martedì 29 settembre 2020

L’AMMIRAZIONE COME CONOSCENZA

Fernando De Haro

Il libro El Abrazo (L’abbraccio) di Mikel Azurmendi, pubblicato un paio di anni fa in spagnolo, è uscito in italiano. L’autore, che è stato professore nell’Università dei Paesi Baschi e a Parigi, antropologo e saggista, in occasione di questa nuova edizione ha ripercorso il suo itinerario di avvicinamento al cristianesimo in un documentario-intervista  presentato al Meeting di Rimini.


Nella sua infanzia, il padre lo educò molto presto a lavorare duramente. Due ore prima di entrare a scuola e due ore dopo l’uscita lavorava nella rivendita di carbone della famiglia. Lì imparò a fare bene le cose e a continuare a farle fino a che non erano realmente completate. Entrò molto giovane nel seminario di San Sebastian, ma a 21 anni il cristianesimo aveva già cessato di essere qualcosa di significativo e si era ridotto a un riferimento mitico e a delle regole. Ciò che veramente lo interessava in quel momento – siamo negli anni ’60 – era la giustizia sociale, che considerava però impossibile sotto il regime franchista. Così se ne andò via dai Paesi Baschi e viaggiò in Francia e Germania.

Stava lavorando in una fabbrica, un lavoro molto duro, quando fu contattato da uno dei membri dell’ETA, l’organizzazione terrorista che stava nascendo proprio in quel periodo. Azurmendi entrò nell’organizzazione e tornò in Spagna lavorando come scaricatore per raccogliere nuovi adepti.

Tuttavia, si scontra presto con ciò che realmente significa il terrorismo. In una riunione del suo gruppo si vota se si deve uccidere una persona e per un solo voto ” la sua vita è risparmiata”. Questa esperienza lo segnerà per sempre, perché gli ripugna profondamente attentare alla vita, l’uccidere o l’essere ucciso. Quando nel ’68 avviene il primo omicidio organizzato dall’ETA, il terrorista che lo commette è uno dei giovani che aveva arruolato e si rende conto che lui stesso avrebbe potuto essere l’assassino. Da quel momento inizia una lotta contro l’ETA che segnerà buona parte della sua vita. L’organizzazione non gli perdonerà mai la sua opposizione e le minacce continueranno per molti anni e per un certo periodo dovrà anche utilizzare una falsa identità.

Azurmendi ha vissuto intensamente, non è stato un professore isolato in una sua bolla. In tutti i suoi libri vibra un’intensa ricerca. Alcuni anni fa, per una serie di rapporti assolutamente fortuiti, arrivò come relatore all’Encuentromadrid, ma si trovò in difficoltà nel partecipare alla tavola rotonda alla quale era stato invitato. Gli era difficile, infatti, prendere parte a un dialogo con cristiani, ma alla fine, per una questione di lealtà personale, decise di intervenire. Profondo conoscitore della filosofia moderna e contemporanea, Azurmendi sviluppò in quella occasione una lucida critica al pensiero illuminista.

Sorpreso da coloro che lo avevano invitato, incominciò lo studio di quella che definisce una “tribù molto speciale”, la tribù di Comunione e Liberazione, ed è questo studio che ha portato a El Abrazo. Come antropologo aveva già prodotto lavori simili, per esempio con i migranti di una località del Sud della Spagna, ma questa volta ha cambiato il metodo. Il punto di partenza non era quello già utilizzato da Durkheim o Weber, che si avvicinano ai fenomeni umani cercando la migliore quantificazione e la massima obiettività con distacco.

Il suo sguardo si era riempito di sorpresa, una sorpresa che si convertì subito in ammirazione e nel desiderio di volersi identificare con quello che aveva incontrato. Il punto di partenza divenne quindi la ricerca delle ragioni del suo stupore, di ciò che lo obbligava a ripensare se stesso, a riconsiderare l’io che stava guardando. Si era lasciato dietro il distacco e la neutralità teorica che, per principio, avrebbe dovuto rispettare.

Così, El Abrazo si trasforma in un viaggio appassionante pieno di incontri con persone che gli raccontano le loro storie, che Azurmendi coglie nel loro lavoro quotidiano come giornalisti, professori, come padri e madri di famiglia.


Uno dei momenti più intensi dell’opera è il racconto di un gesto di caritativa con un gruppo di drogati, in uno dei quartieri più degradati di Madrid. In prospettiva qui c’è poca utilità sociale, molti dei drogati non cambieranno la loro vita, ma ciò che cambia è la vita dei “membri della tribù”. E le domande si intensificano, si fanno più nette.

Azurmendi ammira Wittgenstein, ha letto e riletto i suoi diari. Perciò, quando trova in un libro di Carron una citazione del filosofo che pare giustificare il suo agnosticismo, capisce che ciò apre una sfida e non vuole ripetere la risposta che si diede Wittgenstein.

Considera quindi come plausibile l’ipotesi che la tribù che sta studiando abbia la sua origine nel Risuscitato. Dall’ammirazione per la tribù passa all’ammirazione per l’origine della tribù.

Azurmendi in italiano. Non conviene perderlo.  

