RITORNARE ALL’UNITÀ PER RIFONDARE LA DEMOCRAZIA.
LA RIPARTENZA DEI CATTOLICI ITALIANI
Premessa: le radici o le ragioni dell’impegno sociale e politico
Incominciando a parlare del perché impegnarsi in politica, è interessante
muovere dal discorso tenuto da papa Francesco a Cesena, in occasione
della sua visita nel terzo centenario della nascita del papa Pio VI (1 ottobre
2017). In Piazza del Popolo il pontefice, richiamando il messaggio che
quel luogo suggerisce a tutti col suo nome, «piazza-del-popolo», ha
ricordato che è essenziale lavorare tutti insieme per il bene comune. Come
dire che, facendo parte di un popolo ed essendo tutti titolari di una
cittadinanza, occorre partecipare al suo buon governo.
Trascriviamo qui le
parole di papa Francesco:
«Questa piazza, come tutte le altre piazze d’Italia, richiama la necessità, per la
vita della comunità, della buona politica; non di quella asservita alle ambizioni
individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi. Una politica che
non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o
avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo;
che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva
inclusione e partecipazione; che non lasci ai margini alcune categorie, che non
saccheggi e inquini le risorse naturali – esse infatti non sono un pozzo senza
fondo ma un tesoro donatoci da Dio perché lo usiamo con rispetto e
intelligenza. Una politica che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei
singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera
cittadinanza.
Questo è il volto autentico della politica e la sua ragion d’essere: un servizio
inestimabile al bene all’intera collettività. E questo è il motivo per cui la
dottrina sociale della Chiesa la considera una nobile forma di carità. Invito
perciò giovani e meno giovani a prepararsi adeguatamente e impegnarsi
personalmente in questo campo, assumendo fin dall’inizio la prospettiva del
bene comune e respingendo ogni anche minima forma di corruzione. La
corruzione è il tarlo della vocazione politica. La corruzione non lascia crescere
la civiltà. E il buon politico ha anche la propria croce quando vuole essere
buono perché deve lasciare tante volte le sue idee personali per prendere le
iniziative degli altri e armonizzarle, accomunarle, perché sia proprio il bene
comune ad essere portato avanti. In questo senso il buon politico finisce
sempre per essere un “martire” al servizio, perché lascia le proprie idee ma non
le abbandona, le mette in discussione con tutti per andare verso il bene
comune, e questo è molto bello.
Da questa piazza vi invito a considerare la nobiltà dell’agire politico in nome e
a favore del popolo, che si riconosce in una storia e in valori condivisi e chiede
tranquillità di vita e sviluppo ordinato. Vi invito ad esigere dai protagonisti
della vita pubblica coerenza d’impegno, preparazione, rettitudine morale,
capacità d’iniziativa, longanimità, pazienza e forza d’animo nell’affrontare le
sfide di oggi, senza tuttavia pretendere un’impossibile perfezione. E quando il
politico sbaglia, abbia la grandezza d’animo di dire: “Ho sbagliato, scusatemi,
andiamo avanti”. E questo è nobile! Le vicende umane e storiche e la
complessità dei problemi non permettono di risolvere tutto e subito. La
bacchetta magica non funziona in politica. Un sano realismo sa che anche la
migliore classe dirigente non può risolvere in un baleno tutte le questioni. Per
rendersene conto basta provare ad agire di persona invece di limitarsi a
osservare e criticare dal balcone l’operato degli altri. E questo è un difetto,
quando le critiche non sono costruttive. Se il politico sbaglia, vai a dirglielo, ci
sono tanti modi di dirlo: “Ma, credo che questo sarebbe meglio così, così…”.
Attraverso la stampa, la radio… Ma dirlo costruttivamente. E non guardare dal
balcone, osservarla dal balcone aspettando che lui fallisca. No, questo non
costruisce la civiltà. Si troverà in tal modo la forza di assumersi le
responsabilità che ci competono, comprendendo al tempo stesso che, pur con
l’aiuto di Dio e la collaborazione degli uomini, accadrà comunque di
commettere degli sbagli. Tutti sbagliamo. “Scusatemi, ho sbagliato. Riprendo
la strada giusta e vado avanti”.
Cari fratelli e sorelle, questa città, come tutta la Romagna, è stata
tradizionalmente terra di accese passioni politiche. Vorrei dire a voi e a tutti:
riscoprite anche per l’oggi il valore di questa dimensione essenziale della
convivenza civile e date il vostro contributo, pronti a far prevalere il bene del
tutto su quello di una parte; pronti a riconoscere che ogni idea va verificata e
rimodellata nel confronto con la realtà; pronti a riconoscere che è fondamentale
avviare iniziative suscitando ampie collaborazioni più che puntare
all’occupazione dei posti. Siate esigenti con voi stessi e con gli altri, sapendo
che l’impegno coscienzioso preceduto da un’idonea preparazione darà il suo
frutto e farà crescere il bene e persino la felicità delle persone. Ascoltate tutti,
tutti hanno diritto di far sentire la loro voce, ma specialmente ascoltate i
giovani e gli anziani. I giovani, perché hanno la forza di portare avanti le cose;
e gli anziani, perché hanno la saggezza della vita, e hanno l’autorità di dire ai
giovani – anche ai giovani politici –: “Guarda ragazzo, ragazza, su questo
sbagli, prendi quell’altra strada, pensaci”. Questo rapporto fra anziani e giovani
è un tesoro che noi dobbiamo ripristinare. Oggi è l’ora dei giovani? Sì, a metà:
è anche l’ora degli anziani. Oggi è l’ora in politica del dialogo fra i giovani e
gli anziani. Per favore, andate su questa strada!
