venerdì 31 agosto 2018

FRANCESCO PRUDENTE


Papa Bergoglio al rientro dall'Irlanda ha detto molte cose importanti, una in particolare tocca la cronaca, l'attualità, proietta la figura della Chiesa nel gioco politico per la sua decisione e azione sui migranti della Diciotti accolti dalla Cei.

Cosa ha detto Bergoglio? Prendiamo Repubblica, totem dell'Italia illuminata, delle porte aperte:

Domanda di un giornalista: “In tanti vedono un ricatto all’Europa sulla pelle di questa gente?”

Risposta:Accogliere è un principio morale vecchio come la Bibbia. Ma non si può accogliere alla “belle etoile”, ma in modo ragionevole, con prudenza. Ho capito questa cosa con l’attentato in Belgio. L’hanno fatto i figli di immigrati che erano stati ghettizzati. Un popolo che può ricevere ma non può integrare è meglio che non riceva”

Le parole di Bergoglio sono chiare, fresche, limpide. Sul tema dell'immigrazione non sono un punto di arrivo, ma di partenza. Suonano come un richiamo, uno stormo di campane per quelli che “non esistono le frontiere”, gli utopisti che non si pongono il problema del dopo, cioè del destino dei reietti nel paese in cui arrivano e della loro integrazione - più spesso, purtroppo, disintegrazione - nella società in cui si ritrovano proiettati. 

C'è il cuore, c'è l'integrazione e c'è la prudenza. Una politica migratoria deve essere capace di tenere insieme queste cose, dare loro uno svolgimento armonioso. Tutto questo in Italia non c'è. Non c'era ieri e non c'è oggi. Ma la soluzione - se prendiamo le parole del Papa come un'indicazione preziosa - non è quella sostenuta da chi vuole aprire le frontiere a tutti. Non si può fare per le ragioni esposte da Bergoglio: "Un popolo che può ricevere ma non può integrare è meglio che non accolga". L'Italia non può ricevere perché non può integrare. O meglio, può ricevere poco perché non ancora capace di integrare al meglio lo straniero che deve costruire da zero il proprio futuro.

Non pare sia una fake-news.

giovedì 23 agosto 2018

CL E PD: RIPARTIRE DA GIOBBE?



 Rimini, meeting di Comunione e Liberazione e Festa nazionale dell’Unità in Emilia: per moltissimi anni la politica italiana ripartiva ad agosto da questi due posti, era in questi due luoghi che ministri e presidenti del consiglio fissavano l’agenda dell’autunno.
Marc Chagall, Giobbe

Il meeting di Cl in corso a Rimini, la Festa dell’Unità di Bologna che comincia oggi e quella nazionale di Ravenna che parte domani si aprono invece lontano dai riflettori principali in un clima di mestizia da un lato e di riflessione dall’altro. Per la prima volta in questi luoghi simbolo della politica italiana non ci metteranno piede i vertici del governo giallo-verde e questa asimmetria provoca un certo disorientamento tra i protagonisti di tante stagioni. A Bologna poi la Festa dell’Unità trasloca dopo 44 anni dal Parco Nord e si farà al chiuso nei locali della Fiera con l’aria condizionata, un’altra suggestione sinistra per la comunità dem. Il Pd guidato da Maurizio Martina sembra un pugile stordito e alla Festa di Ravenna è riuscito nell’impresa di invitare il leader dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio facendosi dire di no e si dovrà accontentare della visita istituzionale del presidente della Camera Roberto Fico. Gli organizzatori del Meeting non sembrano nemmeno troppo preoccupati dello scarso successo mediatico della rassegna, anzi pensano che sia meglio così. E anche dalle parti del Pd non ci si fa grandi illusioni sui numeri delle Feste.

Con un presente da incubo e un futuro incerto Pd e Cl si rifugiano nel passato: i dem a Bologna hanno dedicato una sala della Festa ad Aldo Moro al leader della Dc, nel quarantesimo anniversario della morte, rimarcandone lo stile da statista a differenza, a giudizio dei dirigenti Pd, di Matteo Salvini alle prese con i selfie in spiaggia. Comunione e Liberazione ha invitato ai dibattiti profili come quello di Rocco Buttiglione e di Luciano Violante, personalità di livello ma certo non con un grande avvenire politico.
La nuova marginalità di quelli che sono stati i rappresentanti di due grandi blocchi sociali del Paese, la sinistra e il mondo cattolico, potrebbe però portare anche qualche beneficio. Sembrano un po’ come quegli anziani che lasciano la sala da pranzo principale troppo affollata e rumorosa e si rifugiano in libreria dopo aver mangiato. Il silenzio e la riflessione potrebbero anche aiutare a capire meglio che cosa è successo davvero nelle urne lo scorso 4 marzo.

Come queste vecchie chiese politiche possono uscire dalla marginalità? È la domanda delle domande perché insieme a Forza Italia questi mondi sono percepiti come il vecchio e non è facile contrastare questa lettura.

