“La divisione tra pastori è la causa della
lettera che abbiamo spedito a Francesco. Non il suo effetto. Insulti e minacce
di sanzioni canoniche sono cose indegne”.
“Una Chiesa con poca
attenzione alla dottrina non è più pastorale, è solo più ignorante”.
Michelangelo, Cristo della Minerva |
«Credo che vadano chiarite diverse cose. La lettera – e i dubia allegati – è stata lungamente riflettuta, per
mesi, e lungamente discussa tra di noi. Per quanto mi riguarda, è stata anche
lungamente pregata davanti al Santissimo Sacramento».
Il cardinale Carlo Caffarra premette questo, prima di iniziare la lunga
conversazione con Il Foglio sull’ormai celebre lettera “dei
quattro cardinali” inviata al Papa per chiedergli chiarimenti in relazione all’Amoris
laetitia, l’esortazione che ha tirato le somme del doppio Sinodo sulla
famiglia e che tanto dibattito – non sempre con garbo ed eleganza – ha
scatenato dentro e fuori le mura vaticane.
«Eravamo consapevoli che
il gesto che stavamo compiendo era molto serio. Le nostre preoccupazioni erano
due. La prima era di non scandalizzare i piccoli nella fede. Per noi pastori
questo è un dovere fondamentale. La seconda preoccupazione era che nessuna
persona, credente o non credente, potesse trovare nella lettera espressioni che
anche lontanamente suonassero come una benché minima mancanza di rispetto verso
il Papa. Il testo finale quindi è il frutto di parecchie revisioni: testi
rivisti, rigettati, corretti».
Fatte queste premesse, Caffarra entra in materia.
«Che cosa ci ha spinto a questo gesto? Una considerazione di carattere
generale-strutturale e una di carattere contingente-congiunturale.
Iniziamo
dalla prima. Esiste per noi cardinali il dovere grave di consigliare il Papa
nel governo della Chiesa. È un dovere, e i doveri obbligano. Di carattere più
contingente, invece, vi è il fatto – che solo un cieco può negare – che nella
Chiesa esiste una grande confusione, incertezza, insicurezza causate da alcuni
paragrafi di Amoris laetitia. In questi mesi sta accadendo che
sulle stesse questioni fondamentali riguardanti l’economia sacramentale
(matrimonio, confessione ed eucaristia) e la vita cristiana, alcuni vescovi
hanno detto A, altri hanno detto il contrario di A. Con l’intenzione di
interpretare bene gli stessi testi». E «questo è un fatto, innegabile, perché i
fatti sono testardi, come diceva David Hume. La via di uscita da questo
“conflitto di interpretazioni” era il ricorso ai criteri interpretativi
teologici fondamentali, usando i quali penso che si possa ragionevolmente
mostrare che Amoris laetitia non contraddice Familiaris
consortio. Personalmente, in incontri pubblici con laici e sacerdoti ho
sempre seguito questa via».
Non è bastato, osserva l’arcivescovo emerito di Bologna.
«Ci siamo resi conto che questo modello epistemologico non era sufficiente.
Il contrasto tra queste due interpretazioni continuava. C’era un solo modo per
venirne a capo: chiedere all’autore del testo interpretato in due maniere
contraddittorie qual è l’interpretazione giusta. Non c’è altra via. Si poneva,
di seguito, il problema del modo con cui rivolgersi al Pontefice. Abbiamo
scelto una via molto tradizionale nella Chiesa, i cosiddetti dubia».
Perché?
«Perché si trattava di uno strumento che, nel caso in cui secondo il suo
sovrano giudizio il Santo Padre avesse voluto rispondere, non lo impegnava in
risposte elaborate e lunghe. Doveva solo rispondere “Sì” o “No”. E rimandare,
come spesso i Papi hanno fatto, ai provati autori (in gergo: probati
auctores) o chiedere alla Dottrina della fede di emanare una dichiarazione
congiunta con cui spiegare il Sì o il No. Ci sembrava la via più semplice.
