lunedì 30 gennaio 2017

AMATE QUOD ERITIS



Ivan Aivazovsky: The Ninth Wave (1850)
««Amate quod eritis. Eritis enim filii Dei, et filii adoptionis. Hoc vobis gratis dabitur, gratisque conferetur». [Agostino, serm. 216, 8]


Amate quel che sarete. Sarete infatti figli di Dio, e figli di adozione. E sarà tutto gratis.

Dopo come fa uno, fosse anche il più miserabile di tutti, a non volersi bene? “Anche se ora mi sento una merda, sarò come Dio, suo figlio adottivo. Uno di famiglia, praticamente”.

Come fa uno, con un pensiero così, a non sentirsi bene? Ecco risolti per tutti, alla radice, tutti i problemi di autostima che travagliano tanta gente e sono alla base di tante sofferenze psichiche e di infiniti pasticci nelle relazioni umane.

Bisogna crederci, però.
leonardolugaresi | 26 gennaio 2017  

I MURI DI TRUMP? NO, DI OBAMA


CHI HA SCELTO I SETTE PAESI?

In preda alle convulsioni, i leoni e le pantere da tastiera ieri chiedevano con un tono da caccia alle streghe: come mai Trump ha scelto quei sette paesi? Come mai eh? Perché non c’è l’Arabia Saudita? E chi ha deciso quella lista?
Nel frastuono degli intelligenti a prescindere, s’è levata una risposta: “Ask Obama”. I sette paesi elencati nell’ordine esecutivo del presidente Trump sono esattamente quelli usciti da una selezione fatta in due tempi dall’amministrazione Obama durante l’attuazione del Terrorist Travel Prevention Act nel 2015 e nel 2016. So, boys, ask Obama. 

Ma i fatti sono del tutto irrilevanti in questa storia, l’isteria liberal domina la scena, i giornali fanno la ola, le televisioni ci inzuppano il biscotto e via così in uno show dove i fatti sono del tutto secondari. 

SIRIA
Fu lo stesso Obama nel 2011 a fermare gli ingressi di rifugiati dall’Iraq in attesa di una revisione delle misure di sicurezza. (TRUMP: “My policy is similar to what President Obama did in 2011 when he banned visas for refugees from Iraq for six months.”).

E d’altronde il numero di rifugiati siriani accolto dall’amministrazione Obama dice tutto sulla lungimiranza con cui fu affrontato il problema dalla Casa Bianca. Ecco l’accoglienza riservata ai siriani da parte del governo guidato dal premio nobel per la pace: Obama dal 2011 al 2015 ha accolto in totale 1.883 profughi siriani, una stratosferica media di 305 all'anno.

Nel 2016, dopo aver fallito la guerra in Siria, preso dai sensi di colpa, dopo 5 anni di guerra, 400 mila morti, 4 milioni di rifugiati, Obama alza il tetto per i siriani alla stellare cifra di 13 mila unità, il totale fa circa 15 mila. Di fronte a un impegno umanitario di così grande portata, con quel retroterra, i democratici oggi fanno piangere la statua della libertà per le decisioni dell’amministrazione Trump. Il premio faccia di bronzo è vinto a tavolino.

I numeri, i fatti, le cifre, la realtà sono un incidente di percorso  che non interessa i liberal. E’ la solita storia, quella della mostrificazione dell’avversario: durante la campagna presidenziale, quando Trump disse di voler espellere 3 milioni di clandestini dagli Stati Uniti, si sollevò la voce vibrante d’indignazione del Coro del Progresso per dire che no, non si doveva fare, e The Donald era un pericolo per l’umanità. Anche in quel caso nessuno si prese cura di dare un’occhiata alle espulsioni dell’era Obama. Fonte è la Homeland Security:
Il muro a Tijuana costruito da Clinton e Obama
Dal 2008 al 20014 Obama ha espulso quasi tre milioni (2.786.865 per l’esattezza) di clandestini e manca ancora il conteggio del biennio 2015-2016 che farà schizzare il dato ben oltre le dichiarazioni roboanti dell’allora candidato repubblicano.
Il programma sull’immigrazione di Trump era (è) inadeguato rispetto agli standard democratici. Il suo sbarramento di ordini esecutivi è legale, coerente con il suo programma elettorale, ma l’esecuzione mostra i limiti dettati dalla fretta di plasmare da subito la sua amministrazione nei primi cento giorni di governo. Rallentare

Giornali italiani 
Il coro replica l’esibizione sui quotidiani. Un mondo a una dimensione, o quasi. Il primo caffè della giornata va giù con la lettura del Corriere della Sera: “Rivolta contro il bando di Trump”. Repubblica sbriga la pratica così: “Trump solo contro tutti”. La Stampa non ci casca, punta saggiamente l’apertura sulle primarie dei socialisti in Francia (ha vinto la sinistra radicale, ragazzi), ma il titolo è sempre quello: “Immigrazione, rivolta contro Trump”. Il caffè ar vetro e Il Messaggero non portano nulla di nuovo: “Migranti, un muro anti-Trump”. Il Giornale esce dal coro, ma sempre di mattoni si parla: “Muro buonista contro Trump”. Il Mattino fa lo stesso titolo del Messaggero: “Immigrati, rivolta anti-Trump”. Il Gazzettino imita il Mattino: “Stop ai migranti, rivolta anti-Trump”. Il Secolo XIX fa un titolo da assemblea sindacale: “Immigrati, mobilitazione contro Trump”. Carlino-Nazione-Giorno entrano nella fase generale Custer a Little Big Horn: “Rifugiati, Trump assediato”. Hanno impaginato e titolato il cuore grande dell’uomo europeo, quello che oggi protesta contro Trump e ieri ha staccato un assegno da tre miliardi di euro in favore di quel sincero democratico di Erdogan per fare il lavoro sporco alla frontiera con la Siria. Dettagli.