Nemmeno nel Pd d’ Emilia ci sono pensieri chiari. C’è l’idea di dare vita ad un partito federale della vicepresidente della Regione, Elisabetta Gualmini ma la proposta non convince tutti, c’è chi spera nei comitati civici proposti da Matteo Renzi ma anche in questo caso sembra mancare l’energia di un tempo. La sfida su come ripartire e con chi ripartire è di quelle immani perché manca tutto e non si sa nemmeno chi deve ripartire: il Pd? Il centrosinistra? Un fronte Repubblicano alternativo ai sovranisti? In attesa di capire da dove ripartire e con chi, tanto vale provare a chiedersi allora da cosa bisogna ripartire. E anche qui la sfida è difficile, i giallo-verdi hanno monopolizzato le risposte a due parole chiave: immigrazione e protezione sociale.

Alla prima ha risposto Matteo Salvini alla sua maniera, alla seconda i Cinque Stelle con una fortissima (per ora solo a parole) richiesta di ritorno allo Stato. Dall’Emilia arrivano in questi giorni due risposte alternative a quelle parole chiave, seppure solo sussurrate. Sull’immigrazione dalla Festa dell’Unità di Bologna arriva la parola «integrazione», mai così fuori moda e contro vento: la sala dibattiti centrale è stata dedicata alle vittime del Mediterraneo e ai banchetti si raccoglieranno le firme per la legge sullo Ius Soli.
Dal meeting di Cl a Rimini invece arriva la parola «sussidiarietà», il vero marchio di fabbrica del Movimento. Al meeting hanno invitato i parlamentari del gruppo interparlamentare sulla sussidiarietà (Pd, Forza Italia e centristi), mosche bianche nel dibattito attuale. Sarà anche vero come dice Giorgio Vittadini che verrà il tempo dei passisti e che in questo momento non ha senso seguire gli scatti veloci degli scalatori (Lega e M5S) ma per come vanno le cose a Cl e Pd serve piuttosto tornare a Giobbe, personaggio biblico al centro dell’edizione 2018 del meeting.
L’enigma di Giobbe («C’è qualcuno che ascolta il mio grido?») sembra anche l’enigma dei vecchi partiti che a loro volta non hanno saputo ascoltare il grido che arrivava dal Paese.
La buona notizia è che Giobbe continuò ad avere fiducia e pazienza anche nei momenti peggiori. Si potrebbe ripartire da lì.
Olivio Romanini
Corriere della sera Bologna 23/8

mercoledì 22 agosto 2018

SENZA AMICIZIA E CARITÀ, LA SCIENZA VEDE SOLO LE BUDELLA DEI PAZIENTI


Le storie di quattro testimoni straordinari al Meeting per sviscerare l’enigma della sofferenza 

Caterina Giojelli    TEMPI Agosto 20, 2018 

ENOC, ROSE, ACHILLI
Andrea Mariani oggi ha una qualifica lunga così, è professore di ostetrica e ginecologia alla Mayo Clinic Rochester, Minnesota. E come ci è finito in Minnesota, in uno dei migliori e più importanti ospedali degli Stati Uniti? «Io faccio Chirurgia robotica, entro in sala, il paziente dorme, lavoro staccato da lui, vedo solo le sue viscere, le budella. È facile, sapete, separare l’atto tecnico dal volto del paziente, separare l’atto dal suo fine. Cosa mi permette di non fermarmi alla budella?». Questa è la storia di un grande chirurgo – e diciamolo subito, lode al Meeting di Rimini per aver iniziato il suo primo giorno di manifestazione ieri invitando Mariani a dibattere di “Carità e scienza, il mistero della relazione di cura” insieme e ad altri tre altri grandi testimoni come Roberto Bernabei, presidente di Italialongeva; Mariella Enoc, presidente ospedale pediatrico Bambino Gesù e Rose Busingye, infermiera e responsabile Meeting Point International di Kampala.

Lode al Meeting, sì, perché ci vuole coraggio ad arrivare al cuore dell’enigma della sofferenza così ben sintetizzato nella frase della mostra qui a Rimini su Giobbe: “Il cristianesimo crea più che risolvere il problema del dolore, poiché il dolore non sarebbe in sé un problema se, insieme con la nostra esperienza quotidiana di un mondo doloroso, non avessimo ricevuto una sufficiente garanzia del fatto che la realtà ultima è giusta e amorosa”.

Dicevamo di Mariani. Quando ha iniziato come chirurgo aveva solo due maestri, Dario Maggioni, che gli aveva insegnato a dare i primi punti e Luigi Frigerio, che gli aveva insegnato che dare i punti non era abbastanza. «Poi accade che nel 1996 ho l’opportunità di andare come a Rochester, dove nevicava tutto l’anno, non avevo un soldo, la famiglia era lontana e andavo al lavoro con la bici prestatami da un prete. Mi ricordo la bellezza, la perfezione e l’armonia della Mayo Clinic, pensavo che quel luogo fosse la risposta ai punti che non bastano. Alla fine del mio anno andai dal mio maestro, gli consegnai i dati raccolti dicendo di darli a qualcuno che potesse pubblicarli e farne un buon lavoro. “Tu hai fatto un buon lavoro, tu vali, devi fermarti e pubblicarli tu”, rispose. Ecco, le cose andarono più o meno così, con questo professore che mi ospita in casa sua e scommette su di me. E lì inizio a capire che con la chirurgia potevo curare un paziente alla volta, con la scienza tanti di più».