La politica è sembrata in questi anni a volte ritrarsi di fronte all’aggressività e
alla pervasività di altre forme di potere, come quella finanziaria e quella
mediatica. Occorre rilanciare i diritti della buona politica, la sua indipendenza,
la sua idoneità specifica a servire il bene pubblico, ad agire in modo da
diminuire le disuguaglianze, a promuovere con misure concrete il bene delle
famiglie, a fornire una solida cornice di diritti–doveri – bilanciare tutti e due –
e a renderli effettivi per tutti. Il popolo, che si riconosce in un ethos e in una
cultura propria, si attende dalla buona politica la difesa e lo sviluppo armonico
di questo patrimonio e delle sue migliori potenzialità. Preghiamo il Signore
perché susciti buoni politici, che abbiano davvero a cuore la società, il popolo e
il bene dei poveri. A Lui, Dio di giustizia e di pace, affido la vita sociale e
civile della vostra città. Grazie».
Dal discorso del pontefice emergono alcuni elementi fondamentali: tutti
devono coltivare l’impegno di lavorare per il bene comune, perché tutti,
adulti o giovani, hanno una vocazione al servizio del bene comune, sono
cittadini. Orizzonte e fine dell’impegno è la buona politica, amica delle
persone, inclusiva e partecipativa, che non lascia ai margini nessuno, che
tiene il timone fisso nella direzione del bene di tutti. Per questa ragione,
bisogna prepararsi in modo da essere in grado di agire efficacemente in
prima persona. Chi intende impegnarsi direttamente in politica deve
prendere la propria croce e sapere che potrebbe essere un “martire” al
servizio di tutti. L’agire politico, in nome e a favore del popolo, è una
nobile forma di carità. Il che esige coerenza dai protagonisti della vita
pubblica. Essi vanno accompagnati con una critica costruttiva. Non è lecito
fermarsi a guardare da un balcone, nella speranza del fallimento del
proprio avversario. Occorre dare, hic et nunc, il proprio contributo,
riscoprendo il valore della dimensione sociale della convivenza.
1. Le ragioni della fede nell’impegno sociale
Il pontefice parla dell’impegno politico da un punto di vista di ragione.
Occorre impegnarsi nell’azione politica, perché siamo tutti cittadini e,
pertanto, abbiamo tutti una vocazione al servizio del bene comune, sia
come rappresentanti sia come rappresentati.
Dopo aver evocato en passant la dimensione trascendente della politica,
sottolinea chiaramente che essa fa parte dell’amore del prossimo. Per chi è
credente, vi sono, dunque, altre ragioni che inducono ad impegnarsi in tale
campo. Appartengono all’ordine della fede, che non nega l’ordine della
ragione, ma lo conferma. Di queste ragioni papa Francesco ha già parlato
nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, specie al capitolo IV, ma
non solo.
Presentiamo qui, in forma più dettagliata, le ragioni dell’impegno nella
vita politica appartenenti all’ordine della fede, con alcuni argomenti che
fanno riferimento all’esperienza della vita cristiana.
Per chi vive in Cristo c'è una vocazione cristiana alla vita della res publica,
all'impegno di portarla a compimento in Dio. Siamo sollecitati a vedere la
nostra vita e la nostra azione, in tutti i campi, fondate su Gesù Cristo; anzi,
innestate in Lui, che ha assunto l'umano divinizzandolo. E questo, perché
Egli si è fatto carne e, con tale misterioso evento, ha assunto e indirizzato
anche le nostre vite verso quella completa realizzazione che si attua
soltanto in Lui. Dobbiamo, pertanto, vivere la nostra chiamata al sociale,
al bene comune, tendendo a quella pienezza umana che ci è già stata
donata in nuce dal Figlio di Dio. Ciò significa non tradire la nostra identità
di persone, che hanno in Lui la fonte della loro esistenza. Ci fa capire che
siamo portatori di una vocazione cristiana al sociale e alla politica. Non
sempre ce se ne rende conto. Le ragioni dell’impegno in politica, al
servizio del bene comune sono, in sintesi, anche di un ordine che sovrasta
quello razionale. Sembra, tuttavia, che questa visione sia pressoché
scomparsa dalla coscienza del credente, proprio quando, a fronte della
realtà che porta inscritta in sé, ognuno dovrebbe rispondere, al pari di Gesù
Cristo: «Ecco io vengo…» (Sal 39). E con ciò, assumere e vivere, con
slancio e passione, la propria chiamata al bene comune nell'Uomo Nuovo,
che è tale perché Uomo-Dio.