(Salvatore Sechi)

Nota del blog: E' un problema quando le idee o il giudizio parte da una conoscenza parziale o del tutto distorta dei fatti se non addirittura non si tratta di un rifiuto aprioristico ed ideologico .
Quando i giornali sembrano una massa di pappagalli che recitano il rosario dei potenti di turno e cercano subdolamente di creare una mentalità a senso unico, serve anche sapere che non è così


venerdì 27 gennaio 2017

WASHINGTON, D.C., MARCH FOR LIFE 2017

Dopo otto anni di feroce anticlericalismo, di scomparsa della fede dall’agone pubblico, di silenzio sui cosiddetti “principi non negoziabili”, ci si era quasi rassegnati e sembrava impossibile l'opposto.

Invece, nel giro di una settimana, dopo la firma del decreto presidenziale per togliere i fondi internazionali alle Ong che promuovono l’aborto (che per la prima volta include anche i fondi delle agenzie Onu e tutti i programmi di salute), alla Camera è stata approvata persino una legge che rende permanente il divieto di finanziamenti per il “controllo delle nascite” anche all’interno del paese (239 voti contro 183).

Questa legge deve essere approvata dal Senato. Trump ha confermato che se la legge passerà anche al Senato il divieto sarà permanente e non più passibile di discussioni.

Nello stesso tempo il team di Trump ha rilasciato interviste sulla difesa della vita e sulla centralità della fede nell’agone pubblico e il presidente stesso ha dato un forte appoggio alla Marcia per la vita che si terrà oggi a Washington.

Il Vice Presidente Mike Pence parlerà alla marcia, e con ci lui sarà una massiccia presenza dell’amministrazione, confermando che la campagna elettorale dei repubblicani è stata tutta pro-life

Di fatto però la marcia è stata completamente ignorata dai maggiori media americani.

Per informazioni ulteriori alcuni link da Lifenews.com




mercoledì 25 gennaio 2017

PERCHE' SOLO NEL CASO DI UN DIVORZIATO RISPOSATO?

In calce ad un suo post sul film “SILENCE”, che contiene un commento da leggere,


Leonardo Lugaresi è tornato sul tema dell’Amoris Laetitia:

(…) I Vescovi di Malta l'altro giorno si sono riuniti in conferenza episcopale (fanno presto, perché sono solo in due) e hanno detto la loro come applicare le indicazioni della Amoris Laetitia. Pare che il punto cruciale della dichiarazione sia il seguente:

«If, as a result of the process of discernment, undertaken with “humility, discretion and love for the Church and her teaching, in a sincere search for God’s will and a desire to make a more perfect response to it” (AL 300), a separated or divorced person who is living in a new relationship manages, with an informed and enlightened conscience, to acknowledge and believe that he or she are at peace with God, he or she cannot be precluded from participating in the sacraments of Reconciliation and the Eucharist (see AL, notes 336 and 351)».

Suona bene, e io non ho certo le competenze né l'autorità per criticare alcunché. Però c'è qualcosa che non capisco (e non per via dell'inglese).

Dicono che se un divorziato risposato, avendo fatto tutto quel bel percorso di presa di coscienza, «manages to acknoledge and believe that he or she are at peace with God» (“arriva a riconoscere e credre di essere in pace con Dio”), non gli può essere impedito di partecipare al sacramento della riconciliazione: ma, a parte il fatto che nessuno mai ha pensato di impedirglielo, perché mai quel tale o quella tale dovrebbe andare a confessarsi? Se uno è sano, non ha bisogno del medico: chi sa o crede di essere in pace con Dio, perché dovrebbe far perdere tempo a un prete?


E un'altra cosa non mi è chiara: perché questo dovrebbe valere solo nel caso di un divorziato risposato? Non potrebbe funzionare anche in tutti gli altri casi?

INTERNATIONAL PLANNED PARENTHOOD NON FARÀ PIÙ ABORTI NEL MONDO CON I SOLDI DEI CONTRIBUENTI AMERICANI


 Dalla newsletter di “PRO-LIFE”
23 GENNAIO 2017 | WASHINGTON, DC


Il Presidente Donald Trump ha firmato oggi un ordine esecutivo per togliere i finanziamenti federali  all’International Planned Parenthood, l’organizzazione non governativa che lavora in campo internazionale per la pianificazione familiare, utilizzando l’aborto come principale strumento.

Mentre la legislazione che riguarda la pianificazione familiare americana (aborto compreso) è regolata da una legge, il Presidente ha la capacità di mettere in atto un ordine esecutivo che revoca il finanziamento per la sua affiliazione internazionale.