Questa gratitudine spinge Mariani a fare ricerca, anche il migliore ambiente però come i punti non basta, ci sono i grant, i livelli di eccellenza, il problema dell’efficienza, il cuore da solo e la generosità del cuore si raffredda, non resta fedele. «Rischiavo di vedere le budella, non più il paziente. Senza scienza non potevo curare il paziente ma senza carità, senza il suo volto, la scienza perdeva. Cosa tiene insieme scienza e carità, faccia e budella, desiderio e gratitudine? Ve lo dico io, occorre un’amicizia. Un affetto potente, uno come te, che cammina con te. Occorre un amico». Uno come Nadeem Abu Rustum. All’inizio era un nemico, si erano conosciuti in Giappone, Mariani guru della linfoadinectomia, Nadeem operava i linfonodi sentinella. Due posizioni diverse, stesso amore per la verità, stessa pasta di uomo. Infatti diventano amici, si accrocchiano, mettono insieme scienze e conoscenze, qualcosa che scombina piani e pratiche della grande Mayo e su cui Mariani investe e scommette senza paura. Il frutto di quell’amicizia diventa uno studio internazionale e nuove linee guida che presto cambieranno le cose.

E diventa un messaggio, quello che Nadeem ha mandato al Meeting dove Mariani lo aveva invitato: «Trovate i vostri amici. Andrea, vorrei ci fossimo conosciuti vent’anni fa. Se tornassi indietro di venti, trent’anni io cercherei amici disposti a camminare con me». È questo l’antidoto al parente come budella, qualche tempo fa Mariani ha chiesto a una donna perché fosse triste (doveva andarsene, non doveva chiederglielo, aveva fetta, eppure quel viso era inspiegabilmente triste), «non hai il cancro, il tuo intervento è stato semplice, non hai motivi per essere triste». E lei gli racconta di un figlio disabile a casa da accudire da sola 24 ore su 24. E Mariani e la Mayo cambiano il modo di curarla per aiutarla. «Ecco la mia storia, una storia che parla di scienza e di amicizia perché la più grande scoperta è che l’amicizia aiuta la scienza a restare attaccata alla verità. A non vedere più in un letto budella e pelle salvata, ma una madre preoccupata per il suo bambino».

martedì 21 agosto 2018

C'E' UN VESCOVO A MADISON WISCONSIN


Robert Morlino, vescovo di Madison, parla chiaramente. 

In una lettera pubblicata sul giornale diocesano chiama le cose con il loro nome. “È tempo di ammettere che c’è una sottocultura omosessuale, che sta provocando devastazioni nella Vigna del Signore”.


Robert Morlino, vescovo di Madison, parla chiaramente. In una lettera pubblicata sul giornale diocesano chiama le cose con il loro nome; parla di una “sottocultura omosessuale” nella Chiesa, e afferma che tutto questo – gli scandali che hanno lacerato la Chiesa americana, ma non solo: pensiamo al Cile, pensiamo al seminario di Tegucicalpa in Honduras, in attesa che si scoperchino altre pentole, magari in Italia stessa – sono dovute al fatto che si è smesso di chiamare il peccato con il suo nome, per una malintesa bontà. È una lettera coraggiosa, e appare una risposta diretta a quanti – come il gesuita James Martin, e quelli che lo appoggiano, i cardinali Blaise Cupich e Kevin Farrell, per citarne due – sembrano impegnati in una battaglia per fare sì che la Chiesa riconosca come normali comportamenti e inclinazioni che il Magistero e il Catechismo definiscono “oggettivamente disordinati”. 

“Da parte mia – scrive il vescovo – sono stanco di tutto questo. Stanco di persone che sono ferite, gravemente ferite, e sono stanco dell’offuscamento della verità. Stanco del peccato. E da persona che ha cercato, a dispetto di molte imperfezioni, di dedicare la sua vita a Cristo e alla Chiesa, sono stanco delle regolari violazioni dei sacri doveri da parte di quelli a cui è stata affidata l’immensa responsabilità del Signore per la cura del suo popolo”.

Morlino descrive la nausea che viene dal leggere le storie di abusi;  e dalla copertura. Il peccato c’è sempre stato, anche nella Chiesa, ma “Ciò che è nuovo è che sembra che ci sia accettazione da parte di qualcuno nella Chiesa del peccato, e lo sforzo apparente di coprire i propri peccati e quelli degli altri”.

E poi va al cuore del problema: “Troppo a lungo abbiamo minimizzato la realtà del peccato – abbiamo rifiutato di chiamare il peccato peccato – e abbiamo scusato il peccato in nome di una malintesa nozione di misericordia. Nei nostri sforzi di essere aperti al mondo siamo diventati troppo vogliosi di abbandonare la Via, la Verità e la Vita. Per evitare di offendere offriamo a noi stessi e agli altri gentilezze e consolazione umana”.

Il vescovo di Madison chiede: “Perché facciamo questo? Viene da un onesto desiderio di mostrare un malguidato senso di essere ‘pastorali’? Abbiamo paura di non piacere alla gente in questo mondo? Abbiamo coperto la verità per paura? O temiamo di essere chiamati ipocriti perché nelle nostre vite non aneliamo instancabilmente alla santità?”.

