Riportiamo innanzitutto le
considerazioni finali, e il testo della lettera può essere letto integralmente
in calce.
Il Vescovo Suetta sugli scogli fra i migranti respinti dalla Francia |
“….. In terzo luogo, i migranti, già vittime di
ingiustizie nei loro Paesi d’origine, costretti a subire sfruttamento e gravi
difficoltà nei Paesi di arrivo, soprattutto quando scoprono che non ci sono le
condizioni di fortuna sperate, sono vittime insieme alle popolazioni
occidentali di “piani orchestrati e preparati da lungo tempo da parte dei
poteri internazionali per cambiare radicalmente l’identità cristiana e
nazionale dei popoli europei”, come recentemente ha ricordato Mons. A.
Schneider.
Senza ossessioni di complotti, ma anche senza irresponsabili
ingenuità, non possiamo nascondere che siano in atto tanti progetti e tentativi
volti annullare le identità dei popoli, perché ciascun uomo sia più solo e
debole, sganciato dai riferimenti culturali di una comunità in cui possa
identificarsi fino in fondo: lo possiamo costatare dalla produzione legislativa
europea sempre più lontana e avversa alle radici della nostra civiltà. Se da
una parte possiamo concordare che oggi non vi sia una vera e propria guerra tra
le religioni, dobbiamo però riconoscere che è in atto una “guerra” contro le
religioni, ogni religione, e contro il riferimento a Dio nella vita dell’uomo.
Spesso, giunti in Europa, i migranti sentono anche il peso e la fatica di una
visione di vita e di uno stile non appartenenti alla loro storia e identità,
siano essi cristiani, islamici o di altra fede religiosa.
Come
Vescovo, sento forte la responsabilità di custodire il gregge che mi è stato
affidato e di custodire la continuità dell’opera della Chiesa nel nostro
problematico contesto sociale, presidio e baluardo di autentica promozione
umana. Personalmente, sono convinto che il futuro dell’Europa non possa e non
debba rischiare verso una sostituzione etnica, involontaria o meno che sia.
Tutte
queste ragioni, che in breve ho cercato di enucleare, danno ragione di quanto è
affermato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che al n. 2241, compendia la
saggezza, la prudenza e la lungimiranza della Chiesa: “Le nazioni più ricche
sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla
ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è
possibile trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura
che venga rispettato il diritto naturale, che pone l’ospite sotto la protezione
di coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di
cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di
immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei
doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. L’immigrato è
tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del
paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri.”
A
questi principi di buon senso e sapienza cristiana suggerisco di conformare
l’agire sociale, illuminati dal Magistero della Chiesa, del Papa e dei vostri Vescovi.
Consegno
questo messaggio con la più ampia libertà del cuore, non avendo da difendere
posizioni di privilegio, strutture o posizioni politiche, ma guardando alla
complessità del fenomeno in gioco, e alla varietà degli elementi di cui occorre
tener conto affinché in questa impegnativa congiuntura, come sempre, il Vangelo
di Gesù Cristo sia la bussola che orienta il cammino della Chiesa e degli
uomini di buona volontà per il bene integrale del singolo e dell’umanità
intera.
+
Antonio Suetta
Vescovo di Ventimiglia – San Remo
Vescovo di Ventimiglia – San Remo
Carissimi,
leggendo con attenzione la Vostra lettera, ho ritenuto di
dover rispondere alle Vostre riflessioni innanzitutto a partire dall’esperienza
della Chiesa di Ventimiglia San Remo, da qualche anno fortemente coinvolta dal
fenomeno dell’immigrazione, passando da qui una delle principali rotte dei
migranti prevalentemente africani e provenienti dal Sud Italia. Spesso
purtroppo siamo stati testimoni di drammi consumati alla frontiera
italo-francese, dove molti migranti giungono nel desiderio di oltrepassare il
confine presidiato dalla gendarmeria, alcuni scappando da situazioni
pericolose, altri per ricongiungersi a familiari, altri alla ricerca di un
lavoro, altri ancora per trovare fortuna e migliori condizioni di vita. Su
questo confine si sono consumate grandi tragedie umane, per la morte violenta
di uomini e donne (anche incinte) rimaste vittime di incidenti nel tentativo di
oltrepassare lo sbarramento francese, percorrendo di notte i binari della
ferrovia, la galleria dell’autostrada o il “sentiero della morte” sui monti. A
questo si aggiunga la proliferazione di situazioni di criminalità e di
business, ad opera dei cosiddetti “passeurs”.