L'esortazione apostolica Evangelii Gaudium di Papa Francesco descrive la
radicazione in Cristo della nostra vocazione al sociale, a partire dalla
considerazione del kérygma (cf n. 177) della nostra professione di fede:
noi crediamo in Dio Padre e nel Figlio, Gesù Cristo, che, incarnandosi, ha
assunto e redento l’umanità. Crediamo nella Trinità. Crediamo di essere
inseriti nella comunione e nella dinamica d’amore di un Dio uno e trino.
Con questa professione, dichiariamo la nostra apertura e vocazione al
sociale. Se professiamo Dio come Padre, professiamo la fraternità,
riconoscendo gli altri come fratelli e, quindi, consapevoli di vivere in una
stessa famiglia: la famiglia umana, che è anche la famiglia di Dio.
Parimenti, se diciamo di credere nel Cristo, Figlio incarnato, affermiamo
in sostanza che ogni uomo è stato elevato alla dignità di figlio di Dio: la
dignità della persona è la dignità di figlio di Dio. Questo, evidentemente,
comporta una particolare attenzione nei confronti dell’altro, di ogni altro.
Analogamente, se professiamo la Trinità, dichiariamo che il nostro
modello di vita e la nostra meta sono la vita comunitaria di Dio.
Riconoscere la dimensione sociale della propria fede, che si evidenzia
soprattutto nel vissuto, è come rompere gli ormeggi e salpare verso il mare
aperto. Vuol dire mettersi in viaggio per una meta. Chi si mette in viaggio
deve avere ben chiaro il perché. Deve guardare verso l’obiettivo. Per noi
credenti, il porto d’arrivo è rappresentato dal compimento in Dio della
nostra vita nella pólis. Dio è il fine ultimo, lo sappiamo. Perseguendo
questo fine, il nostro Bene sommo, vivifichiamo e umanizziamo tutte le
dimensioni dell’esistenza, portandole alla loro pienezza umana. L’impegno
nella pólis, e pertanto nella politica, raggiunge la sua perfezione, se lo
viviamo con il cuore pieno di Dio, del suo amore, un amore pieno di
verità, come ci ha insegnato Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in
veritate.
Vivendo Cristo, il credente si interroga su che cos'è la politica e qual è il
suo compimento. Dimorando in Cristo, l’impegno diventa tensione verso
la perfezione di tutte le realtà umane. Per il credente, che scioglie gli
ormeggi verso il mare aperto ‒ duc in altum ‒, è dunque decisivo
riconoscere e accogliere il punto sorgivo, generativo della propria presenza
nel campo, non sempre tranquillo, del sociale e del civile. Noi siamo
presenti, socialmente e civilmente, non solo in quanto esseri umani, esseri
intrinsecamente sociali, ma anche soggetti innestati e viventi in Cristo.
Non ci si stancherà mai di sottolineare che il punto sorgivo è il vivere in
Cristo, è vivere Cristo, il Cristo totale, che si incarna, muore, discende
negli inferi, risorge, ascende al cielo e, abbracciando il cosmo intero,
ricapitola in sé tutte le realtà, compresa la politica. Con il suo Amore,
rinnova la vita dell’uomo in ogni sua manifestazione. Ne discende che chi
vive nel Cristo totale, cioè in Colui che si incarna e poi sale al Padre, ha il
compito di vivere la politica facendola nuova, puntando alla rinascita
dell'umano.
2. Alcune cause dell’irrilevanza dei cattolici nel campo della politica
Dopo questa indispensabile premessa, veniamo a considerare la presenza
dei credenti nella politica. È inutile dire che, nell’attuale fase storica, i
cattolici vivono disseminati in vari partiti e movimenti, e stanno prendendo
sempre più coscienza della loro ininfluenza, di una certa incapacità di
proporre e far valere quegli stessi valori che hanno concorso a codificare,
con altre forze politiche, nella Costituzione italiana. È oramai evidente che
le posizioni dei cattolici e la cultura di cui sono portatori sono considerate
marginali, rispetto alla cultura generale del Paese, sebbene la Chiesa
mostri una grande vitalità nell’ambito caritativo. Per reagire a questa
situazione, in più momenti, sono sorti tentativi di fondazione di nuovi
partiti, e, prima ancora, si era cercato di creare un nuovo movimento
sociale e politico. Ma quegli stessi che avevano contribuito a farlo nascere,
come un’urgenza che doveva rispondere alla necessità di una
ricomposizione culturale, prima che socio-politica, non sono sempre
riusciti a far avanzare il progetto di un nuovo movimento. Anzi, alcuni
hanno persino rimosso l’idea di un «movimento» culturale, per impegnarsi
più immediatamente nella nascita di una nuova realtà partitica, senza
avvertire la necessità di lavorare in primo luogo alla creazione di un
dialogo tra le molteplici forze sociali di estrazione sia cattolica che liberale
– ossia facenti capo a persone di buona volontà, anche se non credenti ‒, e
alla elaborazione di un nuovo progetto culturale. In certo modo, ciò ha
ritardato la nascita di quanto vedo che oggi, per fortuna, si desidera
riprendere, spero senza fughe in avanti.