L’altra questione che si poneva era se farlo in privato o in pubblico. Abbiamo
ragionato e convenuto che sarebbe stata una mancanza di rispetto rendere tutto
pubblico fin da subito. Così si è fatto in modo privato, e solo quando abbiamo
avuto la certezza che il Santo Padre non avrebbe risposto, abbiamo deciso di
pubblicare».
È questo uno dei punti su cui maggiormente s’è discusso, con relative
polemiche assortite. Da ultimo, è stato il cardinale Gerhard Ludwig
Muller, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, a giudicare sbagliata la
pubblicazione della lettera. Caffarra spiega:
«Abbiamo interpretato il silenzio come autorizzazione a proseguire il
confronto teologico. E, inoltre, il problema coinvolge così profondamente sia
il magistero dei vescovi (che, non dimentichiamolo, lo esercitano non per
delega del Papa ma in forza del sacramento che hanno ricevuto) sia la vita dei
fedeli. Gli uni e gli altri hanno diritto di sapere. Molti fedeli e sacerdoti
dicevano “ma voi cardinali in una situazione come questa avete l’obbligo di
intervenire presso il Santo Padre. Altrimenti per che cosa esistete se non
aiutate il Papa in questioni così gravi?”. Cominciava a farsi strada lo
scandalo di molti fedeli, quasi che noi ci comportassimo come i cani che non
abbaiano di cui parla il Profeta.
Questo è quanto sta dietro a quelle due
pagine».
IL PAPA DEVE ESSERE CHIARO
Eppure le critiche sono piovute, anche da confratelli vescovi o
monsignori di curia:
«Alcune persone continuano a dire che noi non siamo docili al magistero del
Papa. È falso e calunnioso. Proprio perché non vogliamo essere indocili abbiamo
scritto al Papa. Io posso essere docile al magistero del Papa se so cosa il
Papa insegna in materia di fede e di vita cristiana. Ma il problema è
esattamente questo: che su dei punti fondamentali non si capisce bene che cosa
il Papa insegna, come dimostra il conflitto di interpretazioni fra vescovi. Noi
vogliamo essere docili al magistero del Papa, però il magistero del Papa deve
essere chiaro. Nessuno di noi – dice l’arcivescovo emerito di Bologna – ha
voluto “obbligare” il Santo Padre a rispondere: nella lettera abbiamo parlato
di sovrano giudizio. Semplicemente e rispettosamente abbiamo fatto domande. Non
meritano infine attenzione le accuse di voler dividere la Chiesa. La divisione,
già esistente nella Chiesa, è la causa della lettera, non il suo effetto. Cose
invece indegne dentro la Chiesa sono, in un contesto come questo soprattutto,
gli insulti e le minacce di sanzioni canoniche».
Nella premessa alla lettera si constata
«un grave smarrimento di molti fedeli e una grande confusione in merito a
questioni assai importanti per la vita della Chiesa».
In che cosa consistono, nello specifico, la confusione e lo smarrimento?
Risponde Caffarra:
«Ho ricevuto la lettera di un parroco che è una fotografia perfetta di ciò
che sta accadendo. Mi scriveva: “Nella direzione spirituale e nella confessione
non so più che cosa dire. Al penitente che mi dice: vivo a tutti gli effetti
come marito con una donna che è divorziata e ora mi accosto all’Eucarestia, io propongo un percorso, in ordine a correggere questa situazione. Ma il penitente
mi ferma e risponde subito: guardi, padre, il Papa ha detto che posso ricevere
l’eucaristia, senza il proposito di vivere in continenza. Io non ne posso più
di questa situazione. La Chiesa mi può chiedere tutto, ma non di tradire la mia
coscienza. E la mia coscienza fa obiezione a un supposto insegnamento
pontificio di ammettere all’eucaristia, date certe circostanze, chi vive more
uxorio senza essere sposato”. Così scriveva il parroco. La situazione
di molti pastori d’anime, intendo soprattutto i parroci – osserva il cardinale
– è questa: si ritrovano sulle spalle un peso che non sono in grado di portare.