Questa esperienza, unita all’ascolto dei tanti immigrati
che ho potuto incontrare nelle varie strutture che la nostra Chiesa mette a
disposizione, con il coinvolgimento di tanti volontari e la generosità di tanti
fedeli, mi consente di fare alcune riflessioni in merito alla Vostra lettera.
Rifiutare, maltrattare, sfruttare quanti si trovano in queste condizioni è intollerabile, come anche il negare l’assistenza e le cure necessarie per la sopravvivenza è contrario all’insegnamento del Vangelo e al rispetto di ogni diritto umano fondamentale.
Rifiutare, maltrattare, sfruttare quanti si trovano in queste condizioni è intollerabile, come anche il negare l’assistenza e le cure necessarie per la sopravvivenza è contrario all’insegnamento del Vangelo e al rispetto di ogni diritto umano fondamentale.
Mi sono chiesto più volte: quale può essere il ruolo
profetico della Chiesa in questa situazione? Certamente, abbiamo dato, e
continuiamo a farlo, pasti caldi, riparo e supporti vari (mediazione,
orientamento, soprattutto umanità) a chi versa in condizioni di difficoltà e ha
bisogno del necessario per vivere. Ma può bastare questo per risolvere un
problema di proporzioni sempre più gravi?
La Chiesa guarda al bene integrale dell’uomo e di tutti gli uomini, tenendo conto che la sua azione propria è di natura religiosa e morale, altrimenti non ci sarebbe nessuna differenza con una qualsiasi delle ONG che si attivano per il trasporto dei migranti nel Mediterraneo. La Chiesa è nata per perpetuare la presenza e l’azione di Gesù Cristo Salvatore, essa parla alle coscienze e al cuore di ogni uomo, traducendo e incarnando il suo annuncio in azioni concrete. Rispetto ai problemi contingenti, come ricordava San Giovanni Paolo II, intervenendo in un Simposio sulla Dottrina Sociale della Chiesa nel 1982: “la Chiesa non ha competenze dirette per proporre soluzioni tecniche di natura economico-politica; tuttavia, essa invita a una revisione costante di qualsiasi sistema, secondo il criterio della dignità della persona umana”. La Chiesa, cioè, quanto al suo magistero, agisce non in nome di una competenza tecnica, ma attraverso una seria riflessione cristiana che illumina i temi della realtà sociale.
La Chiesa guarda al bene integrale dell’uomo e di tutti gli uomini, tenendo conto che la sua azione propria è di natura religiosa e morale, altrimenti non ci sarebbe nessuna differenza con una qualsiasi delle ONG che si attivano per il trasporto dei migranti nel Mediterraneo. La Chiesa è nata per perpetuare la presenza e l’azione di Gesù Cristo Salvatore, essa parla alle coscienze e al cuore di ogni uomo, traducendo e incarnando il suo annuncio in azioni concrete. Rispetto ai problemi contingenti, come ricordava San Giovanni Paolo II, intervenendo in un Simposio sulla Dottrina Sociale della Chiesa nel 1982: “la Chiesa non ha competenze dirette per proporre soluzioni tecniche di natura economico-politica; tuttavia, essa invita a una revisione costante di qualsiasi sistema, secondo il criterio della dignità della persona umana”. La Chiesa, cioè, quanto al suo magistero, agisce non in nome di una competenza tecnica, ma attraverso una seria riflessione cristiana che illumina i temi della realtà sociale.
Di fronte a situazioni complesse di carattere politico e
sociale, spesso i fedeli, individualmente o in gruppi particolari, possono
assumere legittime e diversificate iniziative, trovando sempre però nel Vangelo
e nell’insegnamento sociale della Chiesa i principi ispiratori delle loro
azioni e delle loro scelte politiche. Le scelte e i progetti dei singoli o dei
gruppi di ispirazione cristiana possono divergere, pur agendo da cristiani,
senza per questo pretendere di agire a nome della Chiesa o di imporre
un’interpretazione esclusiva e autentica del Vangelo. La Gaudium et spes, al n.
