lunedì 23 luglio 2018

LA NOTTE DELLE ÉLITE E L’ALBA POPULISTA



20 luglio 2018 ilsole24ore

Fuori dai giochi, dai loro tackle quotidiani, che dire delle élite politiche italiane vecchie e nuove? La formazione del governo populista scandisce il tramonto della democrazia dei partiti, collettori di credenze e di larghi interessi sociali e civili. Apre la possibilità di forgiare un cambio di regime (democratico), se la legislatura si protrarrà, a dispetto dei non pochi dubbi sulla solidità della coalizione di governo (“i piedi in due staffe” di Salvini).
Turner : navi nella tempesta
Sul declino dell’egemonia dei partiti sappiamo: la sua decadenza accompagnata dall’eclissi delle grandi credenze e motivazioni d’appartenenza ideologica; la sua metamorfosi post-ideologica, mediatica, personalizzata, finanziarizzata, a cui non ha resistito. Ha smarrito il senso profondo del gioco destra-sinistra, è quasi evaporata nella politica senza profondità che si forgia su semplificazioni e slogan che si irradiano in superficie.
La democrazia dei partiti ha sfornato un’élite politica che è apparsa ai cittadini incapace di garantire crescita e protezione dalle turbolenze di mercato, sempre più autoreferenziale, senza visione per migliorare, senza coraggio di cambiare, mentre negli ultimi trent’anni tutto intorno è cambiato. È apparsa distante, svuotata di contenuti progressivi, inadatta a brillare di luce propria se non attraverso il capo, smontata dall’astensionismo, sbaragliata dai populismi.

Perché l’alternanza destra-sinistra si era ormai persa nell’urto collusivo della grande coalizione. Non era più in grado di mediare l’aporia della nostra democrazia, tra una maggioranza di rappresentati e una minoranza di rappresentanti, già evidenziata da studiosi del calibro di Robert Dahl e Norberto Bobbio. In assenza di contenuti di destra e di sinistra sui quali contendere e con una politica sfiduciata dai cittadini, è salito in superficie il vuoto pneumatico tra “popolo” e un’élite democratica senza autorevolezza, un ossimoro in implosione. La cometa Renzi ne ha ritardato il collasso, perché finalmente era emerso un giovane a capo di un Paese invecchiato e di una classe dirigente quasi inamovibile. Finalmente un rottamatore delle inconcludenze del passato. Il primo Renzi era perciò in profonda sintonia con il mood sociale. Non l’ha saputa mantenere: le sue scelte per promuovere nuove élite traenti, il cerchio magico, si è risolto in un déjà-vu in molti “passati” del Paese. Ha cercato di comandare la linea “tutti dietro il capo”, ma dietro c’era ormai un’élite politica inconsistente, in preda alla sua litigiosità interna. Nel vuoto dell’illuminazione del leader, è riapparsa la querula implosione di un’élite ripiegata su interessi di bottega, testimonianza dell’incapacità dei partiti – ridotti a etichette – di selezionare una classe dirigente in grado di tessere il suo destino personale sul telaio dello sviluppo del Paese.
Della democrazia populista sappiamo poco. Conosciamo i contenuti destabilizzanti della protesta populista. Ora però la musica cambia. Si fa governo di un grande Paese europeo, già considerato dai “nord-continentali” the sick man of Europe, l’ultima ruota del carro, per il suo debito pubblico e, oggi, per il suo governo populista. Sappiamo che il populismo colma il collasso dell’onda, la risacca, delle élite democratiche in crisi, proponendo leader, come Salvini e Di Maio, capaci di mirare direttamente la pancia del popolo. Gaetano Mosca sosterrebbe che è un abbaglio considerare la vittoria populista come fosse del popolo sulle élite: è una pia illusione pensare che i populisti potranno realizzare gran parte delle promesse, perché, al governo, essi stessi, per colmare l’inesperienza, copiano prassi inveterate e le vecchie élite, che avevano finora criticato. Ripropongono quell’aporia che è nella democrazia rappresentativa, per cui è sempre la minoranza a governare la maggioranza. Nel prossimo futuro, assisteremo non più al pericoloso teatrino del conflitto tra élite e popolo, ma a un probabile braccio di ferro tra i leader populisti e poi, forse, con le nuove élite democratiche, se sapranno rigenerarsi a sinistra e a destra.
Per ora, dal 4 marzo è uscita una nuova classe politica che, a dispetto della sua inesperienza, si è assunta una responsabilità di governo. Deve ancora dimostrare tutto. L’avvio non felice (l’ossessione dei migranti e un decreto dignità imbarazzante) è lo scotto dell’inesperienza dei nuovi eletti al governo centrale. Per la Lega, il discorso è diverso, avvezza com’è almeno all’amministrazione delle autonomie locali. Tuttavia, anche la nuova Lega conferma che il populismo non si cura delle proprie élite, ma del proprio leader. La Lega che ha messo nel mirino Bruxelles, anziché Roma, è del “decisore” Salvini. Anche il M5S è tutto schierato dietro al “negoziatore” Di Maio.