È a questo che penso quando parlo di grande smarrimento. E parlo dei parroci,
ma molti fedeli restano ancor più smarriti. Stiamo parlando di questioni che
non sono secondarie. Non si sta discutendo se il pesce rompe o non rompe
l’astinenza. Si tratta di questioni gravissime per la vita della Chiesa e per
la salvezza eterna dei fedeli. Non dimentichiamolo mai: questa è la legge
suprema nella Chiesa, la salvezza eterna dei fedeli. Non altre preoccupazioni.
Gesù ha fondato la sua Chiesa perché i fedeli abbiano la vita eterna, e
l’abbiano in abbondanza».
LE VERITA' "ESISTENZIALI"
La divisione cui si riferisce il cardinale Carlo Caffarra è originata
innanzitutto dall’interpretazione dei paragrafi di Amoris laetitia che
vanno dal numero 300 al 305. Per molti, compresi diversi vescovi, qui si trova
la conferma di una svolta non solo pastorale bensì anche dottrinale. Altri,
invece, che il tutto sia perfettamente inserito e in continuità con il
magistero precedente. Come si esce da tale equivoco?
«Farei due premesse
molto importanti. Pensare una prassi pastorale non fondata e radicata nella
dottrina significa fondare e radicare la prassi pastorale sull’arbitrio. Una
Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una Chiesa più pastorale, ma è
una Chiesa più ignorante. La Verità di cui noi parliamo non è una verità
formale, ma una Verità che dona salvezza eterna: Veritas salutaris,
in termini teologici. Mi spiego. Esiste una verità formale. Per esempio, voglio
sapere se il fiume più lungo del mondo è il Rio delle Amazzoni o il Nilo.
Risulta che è il Rio delle Amazzoni. Questa è una verità formale. Formale
significa che questa conoscenza non ha nessuna relazione con il mio modo di
essere libero. Anche se la risposta fosse stata il contrario, non sarebbe
cambiato nulla sul mio modo di essere libero. Ma ci sono verità che io chiamo
esistenziali. Se è vero – come Socrate aveva già insegnato – che è meglio
subire un’ingiustizia piuttosto che compierla, enuncio una verità che provoca
la mia libertà ad agire in modo molto diverso che se fosse vero il contrario.
Quando la Chiesa parla di verità – aggiunge – parla di verità del secondo tipo,
la quale, se obbedita dalla libertà, genera la vera vita. Quando sento dire che
è solo un cambiamento pastorale e non dottrinale, o si pensa che il
comandamento che proibisce l’adulterio sia una legge puramente positiva che può
essere cambiata (e penso che nessuna persona retta possa ritenere questo),
oppure significa ammettere sì che il triangolo ha generalmente tre lati, ma che
c’è la possibilità di costruirne uno con quattro lati. Cioè, dico una cosa
assurda. Già i medievali, dopotutto, dicevano: theoria sine praxis,
currus sine axis; praxis sine theoria, caecus in via».
NON C'E' EVOLUZIONE DOVE C'E' CONTRADDIZIONE
La seconda premessa che l’arcivescovo di Bologna fa riguarda
«il grande tema dell’evoluzione della dottrina, che ha sempre accompagnato
il pensiero cristiano. E che sappiamo è stato ripreso in maniera splendida dal beato
John Henry Newman. Se c’è un punto chiaro, è che non c’è evoluzione laddove
c’è contraddizione. Se io dico che s è p e
poi dico che s non è p, la seconda proposizione
non sviluppa la prima ma la contraddice. Già Aristotele aveva giustamente
insegnato che enunciare una proposizione universale affermativa (e. g. ogni
adulterio è ingiusto) e allo stesso tempo una proposizione particolare negativa
avente lo stesso soggetto e predicato (e. g. qualche adulterio non è ingiusto),
non si fa un’eccezione alla prima. La si contraddice. Alla fine, se volessi
definire la logica della vita cristiana, userei l’espressione di Kierkegaard:
“Muoversi sempre, rimanendo sempre fermi nello stesso punto”». Il problema,
aggiunge il porporato, «è di vedere se i famosi paragrafi nn. 300-305 di Amoris
laetitia e la famosa nota n. 351 sono o non sono in contraddizione con
il magistero precedente dei Pontefici che hanno affrontato la stessa questione.