43, ha espresso questo principio in modo inequivoco: “Per lo più sarà la stessa
visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una
determinata soluzione. Tuttavia altri fedeli altrettanto sinceramente potranno
esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, ciò che succede
abbastanza spesso legittimamente. Ché se le soluzioni proposte da un lato o
dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti
collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che a
nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione
l’autorità della Chiesa”.
In un contesto complesso e pluralista, compito della
Chiesa è indicare principi morali perché le comunità cristiane possano svolgere
il loro ruolo di mediatrici nella ricerca di soluzioni concrete adeguate alle
realtà locali. Lo ha mirabilmente espresso il Beato Paolo VI al n. 4 di
Octogesima adveniens: “Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile
pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del
resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione. Spetta
alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese,
chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi di
riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento
sociale della Chiesa, quale è stato elaborato nel corso della storia, e
particolarmente in questa era industriale”.
Tali precisazioni sono importanti per giungere al cuore
della mia riflessione, che ruota attorno alla seguente affermazione:
l’esperienza dell’emigrazione è dolorosa per ogni uomo; soffre chi è costretto
a lasciare la famiglia, la casa, la terra, abbandonando affetti, costumi,
lingua, cultura e tradizioni che compongono la propria identità; soffre la
famiglia privata di un suo componente e smembrata; soffre la terra depauperata
spesso delle sue risorse migliori. A ciò si affiancano le difficoltà dei popoli
occidentali nel realizzare una difficile integrazione, spesso preoccupati – non
sempre senza ragione – di preservare la loro sicurezza e la loro identità
culturale e religiosa.
Le lacrime dei tanti giovani immigrati che ho incontrato in questi anni danno ragione della complessità della vicenda.
Le lacrime dei tanti giovani immigrati che ho incontrato in questi anni danno ragione della complessità della vicenda.
Comprendo in questo senso le parole di San Giovanni Paolo
II, tratte dal Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni del 1998: “il
diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però
diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori
che spingono all’emigrazione”. Un principio di giustizia sociale ribadito anche
da Benedetto XVI che, nel Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del
Rifugiato del 2013, ha affermato il “diritto a non emigrare, cioè a essere in
condizione di rimanere nella propria terra”. Interpretando l’esperienza e la
coscienza di tanti profughi, spesso vittime di sogni e illusioni, ha
commentato: “Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e
dalla speranza, migrare diventa allora un “calvario” per la sopravvivenza, dove
uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro
vicenda migratoria”.
Per questa ragione, oggi, mentre affermiamo con Papa
Francesco il dovere dell’accoglienza di chi bussa alla nostra porta in
condizioni di grave emergenza, occorre anche impegnarsi, forse più di quanto
non sia stato fatto, per garantire ai popoli la possibilità di “non emigrare”,
di vivere nella propria terra e di offrire là dove si è nati il proprio
contributo al miglioramento sociale. La separazione e lo smembramento delle
famiglie dovuto all’emigrazione rappresenta un grave problema per il tessuto
sociale, morale e umano dei Paesi d’origine. L’emigrazione dei giovani
rappresenta un grande depauperamento per l’Africa. Spesso, inoltre, a emigrare
sono i giovani istruiti, nell’illusorio sogno del benessere europeo a portata
di mano. Nell’impegno per l’accoglienza, si finisce spesso per trascurare
quanti restano in quei Paesi, che spesso sono veramente i più poveri, anche
culturalmente.
Fermo restando il diritto per ogni uomo di cercare fortuna
fuori dalla propria terra di origine, come anche il dovere di accoglienza per i
Paesi più ricchi del mondo, occorre tuttavia tener conto del fatto che gli
uomini, le donne e i bambini oggi coinvolti nel fenomeno delle migrazioni sono
– a mio parere – tre volte vittime.
Innanzitutto sono vittime di ingiustizie, di miserie, e
spesso anche di guerra, che li costringono a partire dai loro Paesi d’origine.