Agli inizi degli anni Novanta, la diaspora dei cattolici nel campo della
politica - perché questo è uno dei punti che dobbiamo considerare per
parlare più concretamente dell’impegno dei cattolici -, poteva apparire non
solo come una necessità motivata, ma anche come una preziosa
opportunità, persino come una «benedizione», secondo alcuni. La diaspora
rendeva evidente che il seme cristiano non poteva essere «sequestrato» da
qualche compagine, in questo caso partitica, rinchiudendola dentro
involucri, che alla fine lo contraddicevano e lo rendevano sterile. Il lievito
dei cristiani doveva far fermentare tutta la pasta. Oggi, abbiamo la
possibilità di una valutazione chiara di questa forma di pensiero. La
diaspora, teorizzata come un bene, al lato pratico si è trasformata
nell’irrilevanza dei cattolici nella vita pubblica. E, fatto ancora più grave,
ha lasciato dei segni di contrapposizione, provocando forti divisioni tra i
cattolici stessi.
Accenno qui ad almeno due cause dell’attuale irrilevanza o insignificanza
dei cattolici:
a) La prima causa. Sono state sottovalutate le regole procedurali della
vita democratica, in particolare quella del principio di maggioranza.
In una democrazia, i beni-valori, compresi quelli dei cattolici,
possono e devono venire inseriti nelle istituzioni e nelle leggi,
mediante un metodo democratico, con l'appoggio di una
maggioranza; il che suppone che vi sia una qualche «massa critica»
che li sostenga. Per quanto concerne la regola procedurale della
maggioranza, è facile capire che quanti hanno sostenuto la «teoria»
della diaspora, in sostanza hanno contribuito a far regredire le
posizioni del mondo cattolico dal punto di vista politico e
democratico. Al pari di ogni altro cittadino, il cattolico sa che, in una
democrazia pluralista, può promuovere tutto quello in cui crede, sia
come persona umana sia come uomo di fede ‒ la sua fede non fa
altro che confermare ciò che pensa come essere umano e razionale ‒
ma solo se vive all’interno di una aggregazione e non disperso qua e
là. Ossia se, assieme ad altri, giunge a costituire una maggioranza. È
una legge della vita democratica. Affinché i propri beni-valori
possano essere incarnati dall’azione politica, occorre essere il più
possibile uniti, compatti.
Rispetto a questo punto, la parte del mondo cattolico, che ha
sostenuto e ancora sostiene la teoria della diaspora, ma anche quei
teologi e quei vescovi che l’hanno condivisa, a mio modo di vedere,
hanno contribuito a far regredire la «maturità» politica in una specie
di analfabetismo sociale.
b) La seconda causa. Il venir meno del radicamento della vita dei
cattolici nel contesto spirituale e culturale di una fede viva. A lungo
andare, ciò ha provocato lo scollamento dei movimenti sociali di
ispirazione cristiana rispetto ai valori evangelici e all’esperienza di
una fede vissuta profondamente, generando il disfacimento di una
formazione e di una mentalità cristiane. Tra l’altro, parrocchie,
diocesi, movimenti hanno delegato a terzi la formazione politica del
credente, impegnato a gestire la cosa pubblica e a vivere nella
comunità civile. Non raramente, la Dottrina sociale della Chiesa è
rimasta, negli Statuti delle organizzazioni cattoliche o di ispirazione
cristiana, come affermazione di principio, senza essere tradotta nella
pratica! Da molte associazioni, aggregazioni, movimenti cattolici o
di ispirazione cristiana, la Dottrina sociale della Chiesa è ormai
pressoché ignorata. Per non parlare, poi, della vita parrocchiale: ci
sono indagini che mostrano che la catechesi è fatta da persone che
per l’ottanta per cento ignorano che cosa sia la Dottrina o
Insegnamento sociale della Chiesa e, quindi, non sono in grado di
veicolarla nella loro opera di educazione alla fede.
3. La crisi della democrazia mette in risalto la falsità del dogma della
diaspora
Il fallimento del dogma politico della diaspora dei cattolici è divenuto più
evidente in questo tempo di profonda crisi della vita politica, dei partiti e
della democrazia, che si manifesta come crisi di rappresentanza, di
rappresentatività, di partecipazione. Viviamo in un frangente storico di
deficit di rendimento dei sistemi democratici, e di sfiducia dei cittadini nei
confronti delle istituzioni e delle élite politiche e democratiche. Anzi, in un
clima di crollo della democrazia proprio nei suoi pilastri fondamentali,
rappresentati dalla libertà, dallo Stato di diritto e dallo Stato sociale.