Secondo molti vescovi, è in contraddizione. Secondo molti altri vescovi, non si
tratta di contraddizione ma di uno sviluppo. Ed è per questo che abbiamo
chiesto una risposta al Papa».
Si arriva così al punto più conteso e che tanto ha animato le discussioni
sinodali: la possibilità di concedere ai divorziati e risposati civilmente il
riaccostamento all’eucaristia. Cosa che non trova esplicitamente spazio in Amoris
laetitia, ma che a giudizio di molti è un fatto implicito che rappresenta
nulla di più se non un’evoluzione rispetto al n. 84 dell’esortazione Familiaris
consortio di Giovanni Paolo II.
L'EUCARISTIA
«Il problema nel suo
nodo è il seguente», argomenta Caffarra: «Il ministro dell’eucaristia (di
solito il sacerdote) può dare l’eucaristia a una persona che vive more
uxorio con una donna o con uomo che non è sua moglie o suo marito, e
non intende vivere nella continenza? Le risposte sono solo due: Sì oppure No.
Nessuno per altro mette in questione che Familiaris consortio, Sacramentum
Caritatis, il Codice di diritto canonico, e il Catechismo
della Chiesa cattolica alla domanda suddetta rispondano No. Un No
valido finché il fedele non propone di abbandonare lo stato di convivenza more
uxorio. Amoris laetitia ha insegnato che, date certe
circostanze precise e fatto un certo percorso, il fedele potrebbe accostarsi
all’eucaristia senza impegnarsi alla continenza? Ci sono vescovi che hanno
insegnato che si può. Per una semplice questione di logica, si deve allora
anche insegnare che l’adulterio non è in sé e per sé male. Non è pertinente
appellarsi all’ignoranza o all’errore a riguardo dell’indissolubilità del
matrimonio: un fatto purtroppo molto diffuso. Questo appello ha un valore
interpretativo, non orientativo. Deve essere usato come metodo per discernere
l’imputabilità delle azioni già compiute, ma non può essere principio per le
azioni da compiere. Il sacerdote – dice il cardinale – ha il dovere di illuminare
l’ignorante e correggere l’errante».
«Ciò che invece Amoris
laetitia ha portato di nuovo su tale questione, è il richiamo ai
pastori d’anime di non accontentarsi di rispondere No (non accontentarsi però
non significa rispondere Sì), ma di prendere per mano la persona e aiutarla a
crescere fino al punto che essa capisca che si trova in una condizione tale da
non poter ricevere l’eucaristia, se non cessa dalle intimità proprie degli
sposi. Ma non è che il sacerdote possa dire “aiuto il suo cammino dandogli
anche i sacramenti”. Ed è su questo che nella nota n. 351 il testo è ambiguo.
Se io dico alla persona che non può avere rapporti sessuali con colui che non è
suo marito o sua moglie, però per intanto, visto che fa tanto fatica, può
averne… solo uno anziché tre alla settimana, non ha senso; e non uso
misericordia verso questa persona. Perché per porre fine a un comportamento
abituale – un habitus, direbbero i teologi – occorre che ci sia il
deciso proposito di non compiere più nessun atto proprio di quel comportamento.