Come possiamo tacere che tali situazioni, direttamente o indirettamente, sono
frutto di politiche coloniali antiche e nuove? Il primo dovere di carità umana
allora ci impone di aiutare questi popoli laddove vivono, richiamando
l’attenzione e l’impegno di tutti sulla rimozione di queste ingiustizie e
quindi anche delle cause che li spingono all’emigrazione.
Desidero richiamare in proposito l’appello che le Chiese
africane hanno rivolto in più occasioni ai loro figli più giovani: “Non fatevi
ingannare dall’illusione di lasciare i vostri paesi alla ricerca di impieghi
inesistenti in Europa e in America” ha detto Mons. Nicolas Djomo, Presidente
della Conferenza Episcopale del Congo, all’incontro panafricano dei giovani
cattolici del 2015, invitandoli a guardarsi dagli “inganni delle nuove forme di
distruzione della cultura di vita, dei valori morali e spirituali”, perché non
si può pensare che gli uomini siano come merci che si possono sradicare e
trapiantare ovunque, se non perseguendo un’idea nichilista che vorrebbe
appiattire le culture e le identità dei popoli. “Voi siete il tesoro
dell’Africa; – ha aggiunto Djomo – la Chiesa conta su di voi, il vostro continente
ha bisogno di voi”.
Ancora più recentemente, dal Senegal alla Nigeria, i
Vescovi hanno avuto reazioni indignate di fronte ad alcuni filmati che mostrano
come vengono trattati alcuni migranti prima di essere venduti in Libia come
schiavi, per poi finire a fare i profughi in mare aperto. “Non abbiamo il
diritto di lasciare che esistano canali di emigrazione illegale quando sappiamo
benissimo come funzionano, tutto questo deve finire” dice dal Senegal Monsignor
Benjamin Ndiaye, Arcivescovo di Dakar, che argomenta per assurdo: “meglio
restare poveri nel proprio Paese piuttosto che finire torturati nel tentare
l’avventura dell’emigrazione”. A lui hanno fatto eco più recentemente in
Nigeria Mons. Joseph Bagobiri della Diocesi di Kafachan e Mons. Jilius Adelakan,
Vescovo di Oyo. I Pastori riconoscono che la Nigeria è un Paese ricco di tante
risorse, ma le associazioni malavitose, che hanno contatti anche nei vari Paesi
europei, e anche in Italia, incoraggiano di fatto la tratta di esseri umani,
alimentando illusioni e false speranze, per un loro tornaconto.
In secondo luogo, oltre che vittime di ingiustizie laddove
vivono, i migranti sono spesso vittime di rifiuto e di sfruttamento nei Paesi a
cui approdano. Sono anche vittime di condizioni strutturali che, al di là della
buona volontà di chi accoglie, non consentono sempre di dare loro quella
fortuna che cercano. Come possiamo dimenticare le difficoltà di lavoro che
incontrano molti dei nostri giovani, essi pure costretti ad andare a cercare
altrove la prospettiva di un futuro?
In questo ambito si deve considerare il difficile tema
dell’immigrazione islamica, che pone un grave problema di integrazione con la
nostra cultura occidentale e cristiana. Faccio riferimento a dati obiettivi,
fonte spesso di problemi non indifferenti, posti dalla difficile conciliazione
di concezioni assai diverse del diritto di famiglia, del ruolo della donna, del
rapporto tra religione e politica. Il tema è stato ben argomentato a suo tempo
dal compianto Card. Giacomo Biffi e molti sono i richiami in tal senso
provenienti in questi anni dai Vescovi che in Medio Oriente vivono
quotidianamente queste difficoltà, come ad esempio, il Vescovo egiziano copto
di Alessandria, Mons. Anba Ermia. Queste difficoltà sono ben note anche in alcuni
Paesi europei, come la Francia, dove l’integrazione è ancora di là da venire,
come ci dimostrano le tristi cronache di questi anni. Tuttavia mi preme
precisare, come anche Papa Francesco ha affermato più volte, che i fatti gravi
di tipo sovversivo e terroristico non sono fondamentalmente espressione di una
guerra di religione, essendo più variegate e complesse le motivazioni. Grandi
passi sono stati fatti sul piano del dialogo interreligioso. Per tornare al
nostro tema, le difficoltà di integrazione le vediamo anche nelle realtà più
piccole dei nostri centri, dove assistiamo alla creazione di veri e propri
“quartieri islamici”, che, con gravi tensioni tentano di impiantare le loro
regole e le loro tradizioni.
