristianizzarsi sia un bene. Pensiamo di essere sempre più liberi e invece la mancanza del senso del limite, del proibito, del peccato, ci rende più schiavi. Siamo diventati creatori di diritti fondamentali: una bella contraddizione per chi crede in questi diritti, perché se sono fondamentali allora non possono essere creati dalle nostre leggi. Perciò i nostri laici razionalisti devono sciogliere un dilemma e prendere una posizione: o i diritti fondamentali dipendono dalle leggi positive e allora sono convenzionali e interessati, come favori elettorali, e dunque non sono diritti, oppure se sono fondamentali c’è una legge superiore alle leggi positive.

Frutto di lunghi anni di studio, nel 2022 ha dato alle stampe il volume Lo sguardo della Caduta. Agostino e la superbia del secolarismo (Morcelliana, Brescia), un intenso dialogo tra lei e il Vescovo d’Ippona in cui il liberale Marcello Pera cerca nel vecchio Agostino una risposta al male che corrode l’Occidente odierno. Ratzinger si può con verità definire un discepolo di Agostino essendo il suo pensare nella linea agostiniana-bonaventuriana. Ratzinger e Pera uniti anche da Agostino? E qual è la cura che Agostino offre all’Occidente malato?


Se si pensa ad una cura politica, nessuna. Agostino non crede nella politica, soprattutto non crede che la politica possa essere una strada per la salvezza. Non ci sono ricette politiche nel Vangelo, non ci sono in Paolo, salvo l’“ubbidite alle autorità”, non può esistere uno Stato cristiano, neanche governanti cristiani possono costruirne uno. La ragione è semplice: non si raggiunge, e neppure ci si avvicina, alla Città di Dio usando gli strumenti secolari. Lo Stato serve solo a difenderci da noi stessi. Tuo dovere è credere e convertire il tuo amore. Lo sforzo è individuale: quando diventasse collettivo, ne trarremmo vantaggio anche politico, che però mai sarebbe stabile, perché anche la migliore società terrena è affetta da vizi e caduca. Ma se in positivo mai c’è certezza di un Regno sulla terra, in negativo una certezza c’è: se trascuri lo sforzo della salvezza, se ti allontani dalla verità, se persegui idoli secolari, allora non ci sarà neppure società decente. Questo è il caso dell’Occidente. Così com’è, oggi, è perduto. Io ho tratto molta ispirazione e beneficio da Ratzinger. Certamente Ratzinger è stato molto influenzato da Agostino e Bonaventura. Confrontata al resto, la sua teologia politica è povera, ed a ragione.

In Lo sguardo della Caduta vi è, a mio avviso, molto di Ratzinger, anche ciò che si potrebbe individuare come debolezza/contraddizione rispetto al rapporto con la modernità politica, al giudizio sul liberalismo. Infatti, se Agostino è individuato come maestro e terapeuta da cui ricavare la ricetta per risanare l’Occidente malato e la ricetta di Agostino è decisamente “non liberale” anzi in punti fondamentali si potrebbe definire persino illiberale (nel senso di antitetica ai postulati dell’ideologia liberale), come si può sperare di tenere assieme la liberal-democrazia che costituisce l’identità politica dell’Occidente con la cura agostiniana “non liberale”? Curare il male dell’Occidente con la medicina di Agostino non significherebbe proprio negare il sistema liberal-democratico e, in generale, l’idea moderna di individuo, di società, di Stato, di politica, di diritto, etc.? Curare l’Occidente non implicherebbe forse la necessità di liberare l’Occidente dalla prigione ideologica della modernità (dunque anche dall’ideologia liberale) per riaffidarlo alla Tradizione Cristiana? 