Quando l’ ex presidente abortista Barack Obama si è insediato, nella sua prima settimana di presidenza aveva ribaltato una politica che negli anni del Presidente Bush  aveva impedito il finanziamento di gruppi che promuovono o eseguono aborti all'estero. 

La cosiddetta “Mexico city policy”, che Trump ha ripristinato,  prende il nome dalla città sede nel 1984 della Conferenza delle Nazioni Unite per la popolazione. Allora il Presidente Reagan stabilì che le organizzazioni non governative potevano ricevere fondi federali solo a condizione che non promuovessero l’aborto come metodo di pianificazione familiare.
Dal 1984 questa norma è stata più volte modificata ad ogni cambio di presidenza. Nel gennaio del 1993 il Presidente Clinton la abrogò, e otto anni dopo la norma fu ristabilita dal Presidente Bush.
Oggi, il Presidente Trump ripristinato la “politica di Città del Messico” con un ordine esecutivo.
La decisione esecutiva di ripristinare “la politica di Città del Messico” impedisce che il finanziamento dei contribuenti sia assegnato a gruppi che effettuano e promuovono aborti all'estero, ma non modifica l'assistenza internazionale pro famiglia che rifugge dall’aborto.

L’organizzazione non governativa “Planned Parenthood federation of America” è la più grande fabbrica di aborti del mondo, e si fa chiamare “provider di servizi per la cura della salute riproduttiva delle donne” e che nel corso degli anni ha praticato milioni di aborti,  è stata (come ai tempi dell’elezione di Bill Clinton) una delle maggiori fonti di finanziamento della campagna elettorale di Hillary Clinton, che con la sua fondazione (finanziata anche dal governo italiano) è sempre stata una delle sue maggiori sostenitrici.

Leggi di Più: Aborto, censura sullo scandalo Planned Parenthood | Tempi.it 

domenica 22 gennaio 2017

"ROMA ABBIAMO UN PROBLEMA"

 DI LEONARDO LUGARESI

Penso che sarebbe un grave errore se il papa rifiutasse di confrontarsi e di dialogare con la posizione espressa, con tanta chiarezza e profondità, dal cardinale Caffarra nell'intervista rilasciata al Foglio qualche giorno fa. (Chi non l'avesse letta, può trovarla nel blog)

Si può comprendere che il papa sia infastidito dai dubia che gli sono stati presentati dai quattro cardinali, la cui logica binaria gli chiede di rispondere con un sì o con un no secchi a domande a cui verosimilmente egli vorrebbe rispondere con un «dipende», ma il discorso di Caffarra è un'espressione così bene argomentata e distesa di intelligenza cristiana che continuare ad ignorarlo, limitandosi a far dire alle persone dell'entourage che “è già tutto chiaro” ed “è già tutto spiegato nell'Amoris laetitia”, sarebbe un atteggiamento spiegabile solo in due modi: o il papa non capisce ciò che Caffarra dice, oppure lo capisce ma lo rifiuta, cioè delegittima la sua posizione giudicandola incompatibile con la fede cristiana autentica. 
La prima ipotesi sarebbe preoccupante, la seconda spaventosa. 
Tertium non datur, perché l'ipotesi che  il papa semplicemente consideri irrilevanti le questioni e gli argomenti posti da Caffarra significherebbe che non li capisce, e quindi ricadrebbe nella prima fattispecie. In tutti i casi, se le cose andassero così, nella chiesa cattolica “avremmo un problema”, e anche bello grosso.

Nessuno, tranne Dio, può permettersi di dare un termine di tempo al santo padre, e per questo motivo credo che sia del tutto campata in aria l'idea, che è stata attribuita (non so se a torto o a ragione) al cardinale Burke, di “metterlo in mora” con una sorta di ultimatum. 

Però dobbiamo sperare e pregare che prima della fine di questo pontificato tale confronto e dialogo avvengano (e si collochino al giusto livello, cioè sul piano in cui il cardinale pone e discute i problemi). Se così non fosse, ne deriverebbe un gran male per la chiesa.

https://leonardolugaresi.wordpress.com/2017/01/18/roma-abbiamo-un-problema/


LA FINE DI "UN MONDO"


L’11 ottobre scorso Hillary Clinton – dal sito del New York Times – sentendosi sfuggire sempre più l’agognata poltrona presidenziale, usò questo sobrio argomento dinamitardo: “io sono l’ultima cosa fra voi e l’Apocalisse”.

La baggianata – che echeggia quella più celebre risuonata alla corte francese: “dopo di noi il diluvio” – sottintendeva che Trump doveva essere considerato con terrore, come la fine del mondo.
Gli americani hanno risposto con un colossale “vaffa”, mandando a casa la Clinton, l’establishment politico di Washington e quello dei salotti mainstream pieni di intellettuali, di chiacchieroni e di attrici.

