Il tema della patria è stato
regalato a chi manipolandolo lo ha utilizzato per i propri scopi: è un inganno
al quale non basta opporre il progetto europeista
L’Unione
europea è visibilmente in crisi, non riesce a fare alcun passo avanti in quanto soggetto politico (anzi
negli ultimi tempi ne ha fatto parecchi indietro), ma l’ideologia europeista
almeno un successo importante può continuare comunque a vantarlo. Essere
riuscita a delegittimare alla radice la dimensione della nazione in generale.
Essere riuscita a farla passare come responsabile di tutte le sciagure
novecentesche e come il ricettacolo delle più inquietanti ambiguità
ideologiche, tipo quelle messe in circolazione da Matteo Salvini con il suo
sciovinismo xenofobo a base di «prima gli
italiani» e «padroni in casa nostra».
Il risultato è che in pochi Paesi come l’Italia ogni riferimento alla nazione
appare, ormai, come il potenziale preludio di una deriva sovranista, di una
dichiarazione di guerra antieuropea, come sinonimo di sopraffazione
nazionalistica. Non abbiamo forse sentito ripetere fino alla nausea, ad
esempio, e dalle cattedre più alte, che gli Stati nazionali significano
inevitabilmente la guerra? Come se gli esseri umani avessero dovuto aspettare
la Marsigliese, il Kaiser o Mussolini per trovare il motivo di scannarsi. Come
se prima dell’esistenza dei suddetti Stati nazionali di guerre non ce ne
fossero mai state, e come se i Romani, l’impero turco, gli Aztechi, gli Arabi
dell’epoca di Maometto o mille altri non avessero tutti coperto di stragi e di
morti ammazzati il proprio cammino nella storia.
Naturalmente
l’ostracismo comminato alla nazione ha avuto effetto non tanto sulla gente qualunque, sulla
maggioranza dell’opinione pubblica quanto nei confronti delle élites, della
classe dirigente. Anche perché l’Italia, si sa, non è la Francia. Da noi la
cultura della nazione era già stata messa abbastanza nell’angolo dalla storia:
non per nulla la Repubblica, nata e vissuta con l’obbligo di differenziarsi dal
fascismo specialmente su questo punto, ha intrattenuto a lungo un rapporto per
così dire minimalista con la nazione. Come del resto le sue maggiori culture
politiche fondatrici (quella cattolica e quella comunista), il cui sfondo
ideologico non aveva certo molto a che fare con la nazione.
Cresciuto
per decenni in questa atmosfera, l’establishment italiano — in prima fila l’establishment culturale — si è
dunque trovato prontissimo, dopo la fine della Dc e del Pci, a gettarsi
nell’infatuazione europeistica più acritica. Trovandovi nuovo alimento non solo
alla propria antica indifferenza, al suo disinteresse nei confronti di una
dimensione nazionale giudicata ormai una sorta di inutile ectoplasma, ma per
spingersi addirittura fino alla rinuncia della sovranità in ambiti
delicatissimi come la formazione delle leggi. Mi domando ad esempio quante
altre Costituzioni europee siano state modificate come lo è stata quella
italiana nel 2001 con la nuova versione dell’articolo 117, che sottomette la
potestà legislativa al rispetto, oltre che come ovvio della Costituzione
stessa, anche «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario». (Sulla
stessa linea, pur nella sua evidente vacuità prescrittiva, anche il primo comma
aggiunto nel 2012 all’art. 97, secondo il quale «le pubbliche amministrazioni,
in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea, assicurano l’equilibrio dei
bilanci e la sostenibilità del debito pubblico»).
È
accaduto così, attraverso queste vie e mille altre, che il tema della
nazione sia stato pian piano regalato a chi, manipolandolo ed estremizzandolo,
combinandolo con i cascami del populismo, se ne è sempre più servito per i
propri scopi agitatori. Espulsa dalla cultura ufficiale del Paese, tenuta in
non cale dal circuito della formazione scolastica, non più elemento vivo
costitutivo del modo d’essere e di pensare della classe dirigente, la nazione
(o meglio la sua caricatura) è fatalmente divenuta patrimonio e strumento di
una parte. La quale non ci ha messo molto ad accorgersi della sua capacità di aggregare,
di commuovere, e anche di illudere, d’ingannare, se del caso di trascinare alla
più vile prepotenza.
Cioè di
trasformarsi in nazionalismo, appunto. Ma di chi la colpa principale mi chiedo, se non di coloro che,
pur potendo e sapendo, per cecità ideologica hanno omesso di ricordare che cosa
ha veramente rappresentato l’idea di nazione? Di illustrare e di far valere
nella discussione pubblica la reale portata storica, le innumerevoli
conseguenze positive di quell’idea?
Senza
la quale, tanto per dirne qualcuna, non ci sarebbero stati il liberalismo e la democrazia moderna, la libertà
religiosa, le folle di esclusi e di miserabili trasformate in cittadini, le
elezioni a suffragio universale. Senza la quale non ci sarebbe stata la scuola
obbligatoria e l’alfabetizzazione di massa, il Welfare e la sanità pubblica, e
poi la rottura di mille gerarchie pietrificate, di tante esclusioni
corporative. Senza la quale infine — scusate se è poco — non ci sarebbe stata
neppure l’Italia. Cioè questo Stato scalcagnato e pieno di magagne grazie al
quale, bene o male, però, nel giro di tre o quattro generazioni (una goccia nel
mare della storia) un popolo di decine di milioni di persone ha visto la
propria vita migliorare, cambiare come dalla notte al giorno, in una misura che
non avrebbe mai osato sperare prima.
All’inganno
nazionalistico che incalza e che cresce non vale opporre la speranza sbiadita e senza voce, il disegno
dai contorni tuttora imprecisi e imprecisabili, del progetto europeistico. Va
opposta prima di ogni altra cosa, in tutta la sua forza storica, la cultura
della nazione democratica. Che più volte — ricordiamo anche questo — ha
dimostrato anche di sapere aprirsi al mondo superando i confini della propria
patria con la sua carica emancipatrice volta all’umanità.
CORRIERE DELLA SERA 19 luglio 2018
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