Se lei vuol fare del liberalismo un bersaglio, è necessario, per colpire nel segno, identificarlo con precisione. Che cosa si intende per liberalismo? Una dottrina politica a salvaguardia della dignità e libertà dell’uomo contro la interferenza della società e dello Stato. Il liberalismo, perciò, è contrario allo Stato assolutistico e anche paternalistico, ed è favorevole ai diritti inalienabili dell’uomo. Questi sono diritti, come la uguaglianza nel valore dell’uomo, la sua irriducibilità a solo mezzo, la sua libertà di pensiero e di devozione, che sono fondamentali nel senso che non sono creati da alcuna autorità politica, ma da essa rispettati come limite della propria azione. Come si giustificano? È nota la posizione del liberalismo classico di Locke: i diritti fondamentali si giustificano perché noi siano creati e siamo proprietà di Dio e a lui siamo sottomessi, e Dio non può aver voluto che, riguardo a “lifelibertyand property”, alcuni uomini fossero sottomessi ad altri o avessero valore inferiore a quello degli altri. Perché? Perché Dio ci ama e noi dobbiamo essere degni del suo amore. Questo liberalismo, chiaramente, discende e si iscrive in una cornice cristiana, di cui accetta il primo insegnamento: Dio è caritas, amore che si dà alle sue creature, e noi dobbiamo onorarlo. In questo liberalismo vige, palesemente, la priorità del dovere (verso Dio) sui diritti. È il tuo dovere verso Dio che fa nascere il mio diritto di essere rispettato da te. È il mio dovere di non sopprimere una creatura di Dio che fa nascere il mio diritto alla vita. Eccetera.

Ora, si cambi qualcosa in questa cornice. Si sopprima il ruolo di Dio o lo si metta da parte. Che cosa diventano più i diritti fondamentali dell’uomo? Nient’altro che richieste di individui o di gruppi concesse e tutelate dallo Stato. Potrà chiamarli ancora fondamentali, ma non sono più gli stessi: sono libertà o licenze garantite. Come tali, si moltiplicano, perché non hanno più un limite che le freni: sono desideri, poi richieste, poi rivendicazioni, infine leggi. Il regime politico che tollera e consente tutto questo si chiama ancora liberalismo, ma si tratta di un’usurpazione concettuale. È quella che è in corso in Europa e nell’Occidente. Dove scompare il cristianesimo, il liberalismo si trasforma in anarchia etica, la vera “dittatura del relativismo”, come la chiamavano papa Wojtila e papa Ratzinger. E viceversa. Non è la prova migliore che liberalismo e cristianesimo sono concettualmente congeneri? E che un liberale autentico dovrebbe difendere il cristianesimo? Quando Agostino dice che lo Stato ha bisogno di un vincolo sociale religioso, non è come se dicesse ai liberali di oggi: almeno tornate alle vostre origini?

La Chiesa di Leone XII, di Gregorio XVI, del beato Pio IX, di Leone XIII, di san Pio X o di Pio XI non si faceva alcun problema a condannare la modernità ideologica e la liberal-democrazia, con il Vaticano II cambia la prospettiva e il giudizio si fa decisamente ambiguo. Di questa “ambiguità di giudizio” riguardo la modernità politica (dunque anche riguardo la liberal-democrazia) vive tutto il post-Concilio, pensiamo solamente al giudizio della Chiesa sulla democrazia o sui diritti umani. Non ne è esente neppure Ratzinger. Lo chiedo a lei, sapendola capace di libertà di giudizio e di vera onestà intellettuale, con schiettezza un po’ provocatoria: non avranno forse avuto ragione i Papi preconciliari? Non sarà proprio la liberal-democrazia il problema, la malattia di cui soffre l’Occidente?

Tra i miei libri ce n’è uno a cui tengo molto: Diritti umani e cristianesimo. Ovviamente, nessuno, soprattutto fra gli uomini di Chiesa, intende leggerlo. Non mi lamento. Ma se uno lo scorre, lì vedrà che rendo omaggio a quei Papi per essere stati profetici. Non sono più di moda, capisco. Ma come venire a capo del loro argomento, che se si definiscono i diritti dell’uomo come proprietà dell’uomo allora questi diventano diritti positivi degli Stati, che danno e negano? Questo, secondo me, oggi accade anche per responsabilità della Chiesa. Quando la Gaudium et Spes dichiara di “proclamare i diritti umani in nome del Vangelo” prende anch’essa una scorciatoia pericolosa: dimentica che bisogna prima passare dai doveri dell’uomo verso Dio. Solo questi doveri fanno la cernita dei diritti ammissibili. Altrimenti, non c’è modo di fermare aborto, eutanasia, matrimoni omosessuali, eccetera. Mi piace in proposito ricordare Mazzini: “certo, esistono i diritti; ma dove i diritti di un individuo vengono a contrasto con quelli di un altro, come sperare di conciliarli, di metterli in armonia, senza ricorrere a qualche cosa superiore a tutti i diritti?”. Credo che questa priorità dei doveri sui diritti Ratzinger l’avesse ben chiara, ma non sempre lo ha scritto chiaramente.