Perché sapevano che in realtà Trump – come dice Tremonti – non è la fine del mondo, ma casomai la fine di “un” mondo, appunto quello guerrafondaio e aggressivo dei Clinton e di Obama (e dei Bush), i re del caos globale, i grandi registi dell’“ipocrisia progressista” e della strategia della tensione planetaria.
Sotto di loro infatti sono state destabilizzate una serie di aree (l’Irak, la Libia, la Siria, l’Africa centrale e l’Ucraina), con conseguenze disastrose dal punto di vista umanitario e dal punto di vista politico.
In particolare l’idea di espandere la Nato verso Est, fin sotto le mura di Mosca, con una serie di provocatorie manovre militari al confine, ha fatto precipitare il mondo in un cupo clima da Guerra fredda e ha rischiato di trascinare l’Europa nella terza Guerra mondiale.

Perfino il famoso “orologio dell’Apocalisse” – quello del “Bulletin of the atomic scientists science and security board“, nel cui Board of sponsors ci sono 17 premi Nobel – nel gennaio di un anno fa collocava l’umanità alle 23.57, cioè a tre minuti dalla mezzanotte nucleare, ovvero dalla “fine del mondo”.
Solo nel 2010 le lancette di questo Orologio simbolico, inventato nel 1947 dagli scienziati dell’Università di Chicago, segnavano le 23,54.
Questi “tre minuti” più vicini alla mezzanotte (peraltro la valutazione viene fatta in modo abbastanza “politically correct” e non certo da personalità filo Trump) fanno capire quanto ci hanno avvicinato all’apocalisse Obama e la Clinton e dove saremmo finiti in caso di una vittoria di Hillary.
Gli osservatori sanno bene che proprio quella della Clinton sarebbe stata una presidenza guerrafondaia e pericolosissima.

FOLLE STRATEGIA
La strategia obamiana e clintoniana è stata descritta così da Francesco Alberoni:
“Durante la presidenza Obama gli Usa hanno scatenato una vera guerra fredda contro la Russia sul piano propagandistico, mettendo sanzioni e accumulando armamenti in Polonia, Ucraina e Paesi baltici. Nello stesso tempo hanno appoggiato i Paesi islamici sunniti, Arabia Saudita, i Paesi del Golfo, il Pakistan e la Turchia che finanziavano e armavano gli integralisti islamici: dai talebani ad Al Qaida, all’Isis e il Califfato. Sotto sanzioni in Europa, minacciata dagli americani attraverso la Nato e attaccata dagli integralisti islamici in Asia, la Russia è stata spinta a cercarsi un alleato nella Cina. Ma la Cina è l’unica superpotenza che nei prossimi anni sfiderà il potere Usa. Una scelta dal punto di vista americano a dir poco catastrofica.Sembra impossibile, ma la politica di Obama si proponeva di espellere la Russia dall’Europa, di farla alleare con la Cina, lasciando il Medio Oriente e l’ Africa del nord nelle mani all’anarchia islamista”.

Questa assurda strategia, che ha avuto il sostegno quasi unanime e strategicamente importante del sistema mediatico, con Trump si avvia ad essere rovesciata.
Anzitutto finisce la demonizzazione della Russia. Poi il terrorismo dell’Isis e di Al Qaeda sarà chiamato col suo nome, “terrorismo islamico” e combattuto come tale (Trump ha iniziato già in campagna elettorale questa rivoluzione linguistica e culturale).
“Dobbiamo cominciare a fidarci di Vladimir Putin”, ha dichiarato Trump. Contemporaneamente la Russia ha annunciato l’intenzione di coinvolgere Washington nel negoziato per la soluzione della terribile crisi siriana.

PACE
Piccoli, grandi segnali che erano inimmaginabili con Obama e la Clinton e che potranno portare Usa e Russia a cooperare anche per risolvere la situazione libica.
Siria e Libia, due dei focolai di crisi che – fra l’altro – finora hanno provocato o aiutato l’enorme e dirompente flusso migratorio verso l’Italia e l’Europa.
Basta questo per capire quanto sia importante, anche per l’Italia, questo nuovo clima di collaborazione e dialogo fra le due superpotenze.(...)

ORFANI DI OBAMA
I media se ne accorgeranno per ultimi o comunque cercheranno di non dirlo, essendo gli stessi media che acclamavano il “Nobel per la pace” Obama (quello sotto la cui amministrazione gli Usa hanno inondato il mondo – soprattutto il mondo arabo – di armamenti).
I media, nella stragrande maggioranza, oggi sono parte del problema. Perché – più o meno consapevolmente – sono stati partecipi, dal punto di vista ideologico e propagandistico, delle strategie dell’establishment che ha dissestato il mondo.
Purtroppo ha aderito in gran parte all’agenda Obama anche il capo della Chiesa cattolica, arrivando addirittura ad entrare a gamba tesa contro Trump, durante le presidenziali americane. (...)

GRANDE SPERANZA
Finalmente potrebbe realizzarsi la grande speranza di Giovanni Paolo II: un’Europa che respira a due polmoni, quello ocidentale e quello orientale. Un’Europa dall’Atlantico agli Urali.
Un’Europa più grande economicamente e più ricca spiritualmente dell’arida tecnocrazia dell’euro.
L’Italia ha tutto da guadagnarci, anche nella prospettiva di liberarsi dalla gabbia dell’egemonia tedesca che – attraverso quella tecnocrazia dell’euro – ha messo in ginocchio la nostra economia e pure la nostra dignità nazionale.