Ma qualunque siano le ragioni, ora è il momento di dire basta. “Basta con il peccato. Deve essere sradicato e considerato inaccettabile. Amare i peccatori? Sì. Accettare il pentimento sincero? Sì. Ma non dire che il peccato è ok. E non fingere che gravi conseguenze nel dovere e nella fiducia non comportino gravi durature conseguenze”. 

Non ci deve essere spazio o rifugio per il peccato, né nelle vite, né nella Chiesa. Morlino ricorda che nello specifico si parla di deviazioni sessuali da parte di preti. “Parliamo di proposte omosessuali e abusi contro i seminaristi e i giovani preti da parte di preti potenti, vescovi e cardinali”.

E continua: “C’è stato un grande sforzo compiuto per tenere separati atti che ricadono nella categoria ora culturalmente accettabile dell’omosessualità e gli atti pubblicamente deplorati di pedofilia. Fino a poco fa i problemi della Chiesa sono stati dipinti puramente come problemi di pedofilia, e questo a dispetto della chiara evidenza del contrario”. Ma la Chiesa non ha mai considerato accettabili né gli uni né gli altri; “né l’abuso di bambini, né alcun uso della sessualità fuori del matrimonio, né il peccato di sodomia”.

Morlino dice che le stime sui preti omosessuali attivi lo sbalordiscono. “È tempo di ammettere che c’è una sottocultura omosessuale, che sta provocando devastazioni nella Vigna del Signore. L’insegnamento della Chiesa è chiaro: l’inclinazione omosessuale in sé non è peccaminosa, ma è intrinsecamente disordinata in maniera tale che rende ogni uomo colpito da essa non adatto a  essere un prete. E la decisione di agire seguendo questa inclinazione è un peccato così grave che grida al cielo per vendetta, specialmente quando riguarda i giovani, e i più vulnerabili. Tale malvagità va odiata con odio perfetto…ma se dobbiamo odiare il peccato, non dobbiamo mai odiare il peccatore, che è chiamato alla conversione e alla penitenza”. Morlino conclude con una nota di speranza. “La misericordia che dobbiamo avere verso i peggiori peccatori non esclude che siano resi responsabili delle loro azioni con una punizione proporzionata. La punizione è un lavoro importante di amore e misericordia…Sono con quelli che chiedono che la giustizia sia applicata ai colpevoli”.


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Bishop's Letter
Saturday, Aug. 18, 2018 -- 1:30 PM

E' VENUTO AL MONDO UN UOMO


LEONARDO LUGARESI

Dice proprio così il vangelo: «La donna quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo». Non dice “suo figlio”, come sembrerebbe naturale, dice "un uomo".
Un'ora fa è venuto al mondo Marco, il mio secondo nipotino. Sono a casa, non l'ho ancora visto, è ancora uno sconosciuto per me, eppure mi pare di capire solo ora il senso di quel dettaglio evangelico. La gioia profonda, quieta e sconfinata come un grande mare senza onde, che sento e a cui mi sento consegnato in questi momenti è proprio perché «è venuto al mondo un uomo»: che sia il figlio di mio figlio è il grimaldello che solleva la pesantezza abituale del cuore e ne vince la durezza, ma la radice della gioia è un'altra. È nato un uomo!
Se gli uomini fossero come Dio proverebbero una gioia del genere letteralmente ogni volta che nasce un uomo: avrebbero bisogno di essere Dio per sopportarla.
Penso alla gioia di Dio ogni volta che nasce un uomo – comunque, in qualsiasi modo e in qualsiasi condizione
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GIORGETTI: GIOCARE TUTTI PER L’INTERESSE NAZIONALE.



«Destra e sinistra sono categorie passate. Il popolo ha votato contro le élite che vogliono imporre un modo universale di agire e pensare» Intervista al sottosegretario alla presidenza del Consiglio


«Sì, questa è la prima volta che parlo al Meeting di Rimini, ma non è la prima volta che ci vengo. Ci sono già stato negli anni scorsi da semplice visitatore. Qui ho sempre trovato la parte sana e positiva dalla società italiana che ama confrontarsi su temi spesso dimenticati dalla cronaca. Come è noto, io non sono uno che ama la superficialità, mi piace approfondire e il Meeting mi pare il luogo adatto per riflettere e trattare questioni che riguardano l’attualità e il futuro secondo una prospettiva non scontata». Giancarlo Giorgetti è certamente uno degli ospiti politici più importanti di questa XXXIX edizione e parteciperà lunedì 20 agosto al dibattito “Le prospettive della democrazia” a cura dell’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà presieduto da Maurizio Lupi.
Giorgetti è sempre molto parco nel rilasciare interviste. Non ama apparire, non smania per stare sul palcoscenico e ha sempre fatto di questa sua attitudine un marchio di fabbrica. Pur essendo un leghista della prima ora (fu eletto per la prima volta alla Camera dei deputati nel 1996, quando aveva solo 29 anni e una laurea in Economia alla Bocconi di Milano), ha sempre centellinato le sue dichiarazioni e le sue uscite pubbliche. È forse anche grazie a questa sua proverbiale riservatezza che sui giornali è stato via via definito il “Gianni Letta di Forza Italia” o il “Mister Wolf leghista” dato che gli è unanimemente riconosciuta una capacità non comune di mediazione, intelligenza e sano pragmatismo (non è un caso se nel 2013 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo invitò a far parte del “Gruppo dei saggi” che doveva occuparsi di elaborare un piano di riforme in campo economico e sociale).
Oggi Giorgetti ricopre nel governo Conte il ruolo più importante e delicato: è sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri, il posto dove tutto passa e tutto si decide. Non è inusuale, infatti, nei capannelli lungo il Transatlantico di Montecitorio sentire qualche deputato dire: «Questo bisogna chiederlo a Giorgetti». Calcisticamente e politicamente si definisce «un portiere», ruolo che rende bene l’idea di chi è più preoccupato di dirigere la difesa e la squadra da una posizione privilegiata, piuttosto che l’appariscente posizione del centravanti, cui vanno sempre gli elogi e gli applausi del pubblico e della critica.