Nel bene c’è un progresso, ma fra il lasciare il male e iniziare a compiere il
bene, c’è una scelta istantanea, anche se lungamente preparata. Per un certo
periodo Agostino pregava: “Signore, dammi la castità, ma non subito”».
A scorrere i dubia, pare di comprendere che in gioco, forse più
di Familiaris consortio, ci sia Veritatis splendor. È
così?
«Sì», risponde Carlo Caffarra. «Qui è in questione ciò che insegna Veritatis
splendor. Questa enciclica (6 agosto 1993) è un documento altamente dottrinale,
nelle intenzioni del Papa san Giovanni Paolo II, al punto che – cosa
eccezionale ormai nelle encicliche – è indirizzata solo ai vescovi in quanto
responsabili della fede che si deve credere e vivere (cfr. n° 5).
A essi, alla
fine, il Papa raccomanda di essere vigilanti circa le dottrine condannate o
insegnate dall’enciclica stessa. Le une perché non si diffondano nelle comunità
cristiane, le altre perché siano insegnate (cfr. n° 116). Uno degli
insegnamenti fondamentali del documento è che esistono atti i quali possono per
se stessi ed in se stessi, a prescindere dalle circostanze in cui sono compiuti
e dallo scopo che l’agente si propone, essere qualificati disonesti. E aggiunge
che negare questo fatto può comportare di negare senso al martirio (cfr. nn.
90-94). Ogni martire infatti – sottolinea l’arcivescovo emerito di Bologna –
avrebbe potuto dire: “Ma io mi trovo in una circostanza… in tali situazioni per
cui il dovere grave di professare la mia fede, o di affermare l’intangibilità
di un bene morale, non mi obbliga più”. Si pensi alle difficoltà che la moglie
di Tommaso Moro faceva a suo marito già condannato in prigione: “Hai doveri
verso la famiglia, verso i figli”. Non è, quindi, solo un discorso di fede.
Anche se uso la sola retta ragione, vedo che negando resistenza di atti
intrinsecamente disonesti, nego che esista un confine oltre il quale i potenti
di questo mondo non possono e non devono andare. Socrate è stato il primo in
occidente a comprendere questo. La questione dunque è grave, e su questo non si
possono lasciare incertezze. Per questo ci siamo permessi di chiedere al Papa
di fare chiarezza, poiché ci sono vescovi che sembrano negare tale fatto,
richiamandosi ad Amoris laetitia. L’adulterio infatti è sempre
rientrato negli atti intrinsecamente cattivi. Basta leggere quanto dice Gesù al
riguardo, san Paolo e i comandamenti dati a Mosè dal Signore».
LA MISERICORDIA E IL PERDONO
Ma c’è ancora spazio, oggi, per gli atti cosiddetti “intrinsecamente
cattivi”. O, forse, è tempo di guardare più all’altro lato della bilancia, al
fatto che tutto, dinanzi a Dio, può essere perdonato?
Attenzione, dice Caffarra: «Qui si fa una grande confusione. Tutti i
peccati e le scelte intrinsecamente disoneste possono essere perdonate. Dunque
“intrinsecamente disonesti” non significa “imperdonabili”. Gesù tuttavia non si
accontenta di dire all’adultera: “Neanch’io ti condanno”. Le dice anche: “Va’ e
d’ora in poi non peccare più” (Gv. 8,10). San Tommaso, ispirandosi a
sant’Agostino, fa un commento bellissimo, quando scrive che “Avrebbe potuto
dire: va’ e vivi come vuoi e sii certa del mio perdono. Nonostante tutti i tuoi
peccati, io ti libererò dai tormenti dell’inferno. Ma il Signore che non ama la
colpa e non favorisce il peccato, condanna la colpa… dicendo: e d’ora in poi
non peccare più. Appare così quanto sia tenero il Signore nella sua
misericordia e giusto nella sua Verità” (cfr. Comm. a Gv. 1139).