La democrazia è nata come una «promessa» di libertà, (1 Su questo mi permetto di rinviare a:
M. TOSO, Per una nuova democrazia, Libreria Editrice Vaticana, Città delVaticano 2016)
da realizzare gradualmente, mediante l’emancipazione della soggettività e la liberazione
dalle catene dell’eteronomia. Purtroppo, il fondamento della libertà,
appropriato da un soggetto radicalmente utilitario ed individualista, ha reso
un simile obiettivo alquanto difficile. Oggi, la democrazia sembra
accentuare la fragilità del progetto iniziale, a motivo di un impianto
culturale individualista, divenuto più esteso e virulento, perché associato
all’assolutizzazione della tecnocrazia e del capitalismo finanziario.
L’odierna democrazia appare, così, in forte decadenza, incapace di
salvaguardare anche la libertà più alta, ossia la libertà religiosa nelle sue
varie articolazioni. Non poche amministrazioni comunali negano la libertà
dell’educazione cattolica, come anche la libertà di coscienza in materia di
aborto. In Francia, ove da tempo è stato codificato il diritto all'aborto,
ultimamente si è deciso che coloro che via web provano a dissuadere da
tale pratica sono passibili di una multa di 30mila Euro, e in aggiunta
possono essere condannati a due anni di carcere. Insomma, ci dovrebbe
essere libertà solo per chi vuole abortire, ma non per chi difende il diritto
alla vita. E non si osserva affatto la presenza di un mondo cattolico
sufficientemente organizzato e preparato, in grado di contrastare questi
orientamenti. In Italia, poi, in non poche città, le imposte comunali ICI ed
IMU non solo sono fatte gravare sulle scuole cattoliche – scuole paritarie
con funzione pubblica ‒ ma si tende anche a farle pesare sugli episcopi,
sugli uffici curiali e sui locali della Caritas, considerati alla stregua di enti
commerciali.
Si è appena detto che viviamo in una fase di crollo anche del secondo
pilastro della democrazia, e cioè dello Stato di diritto. Ciò avviene
prevalentemente a motivo di un neoindividualismo radicale predominante.
Sulla base di tale individualismo quasi anarchico, ognuno si considera
autonomo nel vero senso del termine, e cioè legge a se stesso. Ha valore
solo ciò che decide il singolo, con il suo libero arbitrio. L'assolutizzazione
dell’individuo, considerato unico metro di misura della verità e del bene,
conduce a porre il soggettivismo a fondamento dei diritti e dei corrispettivi
doveri. L’asserzione di un tale individualismo libertario rende fragili ed
incerte le fondamenta dello Stato di diritto contemporaneo, che appare
sempre più instabile.
Il crollo dello Stato di diritto, con la complicità di un capitalismo
finanziario ad impronta utilitarista e performativa, poi, provoca a sua volta
la caduta del terzo pilastro della democrazia, ossia lo smantellamento dello
Stato sociale.
Il capitalismo finanziario, che assolutizza il profitto a breve
e brevissimo termine, vanifica i diritti sociali, quali il diritto al lavoro, alla
formazione professionale, alla sicurezza sociale, che sostanziano il Welfare
State. Venendo così aggredito lo Stato sociale, viene meno la democrazia
sostanziale, la quale può sussistere solo se, accanto ai diritti civili e
politici, possono essere realizzati anche i diritti sociali.
In un contesto di decadimento dei vari pilastri della democrazia, i credenti,
in quanto cittadini a pieno diritto, sullo stesso piano di tutti gli altri, sono
sollecitati a dare il loro apporto, in vista della rifondazione della politica,
con la riappropriazione della democrazia, oggi divenuta populista,
oligarchica. Bisogna rifondare la politica, che ha finito per perdere, con la
sua dignità, il suo significato umano! Proprio nel momento in cui abbiamo
più bisogno di una retta azione politica, questa è venuta a mancare. Dopo il
fallimento del neoliberismo nelle sue forme più estreme, dobbiamo
recuperare la prospettiva dell'intervento statale nel campo dell’economia,
ovviamente secondo il principio di sussidiarietà, quale peraltro era stato
prospettato, già nel 1967, anche dalla Populorum Progressio. E tuttavia,
nel momento in cui, anche a livello di teorie economiche, un certo
intervento statale è consigliato in sinergia con l’iniziativa del mercato e
dell’iniziativa sociale, per ironia della sorte, avviene che non disponiamo
più di uno Stato in grado di ordinare e orientare l'economia. Il primato,
infatti, è detenuto dalla finanza speculativa, che esula da una sana azione
politica.
Ciò costituisce un grave handicap per la democrazia, per la realizzazione
del bene comune, per l’attuazione di uno Stato sociale e di un'economia
democratica a misura di cittadino. Basti pensare al fallimento di parecchie
banche italiane. Che cosa può fare ora il legislatore? Ben poco. In un
contesto in cui lo Stato non batte più moneta, la sua autorità è fortemente
ridimensionata e il suo contributo alla soluzione della crisi è circoscritto.