Lei ha di recente sottolineato il fatto che categorie come “destra” e “sinistra” siano ormai desuete e inadeguate a comprendere lo scenario politico attuale. L’ho sentita dire che sarebbe più corretto sostituirle con il binomio “élite – popolo”. Cosa intende?
Non sono io ad aver identificato queste due categorie, è stato l’elettorato a imporle all’attenzione di tutti quando si è andati al voto. Prendiamo come esempio le ultime elezioni italiane: le categorie di “destra” e “sinistra” che caratterizzavano il passato e che hanno consentito negli ultimi anni di leggere il voto, oggi non valgono più. Mi spiego: in Italia abbiamo sempre vissuto una certa stabilità dovuta, prima, alla contrapposizione tra la Democrazia cristiana e Partito comunista e, poi, tra chi seguiva la leadership di Silvio Berlusconi e chi la contrastava. Tutto questo è sparito nel momento in cui l’elettorato di sinistra non si è più riconosciuto nei partiti di quell’area culturale e, di converso, quello di destra non si è più riconosciuto nelle formazioni di destra. In un modo assolutamente liquido, è accaduto che questo elettorato ha cominciato a spostarsi verso la Lega o verso il Movimento 5 stelle. Questo è il fenomeno che si è verificato negli ultimi anni e che ha dato la sua lampante prova alle ultime elezioni. Certo, distribuito in modo diverso sotto il profilo geografico perché, come è evidente, il Nord ha votato per noi e il Sud per i grillini, ma resta il dato di fatto che il voto non può più essere letto secondo le categorie di “destra e “sinistra”.

Categorie ormai antiche?
Io penso di sì e credo che sarà sempre di più così. Il popolo italiano, e in particolare i giovani ma secondo me tutti quelli che hanno meno di cinquant’anni, hanno abbandonato l’idea che si sia di “destra” o di “sinistra”. In questo momento, se vogliamo, possiamo pure dire che la gente ha votato di pancia, seguendo un’emozione, ma è un fatto che nessuno ormai creda più alle formule e alle etichette, peraltro vuote, dei vecchi partiti.

Quando lei pensa alle élite, cosa pensa, a chi pensa?
Penso a coloro che ritengono di avere in mano una verità cui il popolo si deve adeguare. Una ricetta che sia in grado di risolvere – in tutto il mondo! – ogni problema che riguarda l’economia e ogni ambito del vivere. Penso all’élite dell’informazione che, in nome di una sua idea, s’arroga il potere di imporre a tutti “diritti” che diritti non sono, tanto che spesso la gente non li vuole, non sa che farsene eppure costoro vorrebbero farceli digerire a forza. Insomma, penso a tutti coloro che, in virtù di una supposta superiore illuminazione, pretendono che i politici eseguano in modo pedissequo le loro indicazioni. Solo che, ad un certo punto, il popolo, ovviamente non solo in Italia, ma un po’ dappertutto, ha cominciato a ribellarsi a questo tipo d’impostazione. È successo negli Stati Uniti, in Italia e anche altrove.

È vero che ha consigliato ai suoi colleghi di partito di tenere sulla scrivania una foto di Matteo Renzi così da ricordarsi sempre di quanto il potere sia effimero e passeggero?
La fotografia non è quella del personaggio citato, ma il senso del mio discorso era quello. Io, purtroppo o per fortuna a seconda dei punti di vista, è da molto tempo che sono in Parlamento: ho vissuto sia l’esperienza dell’opposizione sia quella di governo e quindi conosco i cicli politici e so benissimo che un giorno si è sulla cresta dell’onda e il giorno dopo a terra. Bisogna sempre mantenere un sano realismo, da non confondere col pessimismo. In questo momento il governo beneficia di un grande consenso popolare e di una luna di miele che, probabilmente, si prolungherà per la mancanza di un’opposizione organizzata. Ma non dobbiamo illuderci che durerà in eterno. Per questo occorre costruire, lavorare, darsi da fare. Soprattutto non bisogna mai perdere il contatto con la realtà.