C’È UN VESCOVO A VENTIMIGLIA



 Il Vescovo di Ventimiglia, Mons. Antonio Suetta,            a partire dall'esperienza della sua diocesi, ha risposto ai 600 firmatari della Lettera ai Vescovi Italiani del corrente mese di luglio (avente a tema l'immigrazione),  e ha inviato la lettera anche al Cardinale Bassetti, Presidente della Cei, e alla Segreteria Generale della conferenza Episcopale italiana.

Riportiamo innanzitutto le considerazioni finali, e il testo della lettera può essere letto integralmente in calce.
Il Vescovo Suetta sugli scogli fra i migranti respinti dalla Francia

“….. In terzo luogo, i migranti, già vittime di ingiustizie nei loro Paesi d’origine, costretti a subire sfruttamento e gravi difficoltà nei Paesi di arrivo, soprattutto quando scoprono che non ci sono le condizioni di fortuna sperate, sono vittime insieme alle popolazioni occidentali di “piani orchestrati e preparati da lungo tempo da parte dei poteri internazionali per cambiare radicalmente l’identità cristiana e nazionale dei popoli europei”, come recentemente ha ricordato Mons. A. Schneider. 
Senza ossessioni di complotti, ma anche senza irresponsabili ingenuità, non possiamo nascondere che siano in atto tanti progetti e tentativi volti annullare le identità dei popoli, perché ciascun uomo sia più solo e debole, sganciato dai riferimenti culturali di una comunità in cui possa identificarsi fino in fondo: lo possiamo costatare dalla produzione legislativa europea sempre più lontana e avversa alle radici della nostra civiltà. Se da una parte possiamo concordare che oggi non vi sia una vera e propria guerra tra le religioni, dobbiamo però riconoscere che è in atto una “guerra” contro le religioni, ogni religione, e contro il riferimento a Dio nella vita dell’uomo. Spesso, giunti in Europa, i migranti sentono anche il peso e la fatica di una visione di vita e di uno stile non appartenenti alla loro storia e identità, siano essi cristiani, islamici o di altra fede religiosa.
Come Vescovo, sento forte la responsabilità di custodire il gregge che mi è stato affidato e di custodire la continuità dell’opera della Chiesa nel nostro problematico contesto sociale, presidio e baluardo di autentica promozione umana. Personalmente, sono convinto che il futuro dell’Europa non possa e non debba rischiare verso una sostituzione etnica, involontaria o meno che sia.
Tutte queste ragioni, che in breve ho cercato di enucleare, danno ragione di quanto è affermato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che al n. 2241, compendia la saggezza, la prudenza e la lungimiranza della Chiesa: “Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale, che pone l’ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. L’immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri.”
A questi principi di buon senso e sapienza cristiana suggerisco di conformare l’agire sociale, illuminati dal Magistero della Chiesa, del Papa e dei vostri Vescovi.
Consegno questo messaggio con la più ampia libertà del cuore, non avendo da difendere posizioni di privilegio, strutture o posizioni politiche, ma guardando alla complessità del fenomeno in gioco, e alla varietà degli elementi di cui occorre tener conto affinché in questa impegnativa congiuntura, come sempre, il Vangelo di Gesù Cristo sia la bussola che orienta il cammino della Chiesa e degli uomini di buona volontà per il bene integrale del singolo e dell’umanità intera.
+ Antonio Suetta
Vescovo di Ventimiglia – San Remo

 segue testo integrale della lettera

domenica 22 luglio 2018

PERCHÉ LA NAZIONE HA ANCORA UN SENSO



Il tema della patria è stato regalato a chi manipolandolo lo ha utilizzato per i propri scopi: è un inganno al quale non basta opporre il progetto europeista