Diventa, quindi, indispensabile l’intervento di Istituzioni internazionali,
quali, ad esempio, la Comunità Europea o la BCE. Ma non si può ignorare
la loro incompiutezza, l’urgenza di venire integrate sul piano mondiale.
Insomma, ci troviamo in una situazione difficile e complessa, che richiede
un rinnovato impegno ideale e sociale da parte di tutti i cittadini, compresi
i cattolici. Se non si è vigilanti riguardo al dilagare del capitalismo
finanziario internazionale, se non si pongono limiti al suo strapotere, si
corre il rischio che gli Stati ne diventino schiavi, alla mercé di speculazioni
che non sono più in grado di contrastare.
I credenti, nella loro qualità di cittadini al pari di tutti gli altri, sono
chiamati a dare il loro apporto in vista di tale rifondazione della politica,
della ricostituzione del suo primato sull’economia, nonché di una
democrazia inclusiva, partecipativa. In un quadro di caduta libera della
democrazia, di una tale destrutturazione dell'economia reale, della
famiglia, del lavoro, dello Stato sociale; in un mondo divenuto più
complesso, più interconnesso, più interdipendente, non possono mancare,
anzitutto, una nuova evangelizzazione del sociale, e neppure un nuovo
«protagonismo» dei credenti, oltre che delle comunità cristiane, in rete con
tutti gli uomini di buona volontà. E ciò, al fine di affrontare le molteplici
questioni cruciali del tempo presente. Si tratta di gravissimi problemi
sociali, che spaziano dai grandi esodi di migranti; dalla tratta di persone
umane; da una terza guerra mondiale «a pezzi»; dal predominio di teorie
economiche, indirizzate al profitto di breve periodo; da un'Europa politica
anchilosata e sequestrata dai nazionalismi, fino all’aumento delle disparità
sociali; alle politiche monetarie, finanziarie ed economiche, che
privilegiano i più ricchi e che richiedono urgenti riforme, per poter
sostenere la crescita e la piena occupazione.
A questo proposito, si stanno applicando solo dei palliativi, compresa la
proposta del reddito di cittadinanza. Gli stessi economisti affermano che
sarebbe meglio adottare una politica attiva del lavoro, perché solo così si
possono far crescere le persone in libertà e responsabilità, procurando allo
stesso tempo anche quel reddito nazionale che è indispensabile per
ottenere risorse e finanziamenti. E, comunque sia, la «filosofia» del reddito
di cittadinanza, che andrebbe realizzato non in maniera indiscriminata,
richiederebbe in ogni caso di essere integrata da politiche ben più creative
e positive di quelle attuali.
Al lato pratico, si deve pensare al potenziamento degli investimenti
pubblici insieme a quelli privati; all'elevazione dei salari minimi; alla
ridistribuzione più equa della ricchezza nazionale; alla riforma dei mercati
del lavoro, per facilitarne l'accesso; alla riforma sull'immigrazione,
creando percorsi che diano adito alla cittadinanza per quelli che ne hanno
titolo; al potenziamento dell'economia civile; alla promozione della libertà
religiosa; alla lotta contro la falsa teoria del gender; al rafforzamento della
famiglia; a opportune politiche demografiche.
Le proposte di politiche di detassazione dei redditi familiari implicano
ovviamente il fatto che le famiglie dispongano di un reddito. Ma se ne
sono prive? Che senso avrebbe stabilire di detassare famiglie senza
introiti? Ci vorranno, pertanto, ben altri provvedimenti a sostegno della
famiglia, ivi comprese le politiche demografiche. Se nel nostro Paese non
vi sarà una crescita consistente della natalità, si andrà incontro ad un sicuro
fallimento dal punto di vista non solo demografico, ma anche economico.
Ecco alcuni ambiti rispetto ai quali i cattolici non possono più rimanere
indifferenti e procedere divisi, in una diaspora che scolorisce e indebolisce
sempre di più il loro apporto specifico. Essi sono chiamati a mobilitarsi, a
ricompattarsi, assieme a tutti gli uomini di buona volontà, che hanno a
cuore il bene comune.
4.Quali prospettive di azione?
In particolare, c’è bisogno di conversione – uso questo termine che
riprendo dai testi pontifici, anche se corro il rischio di non essere compreso
‒, pastorale, pedagogica, politica, economica, come ha sottolineato
l’enciclica Evangelii Gaudium. Recentemente Papa Francesco,
incontrando nel novembre 2016 i movimenti popolari, li ha incoraggiati a
rafforzarsi, vincendo il rischio sia di farsi incasellare dall'attuale sistema
socio-economico, sia di lasciarsi corrompere.
Si vuole, così, essere particolarmente incisivi nella rivitalizzazione e nella
rifondazione della democrazia, afflitta, come già detto, da una crisi
profonda, che finisce per lasciare ai margini i più poveri. L’attuale crisi
causa, infatti l’erosione dei ceti medi, accrescendo il divario tra ricchi e
poveri, dando luogo ad uno sviluppo economico insoddisfacente e
all’emergere di una «democrazia di un terzo».