Lei è cattolico e non ne ha mai fatto mistero. Ha partecipato alla Marcia per la vita ed è stato tra i maggiori promotori della legge 40, una buona legge di compromesso, da un punto di vista cattolico, sulla regolamentazione delle procreazione medicalmente assistita. Però, come lei sa, questa legge nel corso degli anni è stata via via smantellata dalle sentenze dei tribunali. E, ultimamente, abbiamo visto, sulle tematiche bioetiche, chiamiamole così, numerosi passi azzardati in avanti.
È vero. Sono leggi che subiscono queste modifiche e anche le pressioni e le decisioni che transitano da consessi sovranazionali. È chiaro che noi avremmo voluto fare di più e abbiamo le idee chiare su questi temi. Pensi solo a qualche mio collega di governo (il ministro Lorenzo Fontana, ndr) che ha più volte e ampiamente manifestato i suoi convincimenti, ma è anche vero che, rispetto alla china pericolosissima presa nell’ultima legislatura, il fatto che questi temi non siano compresi nel contratto di governo coi cinquestelle è una garanzia che le cose non saranno peggiorate. Noi abbiamo accettato di non imporre le nostre idee, ma anche loro hanno accettato di non approvare alcuna proposta che arrivi da altri partiti. Da questo punto di vista, è un governo di moratoria rispetto all’esecutivo precedente.

Lei ha detto che i suoi tre riferimenti politici sono Umberto Bossi, don Luigi Sturzo e Bettino Craxi. Se per il primo è facile capire il perché e per il secondo è intuibile, ci spiega perché ha nominato anche il leader socialista?
Don Sturzo perché ha dato al nostro popolo la coscienza di cosa sia una democrazia moderna. Inoltre, sebbene se ne parli poco, era un convinto federalista. A proposito di Craxi capisco che, detto da un leghista, possa apparire un po’ provocatorio, ma io credo che sia ormai arrivato il tempo di guardare la storia senza paraocchi e riconoscere che Craxi è stato l’ultimo, in epoca contemporanea, ad avere la coscienza dell’interesse nazionale e a cercare di portarlo avanti, di tradurlo in azione politica. Lo avrà fatto anche in modo contrastato, ma io penso che in lui questa idea fosse genuina. E credo che, in questo momento, serva riprendere quel tipo di capacità, quel tipo di coscienza dell’interesse generale nazionale.

 Agosto 19, 2018 TEMPI Emanuele Boffi
Foto Ansa

GOVERNO M5S LEGA: UNA QUESTIONE APERTA



UN GIUDIZIO DEL SEN. BEPPE PISANU
"Vedo una positiva spinta utopica non sostenuta però da una adeguata capacità di analisi culturale e di proposta politica"

«Moro mi ha insegnato a tenere gli occhi aperti sulla realtà e ad ascoltare le voci che si alzano dalla società civile, prestando attenzione alle cose nuove che nascono senza indugiare troppo sulle vecchie che muoiono. Da questa posizione io colgo segnali positivi, come per esempio l'insistenza sulla moralizzazione della vita pubblica, l'attenzione sull'ambiente e sui punti più controversi come il reddito di cittadinanza. Ma vedo anche atteggiamenti preoccupanti» come sulla «lotta alle diseguaglianze, la costruzione europea, l'immigrazione. Insomma, vedo una positiva spinta utopica non sostenuta però da una adeguata capacità di analisi culturale e di proposta politica. E contemporaneamente vedo un pericoloso riflusso verso istanze come il sovranismo e il nazionalismo che in Europa hanno già prodotto due guerre mondiali».
È l'analisi che Giuseppe Pisanu - tra i protagonisti sia della prima che della seconda Repubblica - fa in una lunga intervista rilasciata a La Nuova Sardegna in occasione del suo ritorno in pianta stabile a Sassari. Giudizio, quello di Pisanu sul governo giallo-verde, che si estende anche al suo 'successorè al Viminale, Matteo Salvini.
Pur con la premessa che «non è elegante da ex ministro giudicare altri ministri», Pisanu osserva però come «le esigenze del leader politico prevalgano sulla vocazione propria del ministro dell'Interno, che non è un ministro di polizia, ma un ministro di garanzia dei diritti di libertà e di cittadinanza. L'aspetto che più mi preoccupa - sottolinea - è l'approccio al tema dell'immigrazione. Questo è il più grande problema sociale del nostro secolo che va affrontato e risolto a livello internazionale».«Pertanto - spiega -, la competenza specifica dovrebbe essere affidata ai ministri degli Esteri e degli Affari sociali. Al ministro dell'Interno dovrebbe rimanere l'aspetto legato alla sicurezza, all'ordine pubblico e ai diritti di cittadinanza»
Da La Nuova Sardegna

venerdì 17 agosto 2018

COSA C’ENTRA DIO COL CROLLO DEL PONTE MORANDI?


Rodolfo Casadei
Tempi, Agosto 16, 2018 

Dio non ha nulla a che fare con l’evento? Eppure nelle nostre orecchie e nel nostro cuore risuona l’urlo di quell’uomo che per quattro volte grida con voce sconvolta “Oh, Dio!”