L’Unione europea è visibilmente in crisi, non riesce a fare alcun passo avanti in quanto soggetto politico (anzi negli ultimi tempi ne ha fatto parecchi indietro), ma l’ideologia europeista almeno un successo importante può continuare comunque a vantarlo. Essere riuscita a delegittimare alla radice la dimensione della nazione in generale. Essere riuscita a farla passare come responsabile di tutte le sciagure novecentesche e come il ricettacolo delle più inquietanti ambiguità ideologiche, tipo quelle messe in circolazione da Matteo Salvini con il suo sciovinismo xenofobo a base di «prima gli
italiani» e «padroni in casa nostra». Il risultato è che in pochi Paesi come l’Italia ogni riferimento alla nazione appare, ormai, come il potenziale preludio di una deriva sovranista, di una dichiarazione di guerra antieuropea, come sinonimo di sopraffazione nazionalistica. Non abbiamo forse sentito ripetere fino alla nausea, ad esempio, e dalle cattedre più alte, che gli Stati nazionali significano inevitabilmente la guerra? Come se gli esseri umani avessero dovuto aspettare la Marsigliese, il Kaiser o Mussolini per trovare il motivo di scannarsi. Come se prima dell’esistenza dei suddetti Stati nazionali di guerre non ce ne fossero mai state, e come se i Romani, l’impero turco, gli Aztechi, gli Arabi dell’epoca di Maometto o mille altri non avessero tutti coperto di stragi e di morti ammazzati il proprio cammino nella storia.

Naturalmente l’ostracismo comminato alla nazione ha avuto effetto non tanto sulla gente qualunque, sulla maggioranza dell’opinione pubblica quanto nei confronti delle élites, della classe dirigente. Anche perché l’Italia, si sa, non è la Francia. Da noi la cultura della nazione era già stata messa abbastanza nell’angolo dalla storia: non per nulla la Repubblica, nata e vissuta con l’obbligo di differenziarsi dal fascismo specialmente su questo punto, ha intrattenuto a lungo un rapporto per così dire minimalista con la nazione. Come del resto le sue maggiori culture politiche fondatrici (quella cattolica e quella comunista), il cui sfondo ideologico non aveva certo molto a che fare con la nazione.

Cresciuto per decenni in questa atmosfera, l’establishment italiano — in prima fila l’establishment culturale — si è dunque trovato prontissimo, dopo la fine della Dc e del Pci, a gettarsi nell’infatuazione europeistica più acritica. Trovandovi nuovo alimento non solo alla propria antica indifferenza, al suo disinteresse nei confronti di una dimensione nazionale giudicata ormai una sorta di inutile ectoplasma, ma per spingersi addirittura fino alla rinuncia della sovranità in ambiti delicatissimi come la formazione delle leggi. Mi domando ad esempio quante altre Costituzioni europee siano state modificate come lo è stata quella italiana nel 2001 con la nuova versione dell’articolo 117, che sottomette la potestà legislativa al rispetto, oltre che come ovvio della Costituzione stessa, anche «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario». (Sulla stessa linea, pur nella sua evidente vacuità prescrittiva, anche il primo comma aggiunto nel 2012 all’art. 97, secondo il quale «le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico»).

È accaduto così, attraverso queste vie e mille altre, che il tema della nazione sia stato pian piano regalato a chi, manipolandolo ed estremizzandolo, combinandolo con i cascami del populismo, se ne è sempre più servito per i propri scopi agitatori. Espulsa dalla cultura ufficiale del Paese, tenuta in non cale dal circuito della formazione scolastica, non più elemento vivo costitutivo del modo d’essere e di pensare della classe dirigente, la nazione (o meglio la sua caricatura) è fatalmente divenuta patrimonio e strumento di una parte. La quale non ci ha messo molto ad accorgersi della sua capacità di aggregare, di commuovere, e anche di illudere, d’ingannare, se del caso di trascinare alla più vile prepotenza.