Noi siamo veramente, non per modo di dire, liberi davanti al Signore. E quindi
il Signore non ci butta dietro il suo perdono. Ci deve essere un mirabile e
misterioso matrimonio tra l’infinita misericordia di Dio e la libertà
dell’uomo, il quale deve convertirsi se vuole essere perdonato».
LA COSCIENZA
Chiediamo al cardinale Caffarra se una certa confusione non derivi anche
dalla convinzione, radicata pure tra tanti pastori, che la coscienza sia una
facoltà per decidere autonomamente riguardo ciò che è bene e ciò che è male, e
che in ultima istanza la parola decisiva spetti alla coscienza del singolo.
«Ritengo che questo sia
il punto più importante di tutti», risponde. «È il luogo dove ci incontriamo e
scontriamo con la colonna portante della modernità.
Cominciamo col chiarire il
linguaggio. La coscienza non decide, perché essa è un atto della ragione; la
decisione è un atto della libertà, della volontà. La coscienza è un giudizio in
cui il soggetto della proposizione che lo esprime è la scelta che sto per
compiere o che ho già compiuto, e il predicato è la qualificazione morale della
scelta.
È dunque un giudizio, non una decisione. Naturalmente, ogni giudizio
ragionevole si esercita alla luce di criteri, altrimenti non è un giudizio, ma
qualcosa d’altro. Criterio è ciò in base a cui io affermo ciò che affermo e
nego ciò che nego. A questo punto risulta particolarmente illuminante un
passaggio del Trattato sulla coscienza morale del beato Rosmini: “C’è una
luce che è nell’uomo e c’è una luce che è l’uomo. La luce che è nell’uomo è la
legge di Verità e la grazia. La luce che è l’uomo è la retta coscienza, poiché
l’uomo diventa luce quando partecipa alla luce della legge di Verità mediante
la coscienza a quella luce confermata”.
Ora, di fronte a questa concezione
della coscienza morale si oppone la concezione che erige come tribunale
inappellabile della bontà o malizia delle proprie scelte la propria
soggettività. Qui, per me – dice il porporato – c’è lo scontro decisivo tra la
visione della vita che è propria della Chiesa (perché è propria della
Rivelazione divina) e la concezione della coscienza propria della modernità».
«Chi ha visto questo in
maniera lucidissima – aggiunge – è stato il beato Newman. Nella famosa Lettera
al duca di Norfolk, dice: “La coscienza è un vicario aborigeno del Cristo.
Un profeta nelle sue informazioni, un monarca nei suoi ordini, un sacerdote
nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi. Per il gran mondo della filosofia di
oggi, queste parole non sono che verbosità vane e sterili, prive di un
significato concreto. Al tempo nostro ferve una guerra accanita, direi quasi
una specie di cospirazione contro i diritti della coscienza”.
Più avanti
aggiunge che “nel nome della coscienza si distrugge la vera coscienza”.
Ecco perché fra i cinque dubia il dubbio numero cinque è il
più importante. C’è un passaggio di Amoris laetitia, al n° 303, che
non è chiaro; sembra – ripeto: sembra – ammettere la possibilità che ci sia un
giudizio vero della coscienza (non invincibilmente erroneo; questo è sempre
stato ammesso dalla Chiesa) in contraddizione con ciò che la Chiesa insegna
come attinente al deposito della divina Rivelazione. Sembra. E perciò abbiamo posto
il dubbio al Papa».
«Newman – ricorda
Caffarra – dice che “se il Papa parlasse contro la coscienza presa nel vero
significato della parola, commetterebbe un vero suicidio, si scaverebbe la
fossa sotto i piedi”. Sono cose di una gravità sconvolgente. Si eleverebbe il
giudizio privato a criterio ultimo della verità morale. Non dire mai a una
persona: “Segui sempre la tua coscienza”, senza aggiungere sempre e subito:
“Ama e cerca la verità circa il bene”. Gli metteresti nelle mani l’arma più
distruttiva della sua umanità».
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