Benedetto XVI tentò l’impresa eroica di salvare l’Occidente da se stesso, tentò di impedirne il suicidio. Tentò anche di rianimare l’Europa riportandola alla propria identità cristiana … e tutto questo fece non dentro un contesto ecclesiale solido e sicuro, bensì avendo la roccia insidiata dalle sabbie mobili postconciliari. Tentò di strappare la Chiesa al processo autodemolitorio. Fu battaglia ad intra e ad extra. Cosa resta di tutto ciò? Quale futuro, secondo lei, per l’eredità ideale di Joseph Ratzinger?

Mi attendo che Ratzinger diventi santo per aver compiuto un miracolo … collettivo e se lo sarà, sarà solo per questo: aver frenato e invertito l’autodemolizione dell’Occidente cristiano. Era il suo impegno, è sempre stata la sua missione. Che Iddio, quando e come vorrà, gli garantisca il successo.

Grazie, Presidente!

don Samuele Cecotti

Intervista tratta dal sito vanthuanobservatory.org


giovedì 19 gennaio 2023

MARCELLO PERA, BENEDETTO XVI E L’AUTODEMOLIZIONE DELL’OCCIDENTE.

 L’ultimo giorno dell’anno civile – giorno in cui la Chiesa celebra san Silvestro, il Papa di Costantino e del Concilio di Nicea – papa Benedetto XVI concludeva il suo pellegrinaggio terreno.


Con la morte di Benedetto XVI, non solo ci lascia un fine teologo e un grande intellettuale europeo, ma si chiude un’epoca, quella del Concilio Vaticano II (e del travagliato post-Concilio) e forse si chiude anche l’età della Chiesa come anima di una civiltà. Con san Silvestro I la Chiesa divenne l’anima dell’Impero Romano dalla Britannia all’Egitto, dalla penisola iberica alla Siria, dall’Atlantico al Mar Nero, oggi la Chiesa guidata da Jorge Mario Bergoglio ha completamente rinunciato all’idea di plasmare, informare e guidare una civiltà. L’idea stessa di societas christiana o di Civiltà Cristiana è estranea alla deriva teologico-ideologica e pastorale incarnata dal pontificato di Francesco che pare anzi proporre il paradigma inverso con il mondo, sociologicamente inteso, elevato a luogo teologico a cui conformare Chiesa, dottrina e predicazione.

Joseph Ratzinger, invece, come teologo e Cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, poi come Romano Pontefice, ebbe sempre a cuore l’identità cristiana dell’Europa e della Magna Europa, non si arrese mai all’idea che la Civiltà Cristiana fosse da archiviare come cosa superata, sempre intese ribadire l’inseparabilità di fede e ragione, di fede e cultura, dunque il necessario farsi civiltà del Cristianesimo.

Molto caro al pensatore Ratzinger fu il provvidenziale incontro tra la Divina Rivelazione e il logos greco (e il ius romano) ovvero tra la Parola di Dio e la speculazione razionale classica capace di raggiungere le vette della metafisica così come il rigore della dialettica e della logica analitica, la legge morale naturale e una verace antropologia-psicologia. Ratzinger si oppose con forza al processo di de-ellenizzazione del Cristianesimo in atto da più di mezzo secolo nella Chiesa, ribadì anzi la provvidenzialità dell’incontro tra classicità greco-romana e Rivelazione biblica, incontro da cui nacque la Civiltà Cristiana.

Sul piano morale e politico Ratzinger-Benedetto XVI denunciò il male del nichilismo che corrode l’Occidente moderno e post-moderno, indicò nella dittatura del relativismo la forma di un nuovo subdolo totalitarismo, insegnò con forza la non negoziabilità (non solo sul piano morale personale ma anche su quello pubblico giuridico e politico) di principi naturali quali la difesa della vita umana dal concepimento alla morte naturale, il riconoscimento del matrimonio come unione monogamica e indissolubile di un uomo e una donna aperta alla vita, la libertà educativa dei genitori che hanno, da Dio, loro (e non lo Stato) il compito di educare la prole. Rigoroso e forte anche il rifiuto che Ratzinger oppose all’ideologia gender e alla pretesa di legittimare moralmente e riconoscere giuridicamente le unioni omosessuali.