Ponte Morandi (foto Ansa)

Quando settimana scorsa Matteo Zuppi vescovo di Bologna ha affermato, commentando il disastroso incidente sulla tangenziale di Borgo Panigale che aveva provocato grandi danni materiali, ma soltanto due decessi, che a proteggere la città da danni peggiori era stata la Provvidenza di Dio, molti non hanno gradito. A parte le ironie di agnostici e scettici vari, anche qualche sacerdote ha manifestato disagio. «Come prete mi dichiaro ateo di questo “dio” che a volte c’è, a volte non c’è e a volte, come in questo caso, c’è ma solo a metà!», ha replicato per esempio don Aldo Antonelli, in passato prete antiberlusconiano e oggi prete anti-Salvini. «Quando la smetteranno i nostri vescovi di propagandare questo “deus ex machina” che non è altro che il parto delle nostre ignoranze e delle nostre paure?».
Molto peggio è andata al domenicano padre Giovanni Cavalcoli, che due anni fa definì “castigo di Dio” il terremoto che colpì Norcia, Amatrice e le regioni circostanti, ipotizzando un suo eventuale collegamento con l’approvazione della legge sulle unioni civili. Il sacerdote fu ripudiato dai suoi confratelli domenicani, esecrato da molti vescovi e privato della conduzione di una trasmissione a Radio Maria. Il messaggio è chiaro: Dio non c’entra con le sciagure, non è la spiegazione della sopravvivenza di alcuni e del decesso di altri; tenete Dio alla larga dagli avvenimenti catastrofici.

Con questi precedenti, è prevedibile che nessuno si esporrà in questi giorni per indicare la mano di Dio nella catastrofe del viadotto Morandi a Genova, che sia per spiegare il destino di coloro che hanno incredibilmente scampato la morte o per trovare una ragione alla perdita della vita di tanti.

Ci si limiterà ad affidare all’amore di Dio i morti e a ricordare che la vita è dono grande e fragile, e per questo va vissuta rendendo grazie con le parole e con le opere al suo Autore.
Dio non avrebbe nulla a che fare con l’evento come tale. Eppure nelle nostre orecchie e nel nostro cuore resterà per sempre il documento visivo e sonoro di quell’uomo che per quattro volte grida con voce sconvolta “Oh, Dio!”, e la quinta “Dio santo!” mentre l’autostrada crolla insieme ai veicoli che la percorrevano.

La reazione spontanea di un uomo di fronte alla manifestazione terribile e incontenibile del Mistero. Chiunque fra noi, se si fosse trovato al posto di quell’osservatore, avrebbe quasi certamente profferito lo stesso grido. In momenti come quello, la nostra stessa natura ci spinge a riconoscere la manifestazione dell’Oltre nell’Aldiquà, l’irruzione del Totalmente Altro sulla scena della storia e delle nostre biografie.

giovedì 16 agosto 2018

CHE BELLO! E' TORNATO IL NEMICO



di Claudio Risé, da “La Verità”, 22 luglio 2018

Tira aria nuova. Lo provano le parole: quelle ripetute fino allo sfinimento decadono e tra lo stupore generale ne tornano di antiche. Più secche, irritanti, ma forse anche più vere. Per esempio torna in auge la parola nemico, detta così, senza tante storie. Come ha fatto Donald Trump da Helsinki, prima dell'incontro con Vladimir Putin, quando in un'intervista alla televisione americana Cbs ha detto: "Penso che l'Unione europea sia un nemico. Non lo credereste, ma gli europei sono dei nemici".
L'affermazione non è presentata come una questione personale, anche se il grande pupazzo gonfiato con un Trump-infante con pannolino e cellulare in mano, issato nel cielo per 16 mila sterline davanti al Parlamento di Londra con la benedizione del sindaco Sadiq Khan avrà di sicuro avuto la sua parte nella questione, e altrettanto i cortei anti Donald nelle strade di Helsinki da dove il Presidente ha rilasciato l'intervista. Ma Trump rassicura: i nemici esistono, non è uno scandalo, né una novità. Anzi: "non significa che sono cattivi”, ha continuato il presidente Usa. "Significa che sono in competizione con noi".
TURNER nave nella tempesta

Ecco un'altra volta il bambino con il suo scandaloso grido che sta cambiando il mondo: il Re è nudo. Non siamo tutti amici. Non facciamone però una tragedia. Era la storia che ci raccontavano prima che era una farsa. Subito interviene allora lo spiumacciato establishment europeo con le accorate smentite e ferme condanne, come da copione: il Presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk assicura che no! "Usa e Ue sono ottimi amici! Chiunque dica che sono nemici diffonde fake news", brandendo il luogo comune più usato e usurato del momento per cercare di sistemare tutto. In realtà la fake new, durata fin troppo tempo, è quella che: "siamo tutti amici". La novità assoluta è il ritorno in grande spolvero della categoria linguistica, affettiva e cognitiva dell'amiconemico, che presiede da sempre alla vita umana, alle relazioni tra le persone, e naturalmente anche tra gli Stati.
Ebbene sì: è vero che non ci vogliamo sempre bene; ma in ciò non c'è niente di male e non è il caso di farne chissà che storia. In genere, come dice il Puer Robustus Donald Trump è semplicemente perché "siamo in competizione": meglio ammetterlo, piuttosto che truccare le carte. Per esempio con Trattati commerciali truffa dove ad alcuni va benissimo, ad altri molto meno, e i produttori che non hanno voce in capitolo rischiano pesantemente, come quelli di certi formaggi di fossa, o il lardo di Colonnata, (frazione di Carrara), che però risulta prodotto anche in ben 12 regioni italiane, ma forse anche in Bulgaria, Romania e Croazia; appunto perché siamo tutti amici. L'espulsione della categoria amico-nemico dalla vita pubblica, da quella politica e dal pensiero del bravo cittadino è questione abbastanza recente, e nasce dal tentativo novecentesco di negare che ogni ordine nasce da un precedente conflitto, che va regolato. Non si tratta solo di buone maniere. Dire che ci vogliamo tutti bene, infatti, non è un fatto di educazione ma un programma culturale e antropologico fondato sulla falsificazione della realtà.. Si tratta di una questione centrale: il politicamente È il contrario del si, si, no, no cristiano, della dichiarazione di Gesù: "non sono venuto a portare la pace ma la spada", simbolo della discriminazione tra bene e male, oltre che principio maschile.