Sarà anche l’occasione per liberarsi dell’altro aspetto deleterio dell’imperialismo obamiano: la devastante dittatura “politically correct” imposta al mondo intero insieme alla nefasta “religione mercatista” che ha messo in ginocchio (dal punto di vista economico e della sovranità) i popoli e gli stati.
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Antonio Socci
Da “Libero”, 21 gennaio 2017

venerdì 20 gennaio 2017

L’ALBA DEI MISERABILI


E' SUCCESSO DAVVERO!

E alla fine arrivò il giorno. 
Quel giorno. Trump alla Casa Bianca. 
E’ il momento in cui tutto quello che è stato detto, letto, consumato nel take away del rancore svanisce. 

Puf! Quel giorno.
The Donald nello Studio Ovale. 

Ieri abbiamo avuto un prequel serale del nuovo presidente americano: Make America Great Again al Lincoln Memorial, un bellissimo spettacolo, celebrity-free, il concerto che alterna la musica della patria, suonata dalle bande musicali militari, il country di Toby Keith e le videostar di YouTube, senza aspirazioni pedagogiche di massa e retorica in progress.

Fuochi d’artificio finali stupendi e domani (oggi) è un altro giorno, Washington volta pagina.


THE DONALD (TWO)

L'addio alla retorica made in USA e al dannoso politically correct di Obama


Fortunatamente il tempo passa, spazzando tutto e tutti, facendo capire che nulla è eterno su questa terra. Vale per le cose e, soprattutto, le persone, ed è arrivato il giorno in cui anche l'osannato Presidente Usa Barack Hussein Obama termina il secondo e ultimo mandato politico.
Un doppio mandato politico che è stato caratterizzato da una dote non rara nella storia dei Presidenti Usa, l'incapacità politica.
 
Partito con il vento in poppa slogheggiando il vacuo "Yes, we can!" e cavalcando l'onda dell'ineluttabilità che ci fosse finalmente un Presidente che i politicamente corretti definirebbero in neo-lingua "di colore", vince largamente il primo mandato elettorale dimostrando già tutta la sua pochezza sia come politico (il vuoto totale di idee in politica estera), sia come uomo (definì la candidata repubblicana alla vicepresidenza "un maiale").

Ma tant'è, l'uomo che incarnava la retorica made in Usa aveva finalmente la sua agognata poltrona di Presidente, sulla quale neppure il tempo di sedersi che già doveva alzarsi per correre al cospetto dei reali di Svezia a ritirare il prestigioso premio Nobel per la Pace, nella totale interdizione del diretto interessato sulle motivazioni per aver ricevuto cotanto premio. A Obama tutto è dovuto, tutto riconosciuto, nella società dell'immagine lui è il personaggio giusto nel posto sbagliato, è alto, slanciato, sorriso ammiccante, tono di voce fermo e deciso, solo quello, ma tanto basta per conquistare consenso e voto politico. Mancavano solamente testimonianze circa il dono dell'ubiquità, la capacità di viaggiare nel tempo e nello spazio, le stigmate e le doti miracolistiche. E poi, vuoi mettere, con quella brava donna di Michelle, tutta ginnastica e verdura del proprio orto, così salutista, una vera sacra famiglia americana.

Terminati i fuochi d'artificio a gloria del nuovo vincitore, viene il momento anche per costui di misurarsi con la politica che conta, interna ed estera, e sono dolori, anzi umiliazioni!
In politica interna avrebbe dovuto mettere il bavaglio agli stipendi dei super-manager della finanza di Wall Street, colpevoli della crisi economica che ha imperversato per anni nel mondo a partire dal 2008, ma nulla è stato ottenuto; così come avrebbe dovuto estendere l'assicurazione sanitaria pubblica e gratuita a sempre più larghe fette di popolazione americana, ma ha partorito una blanda riforma denominata "Obama Care"; mentre la ripresa economica americana risente pesantemente della solita massiccia iniezione di liquidità della Fed, prologo di future ulteriori crisi economiche. E sul fronte sociale, non è certo bastata la sua sola presenza di primo Presidente "di colore" per disinnescare e normalizzare le innumerevoli tensioni sociali e razziali presenti nella società americana.

In politica estera, alla luce del suo premio Nobel per la Pace, ci si sarebbe aspettato un forte disimpegno americano nei teatri di guerra, invece nulla. Anzi, la base di Guantanamo, che promise di far chiudere nel corso del suo primo mandato presidenziale, è tuttora in essere; la presenza dei militari Usa in Afghanistan e Iraq rimane cospicua; l'azione militare diretta in Egitto e indiretta in Siria ha creato un'instabilità che sta pagando a caro prezzo l'Europa, sia in termini di pericoli attentati che di pressioni migratorie. Senza dimenticare lo scontro diplomatico e le sanzioni comminate alla Russia di Putin, al limite della guerra, con gravi danni economici e imbarazzi diplomatici per l'Europa.