In questa generosa e grandiosa opera, in questo intellettualmente possente tentativo di arrestare il crollo della Civiltà Cristiana, di puntellarne le mura e di iniziarne la ricostruzione, Ratzinger cercò sempre il dialogo con la cultura europea e nord-americana più sensibile anche se non-cattolica. Ratzinger cercò di costruire una proficua interlocuzione con il mondo laico e non-cattolico sulla base di un comune amore per la verità, la giustizia e la Civiltà occidentale. In questo quadro si inserisce l’incontro, il confronto, il dialogo e l’amicizia con Marcello Pera, illustre filosofo e politico liberale italiano.

Segue la prima parte dell'intervista a Marcello Pera, filosofo e politico liberale, fatta da don Samuele Cecotti dell'Osservatorio Cardinale Van Thuan per la Dottrina sociale della Chiesa,

Al senatore Marcello Pera, ringraziandolo per la generosa disponibilità, rivolgiamo così alcune domande per meglio capire cosa Ratzinger abbia rappresentato rispetto alla cultura europea e occidentale, dunque quale sia il vuoto che la morte di Benedetto XVI lascia nella Chiesa e in Occidente.

Presidente Pera, in Italia pochi intellettuali laici possono dire di aver conosciuto e apprezzato Benedetto XVI come lei. Come nacque il vostro rapporto e cosa la colpì del Ratzinger pensiero?

L’incontro nacque proprio da ciò che mi aveva colpito in lui. (...) Un giorno dell’agosto 2004, lessi il libro Fede, verità, tolleranza di Joseph Ratzinger, pubblicato da Cantagalli, e feci una scoperta che per me, evidentemente ignorante di quel genere di studi, fu scioccante: che il relativismo era una corrente di pensiero diffusa anche nella teologia cristiana. L’autorevolezza di Ratzinger, di cui avevo letto come tanti la sua Introduzione al cristianesimo, non mi fece dubitare che avesse ragione. Ne fui stupito e turbato: come era possibile? Che cosa era successo, nella religione del Verbo rivelato e incarnato, perché la verità non fosse più assoluta? Al rientro dalle vacanze, feci altre letture e chiesi visita a Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.... Cominciammo a parlare senza tanti preamboli o presentazioni, di filosofia, teologia, cristianesimo. Ricordo gli argomenti, ma soprattutto i toni dell’interlocutore, la sua figura, il suo garbo gentile e in particolare il suo sguardo mi impressionarono.... Non ebbi dubbi: Joseph Ratzinger era un grande. Non solo perché ne sentivo la vastità e profondità della cultura, ma per un tratto assai più prezioso: un uomo che sa stare al pari degli altri, che discute e interroga, senza toni di cattedra. Gli occhi non tradivano. Il sorriso non mentiva.

Da liberale laico, anzi da “gran liberale […] certamente il più illustre politico liberal-conservatore oggi in Italia” per usare le parole che l’arcivescovo Crepaldi le riservò a Trieste, cosa trovò in Ratzinger di stimolante, di coinvolgente e di convincente? Ci fu una iniziale difficoltà a comprendere e integrare nel suo sistema di pensiero il pensare teologico di Ratzinger oppure ci fu subito una convergenza di idee?

Nessuna difficoltà di comprensione, ma immediata consonanza di idee. Mi era ben chiaro che, se il relativismo fa male alla scienza, perché la riduce solo a una “cultura”, una “tradizione”, una “narrazione”, il relativismo teologico e religioso ha conseguenze perniciose sul cristianesimo. Se la verità è relativa, Cristo redentore dell’umanità è privo di senso. Non solo. Non era passato molto tempo dall’11 settembre 2001: se il cristianesimo fosse solo una cultura fra tante, la civiltà cristiana non avrebbe particolari fondamenti e meriti. E allora avevano ragione i terroristi islamici a considerarci imperialisti e a combatterci in quanto “giudei e cristiani”. Si ricordi e si rifletta: venivamo considerati colpevoli non tanto per il nostro fare, ma per il nostro essere. Ora, puoi dirti laico quanto vuoi, puoi diventare sordo e anche stimpanato al messaggio di Cristo questo era un dato inaccettabile: il cristianesimo era un nemico!