Cioè di trasformarsi in nazionalismo, appunto. Ma di chi la colpa principale mi chiedo, se non di coloro che, pur potendo e sapendo, per cecità ideologica hanno omesso di ricordare che cosa ha veramente rappresentato l’idea di nazione? Di illustrare e di far valere nella discussione pubblica la reale portata storica, le innumerevoli conseguenze positive di quell’idea?

Senza la quale, tanto per dirne qualcuna, non ci sarebbero stati il liberalismo e la democrazia moderna, la libertà religiosa, le folle di esclusi e di miserabili trasformate in cittadini, le elezioni a suffragio universale. Senza la quale non ci sarebbe stata la scuola obbligatoria e l’alfabetizzazione di massa, il Welfare e la sanità pubblica, e poi la rottura di mille gerarchie pietrificate, di tante esclusioni corporative. Senza la quale infine — scusate se è poco — non ci sarebbe stata neppure l’Italia. Cioè questo Stato scalcagnato e pieno di magagne grazie al quale, bene o male, però, nel giro di tre o quattro generazioni (una goccia nel mare della storia) un popolo di decine di milioni di persone ha visto la propria vita migliorare, cambiare come dalla notte al giorno, in una misura che non avrebbe mai osato sperare prima.

All’inganno nazionalistico che incalza e che cresce non vale opporre la speranza sbiadita e senza voce, il disegno dai contorni tuttora imprecisi e imprecisabili, del progetto europeistico. Va opposta prima di ogni altra cosa, in tutta la sua forza storica, la cultura della nazione democratica. Che più volte — ricordiamo anche questo — ha dimostrato anche di sapere aprirsi al mondo superando i confini della propria patria con la sua carica emancipatrice volta all’umanità.

CORRIERE DELLA SERA 19 luglio 2018 


VIVERE NELLA MENZOGNA PUO’ ESSERE ANCHE CONFORTEVOLE, ANCHE SE CI DISUMANIZZA


JOHN WATERS
A volte, digerire le ultime notizie dello scardinamento del mondo, si è tentati di cadere nella disperazione. Ho provato questa sensazione molto di recente, leggendo una notizia di un commentatore conservatore che era stato interrogato dall’FBI perché aveva postato una battuta spiritosa su Twitter prendendo in giro la Campagna per i Diritti Umani per aver cercato di convincere le imprese a mettere gli arcobaleni in qualche luogo visibile sui loro locali, presumibilmente come un indicatore di consenso all’agenda LGBT.

“Questo è un bell’affare. Peccato che sia successo qualcosa”, ha commentato Austin Ruse, presidente del Centro per la Famiglia e i Diritti Umani. E’ stato una evidente improvvisazione sulle metodologie di protezione in stile mafioso, ma si può contare su tipi di guerrieri della giustizia sociale per non fare barzellette. Ruse è stato segnalato dalla Campagna per i Diritti Umani e di conseguenza ha ricevuto una visita e successivamente una telefonata da un funzionario dell’FBI. Per fortuna, l’ufficiale sapeva distinguere uno scherzo da un ricatto e così è finita lì.

Ruse ha successivamente osservato che la Campagna per i Diritti Umani ha preso l’abitudine di attaccare i cristiani che difendono la morale sessuale tradizionale. Egli ha approfondito (l’accaduto):

Funziona così: Un locale di un ristorante è di proprietà di un fedele cattolico che si oppone all’agenda gay.  I gay notano che non ha l’arcobaleno gay apposto alla sua finestra. “Perché non hai l’arcobaleno sulla tua finestra”, chiedono. “Sei omofobo? Vuoi davvero che la comunità locale lo venga a sapere?” Lo puoi vedere svilupparsi da quel momento. Viene preso di mira dai ragazzi bulli locali che procedono a rendere la sua vita miserabile, forse danneggiando e anche facendo chiudere la sua attività.
Questo tipo di cose stanno crescendo ad un ritmo che comincia ad essere davvero molto inquietante. Non solo queste persone non tollerano alcun dissenso dai loro programmi, ma non si fermano fino a quando chi non condivide la loro agenda non finisce male. E la burocrazia ovunque gioca e li tratta come burloni allegri.