Dopo tanta pochezza non stupisce che vi siano così tante critiche nei confronti del neo-Presidente Trump, perché lui le idee chiare sembra averle e questo risulta scioccante alla "intellighenzia" mediatico-politica americana ed europea.
Trump è forse il primo Presidente della storia Usa veramente fuori dai giochi politici delle grandi oligarchie che spingono sui candidati dei due maggiori partiti, Democratici e Repubblicani, in quanto anche se eletto sotto l'egida del Partito Repubblicano, ne è stato a lungo osteggiato nella sua corsa alla candidatura repubblicana prima e per la presidenza poi; è il vero "parvenu" della politica Usa. 

Odiato dall'establishment dei grandi media americani, dagli opinion-maker (attori hollywoodiani su tutti) e dai cosiddetti "intellettuali", ha scalato il consenso sociale giorno dopo giorno, sconfiggendo meritatamente, per la fortuna del popolo americano, l'ambiziosa e perigliosa fu-cornuta coniuge Clinton. Già prima di aver messo le proprie natiche sullo scranno del potere, Trump è stato accusato di portare alla Terza guerra mondiale, altro che il buon Obama, che raccolse un premio Nobel per la Pace a sua insaputa!

La politica interna ed estera di Trump la vedremo da qui ai prossimi quattro anni, ma voglio arrischiarmi e vedere un incipit positivo nei suoi primi interventi, sia pure sotto forma di tweet. Trump punta forte sul recupero dei buoni rapporti con la Russia di Putin, e questo non può che essere un fattore distensivo e di logica e onesta politica estera, laddove buoni rapporti diplomatici disinnescano tensioni e minacce che non ha senso mantenere alla luce del ben più concreto pericolo dovuto agli attentati jihadisti. 

Inoltre, risulta positiva l'attenzione posta da Trump alla questione della crescita economica e produttiva, facendo pressione su note potenti case automobilistiche affinché tengano e incrementino gli investimenti produttivi negli Usa, evitando con ciò di trasformare gli Stati Uniti da Paese di produzione a Paese di puro consumo di beni, con evidenti benefici occupazionali per le classi basse, medie e medio-basse della popolazione. Altro che magnate interessato solo a far fare soldi ai super-ricchi!

Potrà sembrare un paradosso, ma se fosse proprio Trump, dopo molti decenni, a riportare in auge la linea politica dettata dai Padri fondatori Usa l'indomani dell'indipendenza americana, imperniata sul motto "scambi commerciali con chiunque, alleanze stabili con nessuno"? Un disimpegno politico che faccia retrocedere gli Usa dal ruolo di poliziotti del mondo, a favore di un nuovo-vecchio ruolo, di partner commerciale che non tiranneggia a livello politico.
Io ci voglio credere, ne gioverebbe il mondo intero, forza Presidente Trump, "Yes, we can"!

 Roberto Locatelli
venerdì 20 gennaio 2017



giovedì 19 gennaio 2017

HOMO DAVOS

Adam Smith a Pechino

Il presidente cinese alfiere del capitalismo e della globalizzazione che diventa il nuovo idolo dell’Homo Davos ci mancava tra le esperienze psichedeliche del presente. Fatto. 
L’applauso, il conforto, l’ammirazione, l’empatia per la chiara appartenenza del sincero democratico Xi al club dell’élite in progress riunito sulle alture innevate della Svizzera è qualcosa di straordinario. Mentre Shakira dispensava lezioni civiche alle masse e Matt Demon informava il popolo sul destino della storia, l’Homo Davos costruiva un nuovo totem di derivazione pechinese.

Il pubblico non è stato sfiorato neanche per un nanosecondo dal pensiero di quella cosa chiamata “libertà”. Si sa, l’Homo Davos non si perde nei dettagli, bada al sodo.

Egli non può fare lo slalom in pista, consumare cocktail al Tonic Bar e contemporaneamente ricordare che nella classifica sulla libertà economica compilata ogni anno dalla Heritage Foundation, la Cina nel 2016 si è piazzata al 144° posto. 
Gli Stati Uniti del protezionista Trump, quello che oh, signora mia e della signora Melania che no, gli stilisti del jet set, assolutamente non vestiranno mai, ecco gli Stati Uniti sono all’11° posto e questa lieve differenza dovrebbe indurre a qualche riflessione.

L’Homo Davos non sente questi problemi, separa denaro e libertà, profitto e dittatura, dove naturalmente il denaro, il profitto (e la libertà) sono solo suoi e la dittatura è degli altri e in fondo dà una certa sicurezza per concludere ottimi affari.
L’establishment si riunisce nella località svizzera con il solito contorno di jet personali (e grande preoccupazione per l’ambiente), champagne in villa (e un pensiero ai diseredati del mondo), un salto al Tonic Bar (e una riflessione profonda, mi raccomando, sulla disoccupazione). Che bravi. 
Ah, en passant, non ci sarà nessuno della nuova amministrazione americana. 

A Davos passano con eleganza da Adam Smith a Mao. Segno dei tempi, basta leggere le cronache dei giornaloni per capire che aria tira per l’élite. Basta con gli autocrati che urlano Make America Great Again. Meglio applaudire il democratico presidente cinese Xi Jinping,

Così il campione della libertà, il presidente Xi a cui il partito comunista cinese vuole concedere il culto della personalità che fu di Mao, diventa un faro per il business, mentre Trump è il nemico, l’estraneo al clan dei benpensanti.