Si tratta di una questione centrale: il politicamente corretto non è solo la "semantica dell'eufemismo" presentata (molto meglio) nel libro di Nora Galli de Paratesi, ma il nuovo codice linguistico e dei rapporti umani sul quale fondare nuove leggi e regolamenti di convivenza, lontani dalla natura umana di cui ormai è perfino di cattivo gusto parlare. È lo strumento indispensabile a quell'indebolimento del soggetto umano e della sua personalità prodotto dal passaggio tardomoderno dalla decisione alla discussione, dall'azione al "discorso", dall'amore per l'amico e l'ostilità per il nemico all' indifferenza per entrambi e al ripiegamento su di sé e sui propri esclusivi interessi. È la politica e la morale del compromesso.
Sono anche i parlamenti democratici come li ha descritti già un secolo fa il filosofo della scuola di Francoforte Walter Benjamin, notando che l'indecisione e il compromesso uccidevano ogni autentica speranza e contemporaneamente alimentavano una sotterranea e pericolosa rabbia e violenza. Queste riflessioni furono scritte negli anni in cui si preparavano i grandi totalitarismi che trasformarono poi l'indecisione permanente dei parlamenti democratici nelle dittature dello "Stato d’eccezione". Servendosi di "purezze" ideali, generosità, diritto, solidarietà, eguaglianza, i dirigenti politici delle ultime versioni di mondialismo e globalizzazione, come già mostrava Carl Schmitt, hanno svuotato le categorie amico e nemico per imbrigliare i cittadini con i buoni sentimenti e così neutralizzarli, togliendo loro la capacità di decidere.

I risultati ottenuti non invogliano a continuare. Da tutta questa gentilezza e amicizia sono infatti usciti i totalitarismi, due guerre mondiali, disordine e smarrimento diffuso, e un generale indebolimento del mondo occidentale. Come evitare che la storia si ripeta? Uscire dalla falsificazione del "siamo ottimi amici", dichiarando le diversità e anche i conflitti e ripristinando l'eterna categoria dell'amico-nemico forse non basterà, ma è un passo necessario per rimettere l'uomo naturale in contatto con l'uomo autenticamente sociale. Che non è il suddito ubbidiente e politicamente corretto ma colui che crede in ciò che fa, si appassiona, si mette in gioco nella realtà, anche arrabbiandosi. E dopo è contento o magari furibondo, comunque non nascosto dietro all'ambiguità, che fa perdere forza a lui, all'altro e alla società intera. Una posizione più franca nella relazione con gli altri non ha effetti solo sulla politica, ma su ogni aspetto dell'esperienza, a cominciare dalla vita affettiva e dalla sessualità.

È il mistero, il fascino e anche l'inquietudine della differenza che suscita la passione per l'altro e quindi la generazione del nuovo (i bambini), che altrimenti terrorizza. L'energia della scoperta e della conquista che muove l'uomo verso la donna è strettamente imparentata con la dialettica amiconemico. La spinta che ci spinge verso l'altro è infatti la stessa nell'amore e nella guerra (come recita - tra gli altri un detto francese: " à l'amour comme à la guerre"). In entrambi i casi la forza protagonista è Eros, un dio armato di arco e frecce, come ha ricordato anche Franco Fornari nei suoi studi sulla guerra, condotti spesso con pacifisti di livello internazionale. Se lo si dimentica si cade in quel "romanticismo meschino" (come lo chiamava Pierre Drieu de La Rochelle) cui si ispira non solo la cattiva letteratura ma anche la cattiva politica della modernità, che cerca di nascondere i propri conflitti di interesse dietro i buoni sentimenti. Una falsificazione che rende "debole" l'uomo e la donna di oggi (accontentando il "pensiero debole" teorizzato da Gianni Vattimo ), e finisce con lo spegnere l'Eros teso a generare bambini e mondi nuovi, per ripiegare sulla sessualità tecnicizzata, egoista e impaurita da ogni cambiamento, rinnovamento e dono di sé, come quella delle coppie "free child", "libere da figli", magistralmente raccontate da Borgonovo qualche giorno fa su “La Verità”.

L'irruente Trump, che al mattino restaura le categorie amico e nemico, piazzando l'ipocrita e educata Europa tra i nemici, e al pomeriggio chiude una guerra fredda (in atto dagli anni 50 del 900), cui neppure la fine dell'Unione sovietica era riuscita a porre termine, irrita e scandalizza le élites di potere. Ma (come notavano sia il profondo e delicato Walter Benjamin che il duro Carl Schmitt), di frivola superficialità e pesanti e ben celati interessi si può morire.