I movimenti, secondo il pontefice, devono superare la tentazione di
sostenere acriticamente coloro che sono al potere, finendo per essere
soltanto amministratori delle esigue risorse esistenti, anziché favorire la
crescita per tutti.
A questo proposito, desidero richiamare il vissuto odierno, per sottolineare
come esso non sembra organizzato in modo tale da poter promuovere dei
cambiamenti. Non raramente, i credenti – dall’Azione Cattolica a
Comunione e Liberazione, dalla Confcooperative alla Coldiretti ‒ sono per
lo più «inseriti» nel Partito Democratico. Non si intende qui negare la
legittimità di collocarsi politicamente da una parte o dall'altra, di scegliere
un partito piuttosto che un altro, evidentemente a certe condizioni. Si
desidera solo sottolineare la necessità che la scelta partitica sia sempre
vissuta con intelligenza, con senso critico, in modo da non assegnare il
primato al colore dell’appartenenza rispetto ai beni-valori in cui si crede.
Concedere il primato alle direttive dei partiti conduce talora ad esiti
infausti.
Quando si parli di libertà di educazione e, ad esempio, di
tassazione della scuola cattolica paritaria mediante aliquote ICI o IMU
penalizzanti; quando si parli di altri temi sensibili, come l’obiezione di
coscienza da parte dei medici nei confronti dell’aborto, o come l’eutanasia,
molti cattolici, che fanno riferimento al Partito Democratico, sembrano
rimanere inerti, mettendo a tacere ogni obiezione. Non si pronunciano
contro gli ordini di scuderia, rispetto a decisioni che finiscono per
smantellare lo stesso modello di famiglia e il concetto di lavoro, quali sono
codificati nella Costituzione Italiana. Credo che sia legittimo domandarsi
per quale ragione si comportino in tal modo. Non possiedono, forse, una
loro identità, che non dovrebbe permettere di rassegnarsi a che i benivalori
fondamentali siano platealmente disprezzati o negati? Non sono
dotati di una cultura e di un patrimonio valoriale che li renderebbe
rivoluzionari, rispetto agli orientamenti esistenti? Per rispondere a simili
interrogativi, sarebbe sufficiente pensare ad un breve elenco delle
prospettive di cui sono portatori: la vita come dono di Dio; la fraternità; la
libertà responsabile; la solidarietà; la famiglia, come culla della vita e
dell’educazione della persona; il lavoro, come bene fondamentale, antidoto
alla povertà e titolo di partecipazione, che sollecita a politiche del lavoro
per tutti; un’economia sociale, implicante una imprenditorialità
plurivalente e una finanza a servizio dell’economia reale; l’ecologia
integrale; il bene comune; la giustizia sociale; la pace.
Possibile che, in forza della loro identità, della dimensione sociale della loro fede,
delle alte motivazioni evangeliche che li animano, della ricchezza della loro
tradizione sociale più nobile, in un contesto di smantellamento del valore
della vita e della famiglia, come società naturale fondata sul matrimonio
tra un uomo e una donna, nonché dello Stato sociale, della crisi ecologica,
della tratta di esseri umani, di una terza guerra mondiale «a pezzi», della
crescita delle povertà e delle diseguaglianze, di migrazioni umane dalle
proporzioni bibliche, i cattolici non riescano a trovare un sussulto di
dignità, il desiderio di un servizio indomito e responsabile al bene comune,
un minimo di unità, innanzitutto tra loro, e poi, con gli uomini e le donne
di buona volontà, per reagire ai mali che stanno portando l’umanità alla
rovina? Perché non incontrarsi, parlare, dialogare e costituire insieme
nuovi movimenti sociali e culturali, una nuova «massa critica», tale da
poter incidere sulle attuali dinamiche di distruzione e di disumanizzazione
delle nostre città, delle nuove generazioni?
5. Formare un nuovo partito di ispirazione cristiana?
In diverse occasioni ho avuto modo di sollecitare le varie organizzazioni,
associazioni ed aggregazioni cattoliche o di ispirazione cristiana ‒
considerato che non esiste più il vecchio movimento sociale cattolico ‒, a
compattarsi, a formare nuovi movimenti, quali luoghi di elaborazione di
una nuova cultura, di una nuova progettualità, di una nuova rappresentanza
e di una nuova partecipazione. Non raramente mi sono sentito obiettare:
«Ma lei desidera formare un nuovo partito!». Ho risposto che un vescovo
non può fondare un partito, perché questo è compito precipuo dei laici,
qualora, poste alcune condizioni, lo credano opportuno. Per inciso ‒ a
differenza di coloro che considerano superata l’idea che i cattolici, assieme
ad altri uomini di buona volontà, possano far nascere nuove entità
partitiche ispirate cristianamente! ‒ personalmente ritengo che non lo si
debba considerare un’astrusità o persino una bestemmia. Non sarebbe un
male se, in base alle necessità e condizioni preesistenti, si volesse agire in
tal senso. I credenti non sono cittadini di serie B. Al pari di tutti gli altri
cittadini, hanno il diritto di associarsi e, quindi, di formare partiti, qualora
lo ritengano necessario e opportuno. È un compito che spetta a loro, e non
certamente alla chiesa gerarchica.