Questo smarrimento ideale, questo sonnambulismo acuto dell’Homo Davos – la sigla ha il copyright di un genio della scienza politica, Samuel Huntington – è la punta dell’iceberg, la boa luminosa della crisi della contemporaneità, la sua manifestazione comica à la Davos, l’aggiornamento del software del Dittatore. Sono tempi duri e non abbiamo neppure la consolazione di Chaplin.

Dunque per Xi Jinping la globalizzazione non è il problema. 
Al vicepresidente degli Stati Uniti Jo Biden, il signor Made in China ha detto che bisogna costruire relazioni durature con l’America (Biden non sarà più alla Casa Bianca) e al presidente dell’Ucraina Poroshenko ha detto che la Cina avrà un ruolo costruttivo per la pace.
Dunque, riepiloghiamo: Xi è contro Trump (globalizzazione vs protezionismo) e anche contro Putin (Russia vs Ucraina). Eccolo, il risiko che comincia il 20 gennaio con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca: Stati Uniti-Russia-Cina.


Washington che cerca di frenare il dominio demografico, economico e (più tardi) militare di Pechino cercando una sponda con la Russia. E’ tutto molto semplice, ma terribilmente difficile da affrontare senza far bruciare la polvere da sparo. Buona giornata.

Salvatore Sechi
da ilfoglio-list

THE DONALD (ONE)

Che cosa penseranno di The Donald i nuovi alleati strategici italiani degli Stati Uniti (Fabio Fazio, Laura Boldrini, Crozza, Scalfari, …)?

Non sono riusciti a «esportare Mani pulite nel mondo», come voleva Tonino Di Pietro buonanima quando pensava alla sua guerra senza quartiere contro corrotti e corruttori come a una sorta di McDonald's giudiziario in franchising. Ma gli strateghi immaginifici della nostra sinistra giustiziera sono riusciti in compenso a influenzare la lotta politica in America con l'esempio del loro inesausto agit-prop antiberlusconiano e delle loro perenni «campagne di fango» (così le chiamano i figli della luce, che ne sono i massimi specialisti e virtuosi, quando i figli delle tenebre, antropologicamente inferiori, osano rendere loro pan per focaccia).

Incalzato da un partito democratico che ricorda da vicino la nostra Ditta, mascariato da un web dedito a bufale, fakes e post verità («la rete, la rete») e da una stampa che sembra fondata da Eugenio Scalfari e diretta da Ezio Mauro, braccato infine da tutti i cacciatori di taglie dei talk show politically correct, il neopresidente degli Stati Uniti è finito sotto la stessa nuvola di sputi che per oltre vent'anni ha costretto il nostro leader di plastica a non uscire mai di casa senza un ombrello (negli ultimi tre anni anche Matteo Renzi si è portato sempre dietro un paracqua).

Stessi sputi e stesse accuse: affari loschi con Putin e tovarisch, noglobalismo de destra, sfrenatezze sessuali da Dvd porno che per la loro esuberanza farebbero arrossire uno psicanalista reichiano, troppi soldi, conflitto d'interessi, evasione fiscale continuata e molesta, nessun rispetto per le icone della sinistra caviar a cominciare dal presidente uscente (di cui «The Donald» s'appresta a revocare le decisioni, antiche e recenti, dall'«Obamacare» in materia sanitaria alla dichiarazione di guerra fredda a Russia e Israele). Come Berlusconi, inoltre, anche Trump è un Caimano: vuole un muro per tenere fuori i messicani dalla terra dei liberi, da quel razzista che non è altro, mentre Obama, con un provvedimento dell'ultimo minuto, ha giustamente e caritatevolmente provveduto ad abolire l'accoglienza automatica dei profughi cubani (un po' come Peppone in un vecchio racconto di Giovannino Guareschi, quando due russi si rifugiano nella canonica di Don Camillo chiedendo asilo politico e lui, Peppone, piomba in chiesa strepitando che i due profughi devono essere immediatamente restituiti ai «loro padroni»).

Trump è un nemico del liberismo, urlano scandalizzati i nemici del liberismo: si batte, il maledetto statalista, contro la grande finanza sans frontières e contro la delocalizzazione delle aziende americane. Sempre come l'ex Cavaliere, e al pari di tutti i nemici del popolo, anche il nuovo presidente degli Stati Uniti porta il parrucchino e ha un debole per le biondone. Ulteriore somiglianza: sia Trump che Berlusconi sono stati dei palazzinari, di volta in volta favoriti o sfavoriti dalla sorte, prima di diventare delle icone pop grazie alla televisione, di cui sono stati entrambi due grandi protagonisti. Come Berlusconi, infine, e come Renzi, Trump non piace a Maurizio Crozza, coscienza morale degl'italiani sciccosi. Cosa penseranno di «The Donald» i nuovi alleati strategici degli Stati Uniti (Fabio Fazio,  Laura Boldrini)?

Nei prossimi quattro anni, fino alla scadenza del mandato, i giornali progressisti, non soltanto americani ma anche (e soprattutto) italiani, continueranno a battere sempre lo stesso chiodo: impeachment, dimissioni, al rogo il nemico del popolo.