Solo che il cristianesimo non è una fede e basta, è una fede che ha tenuto a battesimo una civiltà: quella della dignità degli uomini, della libertà, della responsabilità, dell’uguaglianza. Abbattete il cristianesimo e avrete distrutto questa civiltà. Relegate la fede cristiana al ruolo di una narrazione e avrete perso il nostro fondamento. E anche la nostra identità: perché se gli altri ti colpiscono perché sei giudeo e cristiano e tu non dai alcun peso a questo tuo essere, allora gli altri sono qualcuno e tu non sei nessuno, non avendo niente da difendere. Questa è la lezione, del tutto personale, che io trassi dalla tragedia dell’11 settembre e che mi rafforzai durante gli incontri con Ratzinger. Lui aveva lucidità e coraggio. (...)

Politicamente il Magistero di Benedetto XVI avrebbe potuto ispirare una rinnovata identità culturale euro-occidentale cristiana e avrebbe potuto offrirsi come pensiero di riferimento per quanti non si riconoscono nell’universo ideologico progressista, nel relativismo etico e nel globalismo apolide, ovvero per le forze conservatrici e identitarie di Europa, Stati Uniti e America latina. A suo giudizio, come risposero le forze politico-culturali conservatrici/identitarie europee e americane all’estremo appello di Benedetto XVI? Furono all’altezza della sfida? Cosa impedì, secondo lei, un risveglio politico-culturale cristiano in Italia e in Europa tale da corrispondere all’appello di Benedetto?

“Avete perduto una grande occasione”, mi disse una volta, quando ormai era emerito, e noi di centro-destra avevamo perduto il governo. Gli replicai con sincerità e anche amarezza: “è vero, ma neppure la Chiesa ci ha aiutato”. Perché di chiese cristiane cattoliche ce ne erano già due all’epoca del suo pontificato: la sua, del cristianesimo come salvezza, e quella dei più, secolarizzata, del cristianesimo come giustizia. Come nell’affresco della scuola di Atene: una col dito e lo sguardo in alto, l’altra in basso. L’una che voleva correggere il mondo, l’altra che andava incontro e assorbiva il mondo, col pretesto di “aggiornarsi. Benedetto XVI ebbe il conforto di tanti che aveva chiamato a raccolta col nome di “minoranze creative”, fu appoggiato da intellettuali laici, fu sostenuto negli Stati Uniti dal presidente Bush. Ma il sostegno era timido, serpeggiava la paura, la circospezione, la prudenza. Fino a che, dopo la lezione di Ratisbona, tutto precipitò. Nessun capo di stato o di governo si alzò a difendere Benedetto XVI, a dire che non era questione di libertà di religione dell’islam, ma degli strumenti violenti che l’islam usava e non rinnegava. Ancora in questi giorni mi è capitato di leggere una signora sopracciò che dice che Ratzinger citava Manuele il Paleologo “fuori contesto”! E così per mancanza di coraggio, paura e codardia, calcolo e furbizia, le cose andarono male. Il Papa che aveva tenuti sull’attenti i partecipanti al collegio dei Bernardini a Parigi, nella Westminster Hall a Londra, al Reichstag di Berlino, che aveva condotto il laico presidente Sarkozy a dire a Roma che la Francia è cristiana, che aveva sfidato i laici sulle radici dell’Europa in una sala del Senato italiano, fu abbandonato. Fu costretto a spiegarsi, a giustificarsi, ad aggiungere note a piè di pagina. Se quella era una guerra di civiltà, allora la civiltà cristiana si ritirava. Difficile spiegare perché le cose siano andate così. Io penso che la bomba ad orologeria innescata col Vaticano II, e che Woytila e Ratzinger avevano cercato di disinnescare con la loro ermeneutica della continuità, infine sia esplosa. Si sono aperte la cataratte, al punto che oggi siamo alla Madre Terra, cioè alla rinascita del paganesimo, e al sincretismo. Sento ancora parlare di Dio, ma poco di Cristo; sento dire che la misericordia e il perdono prevalgono sul giudizio; non sento più l’espressione “peccato originale”. Stiamo tornando ai bei tempi russoviani, dell’uomo buono, angelico, incorrotto, vittima incolpevole della cultura perversa. O ai tempi di Pelagio, dell’uomo che ce la fa con le sue sole forze. Come se la Caduta fosse un mito. Con la colpevole complicità della chiesa, i secolaristi stanno vincendo.

(segue nel prossimo post)