Il lunedì dopo la Marcia del Pride a Dublino, i giornali irlandesi hanno riportato immagini di membri dell’An Garda Siochána (la polizia) che posavano e saltavano con omosessuali vestiti con abiti completi da schiavi nazisti. L’anno scorso ho avuto occasione di riferire di un incidente in cui diversi tweeter (da parte di persone appartenenti a) LGBT mi avevano minacciato di violenza. I poliziotti sono stati gentili, ma hanno spiegato che la legge deve ancora recuperare il ritardo su questo tipo di molestie. Al momento li ho presi in parola, ma ora non sono così sicuro. Questo non è sano.

L’esperienza di Ruse mi ha portato alla mente la storia di 
Vaclav Havel (politico, drammaturgo, saggista e poeta cecoslovacco, dissidente sotto il regime marxista, subì 5 anni di prigione, ma poi, alla caduta del regime dittatoriale, divenne l’ultimo presidente della repubblica Cecoslovacca ed il primo della repubblica Ceca, ndr), nel suo saggio “Il potere dei senza potere“, a proposito del fruttivendolo che mette il manifesto alla finestra con lo slogan “Lavoratori del mondo unitevi“. Havel ci porta nella mente del fruttivendolo, che espone il manifesto essenzialmente come gesto di obbedienza. Il segno potrebbe leggersi facilmente come: “Ho paura e quindi sono senza dubbio obbediente” – ma questo farebbe perdere al fruttivendolo la faccia. Il manifesto “Lavoratori del mondo” serve sia le esigenze del fruttivendolo che quelle del regime. Allo stesso modo avviene con le etichette adesive con l’arcobaleno. Il manifesto o l’adesivo diventa così un altro tipo di segno: dell’operazione all’interno di una cultura di una ideologia. Questa è la sua vera funzione.

L’ideologia, spiega Havel, è il “collante” quasi metafisico che tiene insieme un sistema di potere totalitario, rendendo complici tutti coloro che in verità ne sono le vittime. Lo scopo dell’ideologia è quello di disumanizzare, di persuadere le persone a rinunciare alla propria identità umana a favore di un’identità corporativa. L’ideologia fornisce i “guanti” con cui il sistema raggiunge il suo obiettivo in modi che appaiono esteriormente privi di coercizione. Consente di armonizzare l’essere umano con il sistema, ma questa schiavitù diventa invisibile, nascosta dietro alti motivi e ideali. L’ideologia pretende che le esigenze del sistema derivino da quelle della vita.

L’ideologia offre agli esseri umani anche l’illusione dell’identità, della dignità e della moralità, “rendendo loro più facile partecipare” a tutte queste cose.  L’autoconservazione del fruttivendolo è quindi subordinata ad “un automatismo cieco che fa avanzare il sistema“. Esponendo il manifesto, il fruttivendolo collude con il proprio schiavismo. Havel parla del “panorama” di slogan che disseminano il paesaggio del rituale della dittatura di stampo sovietico.

sabato 7 luglio 2018

IL DOGMA VIVE IN TE


 LEONARDO LUGARESI
The dogma lives loudly within you, and that's of concern. Con queste parole la senatrice democratica Dianne Feinstein, nel settembre scorso durante un'udienza pubblica di una commissione del Senato degli Stati Uniti ha espresso la sua opposizione alla nomina di Amy Coney Barrett a giudice della corte di appello in quanto cattolica. Bisogna essere grati alla senatrice Feinstein per la limpida chiarezza con cui ha espresso la sua posizione: era dai tempi dell'impero romano che non si udiva, da parte di un'autorità pubblica, una così esplicita dichiarazione di ostilità alla fede cristiana.

Il Nemico conosce profondamente il cristianesimo, sa bene ciò che odia, ed è in grado di ispirare frasi di assoluta perfezione e di sinistra bellezza, come quella citata. Se volete ascoltarla in originale, dalle labbra della senatrice, la trovate qui: https://www.youtube.com/watch?v=PFewYEyoIa0.
Ora pare che il presidente Trump stia pensando di nominare la signora Barrett giudice della corte supremo: http://www.lanuovabq.it/it/cattolica-e-dogmatica-la-barrett-alla-corte-suprema. Speriamo che sia vero e che ce la faccia.
In ogni caso, la signora Barrett ai miei occhi ha già il merito di aver provocato l'enunciazione pubblica di quel bellissimo pensiero, una specie di medaglia al valor militare di cui tutti noi dovremmo desiderare di poterci un giorno fregiare: «Il dogma vive con forza dentro di te, e questo è un problema».
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