Da noi, come ricorderete, ogni volta che il centrodestra vinceva le elezioni, oppure a vincerle era un centrosinistra ostile alla Ditta, c'era subito chi saltava su a dire di vergognarsi d'essere italiano. Be', anche nei quartieri alti e progressisti di New York e Chicago oggi risuonano le stesse insulsaggini. Ma in Italia, vedrete, si oserà di più. Si pretenderà che Donald Trump venga travolto dai report tarocchi di agenzie d'Intelligence private e che si lasci correre quando le mezze pippe si rendono platealmente ridicole in Italia e all'estero.
 di Diego Gabutti  ITALIA OGGI

mercoledì 18 gennaio 2017

CHI RAPPRESENTA I CATTOLICI?


 Alfredo Mantovano

NON UN PARTITO, MA UN MOVIMENTO PER UN CARTELLO ELETTORALE

Per chi avverte l’urgenza, i tempi sono stretti: chi ha alternative le prospetti. Nella futura legislatura potrebbe non esserci più nessuno a difendere certi temi in parlamento


 Prima o poi si voterà. Più poi che prima: non c’è accordo sulla legge elettorale, ciascuno dei partiti punta a una riforma che si adatti alla propria attuale consistenza e alle proprie prospettive. È facile prevedere tempi non brevi, seguiti, a legge approvata, da ulteriori settimane per ridisegnare circoscrizioni e collegi. Se va bene si arriva all’autunno, altrimenti alla scadenza naturale.
Nel frattempo. Il voto sul referendum costituzionale ha confermato che il No al 60 per cento non coincide con la sommatoria dei simpatizzanti di M5S, Lega, di una parte di Forza Italia e della minoranza Pd; ha fatto emergere ulteriori componenti, fra cui quella costituita dalle tante famiglie italiane che hanno protestato contro la loro mortificazione avvenuta negli ultimi tre anni sul piano normativo, dell’azione di governo, delle crescenti difficoltà nella vita quotidiana. Sono quelle famiglie che per due volte in pochi mesi, con scarso preavviso e a proprie spese, hanno riempito piazza San Giovanni e il Circo Massimo. È una forza elettorale che, tradotta in voti, non va al di sotto dei due milioni, ma potrebbe anche raggiungere i quattro milioni.

Alla prossima chiamata alle urne, chi darà rappresentatività a questa forza? Vi è un rischio concreto. Fino alla legislatura conclusa nel 2013 la presenza in Parlamento di deputati e senatori sensibili a vita, famiglia ed educazione era cospicua: non maggioritaria ma tale da condizionare le scelte, sia per bloccare il varo di norme ostili a queste voci, sia per leggi di segno positivo, dalla fecondazione artificiale del 2004 a quella sulla droga del 2006. Nella legislatura in corso, in virtù di una rinuncia – non si sa quanto consapevole della posta in gioco – da parte del mondo cattolico, quelle presenze si sono ridotte ai minimi termini: hanno svolto testimonianza, senza avere la forza di impedire riforme pessime, dal divorzio breve al divorzio facile, dalle unioni civili alla droga. Se non cambia nulla, al prossimo turno, quale che sia la legge elettorale, non ci sarà più nessuno.

Può darsi che qualcuno lo valuti positivamente: da presidente della Cei il cardinale Ruini per i cattolici italiani coniò – e praticò – il motto “meglio contestati che ininfluenti”. Oggi il motto sembra “ininfluenti per aver scelto di non essere contestati”. Come potrebbe essere diversamente, quando, per esempio, si è accuratamente evitato di prendere posizione su una riforma costituzionale che aggrediva in via diretta il principio di sussidiarietà (quando non si è fatto l’occhiolino al Sì)?

Per chi invece ritiene che l’abbandono della politica e delle istituzioni rappresenti una grave omissione – soprattutto in un tempo che mette in discussione i fondamentali – porsi il problema non è fuori luogo.

È immaginabile dare rappresentatività diretta con la costruzione di un cartello elettorale? Non un partito ma un gruppo identificabile, espressione delle associazioni e dei movimenti che – senza perdere identità e autonomia né trasformarsi in qualcosa d’altro rispetto a ciò che si è – accettino di contribuirvi per quota e per delega. Il che presuppone piena condivisione del Magistero sociale e altrettanta consapevolezza che la gravità del momento esige un passo impegnativo.

Va messo nel conto che non tutti ci staranno: se la nomina di un ministro dell’Istruzione portabandiera di quel gender che papa Francesco ha qualificato «colonizzazione ideologica» ha trovato come immediata e incredibile risposta l’offerta di collaborazione da parte di talune realtà ecclesiali italiane, è evidente che qualcuno preferisce altro.

Per chi avverte l’urgenza dell’ora, i tempi sono veramente stretti: chi ha delle alternative le prospetti. La Provvidenza nel frattempo ci ha dato una mano: poco più di due mesi fa pochi dubitavano dell’elezione della Clinton a presidente americano e della vittoria del Sì.
Diamo per scontato che dovesse andare così o pensiamo sia il caso di corrispondere all’aiuto ricevuto, e di darci una mossa?