Ad ogni buon conto, considerata la situazione, prima ancora di avviare
precipitosamente la nascita di nuovi partiti – che qualcuno vorrebbe
«cattolici», cosa che già don Luigi Sturzo ha mostrato essere incongruente
-, occorre impegnarsi nell’unire le forze, lavorando alla compattazione di
una nuova piattaforma valoriale e culturale, sulla cui base elaborare una
nuova progettualità. Al riguardo, può servire come modello l’azione di
quei cattolici che, nel secolo scorso, hanno provveduto alla stesura del
noto Codice di Camaldoli. Si potrà allora giungere, attraverso ulteriori
passaggi, ad un progetto politico. Faranno bene, in questa fase storica, ad
unirsi in un Movimento, al fine di individuare un nuovo pensiero, una
nuova visione della società e, conseguentemente, un nuovo progetto
sociale! Un problema non secondario, oggi, è quello appunto di costruire
l'unità necessaria innanzitutto tra i credenti e, poi, con tutti gli uomini di
buona volontà, anche di estrazione liberale, che non siano alieni dalla
solidarietà. Detto brevemente, la questione cruciale non è tanto la forma
della discesa in campo, ma è come costruire l’unità tra i cattolici, che
attualmente sono in preda al dogma della diaspora e vivono in un
pluralismo divaricato!
Ho avuto modo di incontrare varie realtà di cattolici in diverse città italiane
ed ho potuto notare che esiste un popolo della pace, già di antica data.
Esiste, inoltre, un popolo per la vita ed un popolo per la famiglia. Ma ho
anche dovuto registrare che tra questi vari «popoli», fondamentalmente di
ispirazione cristiana, non si riesce a trovare il modo di unirsi, che il
dialogo è difficile. Si preferisce procedere in ordine sparso, anche in
occasione delle elezioni, senza considerare adeguatamente che questa
frammentarietà rappresenta una grande debolezza dal punto di vista
dell’incisività politica.
È questa la vera tragedia del mondo cattolico contemporaneo! Si sceglie la
diaspora, la frammentazione invece della sinergia, della collaborazione.
Sulla base di questa prassi consolidata, è velleitario pensare di riuscire a
costituire un nuovo partito. Occorre prima imparare, con umiltà, ad
incontrarsi, a dialogare, a costruire insieme un nuovo «progetto Paese».
Peraltro, sembra davvero irreale ed utopistico il desiderio di poter
costituire un nuovo partito, quando si sia così pochi. Un nuovo partito non
è destinato al successo senza un minimo di unità valoriale e culturale,
senza un numero consistente di adesioni, senza una qualche massa critica,
senza un minimo di radicazione nel territorio nazionale. Un nuovo partito
non potrà mai decollare con un numero esiguo di aderenti. Come affermato
all’inizio, non si può ignorare quella legge fondamentale della democrazia
che è il principio di maggioranza. Per procedere con una speranza fondata,
occorre che le diverse aggregazioni, associazioni, e movimenti si pongano
in sinergia. In questo momento storico bisogna lavorare, per fare rete con
altre realtà. È facile rappresentare la situazione attuale. È costituita da tanti
«cespugli», da tante piccole entità indipendenti. Ognuna desidera evolvere
in un partito, senza relazionarsi con altri, ma ciò non pare realisticamente
fattibile!
6. Conclusione: la capacità di essere e di farsi incessantemente movimento
culturale e sociale
Bisogna avere il coraggio di superare particolarismi ed isolazionismi.
Penso, talvolta, che oltre ad una Settimana di preghiera per l’unità dei
cristiani, ci vorrebbe una Settimana di preghiera per l’unità dei cattolici!
Ricordando il beato Giuseppe Toniolo, quando era in corso il processo di
beatificazione e si vagliavano i vari miracoli, solevo ripetere agli
appartenenti all’Azione Cattolica: «Non disperate! Toniolo sicuramente ha
già compiuto un miracolo, che dev’essergli riconosciuto! Assieme ad
Antonio Zucchini (grande cattolico di Faenza ove sono vescovo), e ad altri
credenti visionari, è riuscito a unire e compattare i cattolici!».
Si tratta di continuare su questa strada, ad imitazione del gruppo di
Camaldoli, tenendo conto delle res novae del contesto odierno.
Auguro a tutti un proficuo lavoro.
+ Mario Toso
Vescovo di Faenza-Modigliana
Intervento tenuto alla prima lezione del PERCORSO
23 Novembre 2017 – Ore 20.45“La dottrina sociale della Chiesa considera la politica una nobile forma di carità.”
È ANCORA NECESSARIO IMPEGNARSI IN POLITICA?
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