Anche Papa Francesco ha sempre riconosciuto che la
politica dell’accoglienza deve coniugarsi con la difficile opera
dell’integrazione “che non lasci ai margini chi arriva sul nostro territorio” e
proprio pochi giorni fa ha precisato che l’accoglienza va fatta compatibilmente
con la possibilità di integrare. L’esperienza di questi anni ci ha dimostrato
che gli immigrati spesso restano ai margini delle nostre società, in veri e
propri ghetti, in cui parlano la loro lingua e introducono i loro costumi, come
in comunità parallele, talvolta in contesti di degrado. Per non tacere del
grave fenomeno degli immigrati che finiscono in mano alla malavita o agli
sfruttatori del piacere sessuale.
In terzo luogo, i migranti, già vittime di ingiustizie nei
loro Paesi d’origine, costretti a subire sfruttamento e gravi difficoltà nei
Paesi di arrivo, soprattutto quando scoprono che non ci sono le condizioni di
fortuna sperate, sono vittime insieme alle popolazioni occidentali di “piani
orchestrati e preparati da lungo tempo da parte dei poteri internazionali per
cambiare radicalmente l’identità cristiana e nazionale dei popoli europei”,
come recentemente ha ricordato Mons. A. Schneider. Senza ossessioni di
complotti, ma anche senza irresponsabili ingenuità, non possiamo nascondere che
siano in atto tanti progetti e tentativi volti annullare le identità dei
popoli, perché ciascun uomo sia più solo e debole, sganciato dai riferimenti
culturali di una comunità in cui possa identificarsi fino in fondo: lo possiamo
costatare dalla produzione legislativa europea sempre più lontana e avversa
alle radici della nostra civiltà. Se da una parte possiamo concordare che oggi
non vi sia una vera e propria guerra tra le religioni, dobbiamo però
riconoscere che è in atto una “guerra” contro le religioni, ogni religione, e
contro il riferimento a Dio nella vita dell’uomo. Spesso, giunti in Europa, i
migranti sentono anche il peso e la fatica di una visione di vita e di uno
stile non appartenenti alla loro storia e identità, siano essi cristiani,
islamici o di altra fede religiosa.
Come Vescovo, sento forte la responsabilità di custodire
il gregge che mi è stato affidato e di custodire la continuità dell’opera della
Chiesa nel nostro problematico contesto sociale, presidio e baluardo di
autentica promozione umana. Personalmente, sono convinto che il futuro
dell’Europa non possa e non debba rischiare verso una sostituzione etnica,
involontaria o meno che sia.
Tutte queste ragioni, che in breve ho cercato di
enucleare, danno ragione di quanto è affermato nel Catechismo della Chiesa
Cattolica, che al n. 2241, compendia la saggezza, la prudenza e la lungimiranza
della Chiesa: “Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura
del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse
necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di
origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto
naturale, che pone l’ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le
autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono
subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni
giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti
del paese che li accoglie. L’immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza
il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle
sue leggi, a contribuire ai suoi oneri.”
A questi principi di buon senso e sapienza cristiana
suggerisco di conformare l’agire sociale, illuminati dal Magistero della
Chiesa, del Papa e dei vostri Vescovi.
Consegno questo messaggio con la più ampia libertà del
cuore, non avendo da difendere posizioni di privilegio, strutture o posizioni
politiche, ma guardando alla complessità del fenomeno in gioco, e alla varietà
degli elementi di cui occorre tener conto affinché in questa impegnativa
congiuntura, come sempre, il Vangelo di Gesù Cristo sia la bussola che orienta
il cammino della Chiesa e degli uomini di buona volontà per il bene integrale
del singolo e dell’umanità intera.
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Antonio Suetta
Vescovo di Ventimiglia – San Remo
Vescovo di Ventimiglia – San Remo
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