 

Da Ilsussidiario.net

 


lunedì 28 settembre 2020

IL GOVERNO DI FRANCESCO

 Si può discutere di un pontificato senza essere bollati come reazionari? 

di Luca Del Pozzo


Il dibattito in corso circa la spinta propulsiva dell’attuale pontificato, innescato da un denso saggio del direttore della Civiltà Cattolica,(leggi anche qui), padre Antonio Spadaro (per inciso, saggio molto elegante e raffinato, che tra i tanti pregi ha anche quello di gettare una luce nuova, muovendo da altra angolatura, sui pontificati precedenti), è stato arricchito tra gli altri da un’intervento del vaticanista de Il Foglio, Matteo Matzuzzi, che al tema ha dedicato un’ampia ed articolata indagine. Indagine che fin dal titolo – Il tramonto di un papato – esprimeva una chiave di lettura diversa rispetto a quanto sostenuto da p. Spadaro. In estrema sintesi, per p. Spadaro la carica propulsiva del pontificato di Francesco non si è affatto esaurita, ma per poterla apprezzare occorre comprendere come per Francesco il concetto di governo della Chiesa e di riforma faccia tutt’uno con un processo di costante conversione e discernimento – categoria chiave della spiritualità ignaziana – che in quanto tale rifugge schemi precostituiti o idee nate a tavolino.
 “Si comprende così – scrive p. Spadaro – che la domanda su quale sia il «programma» di papa Francesco non ha senso. Il Papa non ha idee preconfezionate da applicare al reale, né un piano ideologico di riforme prêt-à-porter, ma avanza sulla base di un’esperienza spirituale e di preghiera che condivide passo passo nel dialogo, nella consultazione, nella risposta concreta alla situazione umana vulnerabile”. Il Papa, scrive ancora p. Spadaro, “…ha ben chiaro il contesto, la situazione di partenza; è informato, ascolta pareri; è saldamente aderente al presente. Tuttavia, la strada che intende percorrere è per lui davvero aperta, non c’è una road map soltanto teorica: il cammino si apre camminando”.
Dal canto suo Matzuzzi ha notato, a mo’ di premessa, che “avere un programma non è delittuoso”, e che anzi i cardinali quando debbono scegliere chi eleggere Papa “guardano bene cosa pensa e cosa no su determinati temi”. Secondo, e cosa più importante, durante il suo pontificato “Francesco una rotta ben impostata l’ha mostrata eccome“. Rotta tracciata nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013, laddove Francesco dice che “Ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti”. Insomma, se non un programma vero e proprio, quanto meno una chiara direzione di marcia. D’altra parte, guardando indietro a questi sette anni e mezzo di pontificato gli indizi che dicono di una visione programmatica non mancano. 
A partire dai primi mesi quando, nota Matzuzzi, “più che dello spirito si parlò dell’amministrazione, di uffici e personale: chirografi su chirografi, commissioni e comitati per riformare, cambiare aggiornare”.  E questo non per caso ma perché “nelle congregazioni generali del pre Conclave, i cardinali avevano preteso da chiunque fosse stato eletto un giro di vite, una grande riforma che solo un Papa-manager… avrebbe potuto realizzare”. Altro elemento, la creazione del C9, l’organismo voluto da Francesco con l’incarico di rifomare la Curia, “talmente istituzionale e strutturato che all’origine aveva un componente per continente”; e ancora, l’indicazione, contenuta sempre in Evangelii gaudium, circa lo statuto delle Conferenze episcopali “che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale”. Vi sono poi stati i vari Sinodi (a partire da quelli del 2014 e 2015 che portarono alla discussa Esortazione apostolica Amoris laetitia) i cui temi – sottolinea Matzuzzi – “li ha scelti Francesco. E ha scelto temi che sapeva essere divisivi; temi che avrebbero incendiato gli animi e creato spaccature allargando fossati già distanti l’uno dall’altro”. 
Non solo. Anche la scelta, sempre operata da Francesco, di affidare al card. Kasper la relazione che aprì e indirizzò i lavori del Concistoro che precedette il doppio Sinodo sulla famiglia, non fu certo una scelta “neutrale” se solo si tiene conto che Kasper “fin dai tempi di Giovanni Paolo II aveva chiesto meglio e più di altri il via libera al riaccostamento dei divorziati risposati alla comunione; richieste sempre rispedite al mittente dal duo Wojtyla-Ratzinger”. E lo stesso dicasi per Claudio Hummes, il cardinale brasiliano cui Francesco affidò il Sinodo sull’Amazzonia, “da sempre convinto peroratore del via libera ai viri probati”. A sostegno del fatto che la questione del “metodo” di governo di Francesco non è forse così chiara come vorrebbe p. Spadaro, Matzuzzi adduce altri tre elementi. Primo, le reazioni  – “in qualche caso fuori dalle righe” – di chi si aspettava ben altri risultati dall’azione di governo di Francesco, dimostrano che “anche tra i più entusiasti sostenitori della linea caratterizzante il pontificato si era fatta strada l’idea che oltre alla volontà ignaziana di «riformare le persone dal di dentro» ci fosse pure la determinazione di riformare la chiesa stessa in modo irreversibile”; secondo, il fatto – ciò che rappresenta un problema non di poco conto – che “ogni assemblea sotto Francesco si è trasformata in una disputa mai risolta dal Papa”. Da qui la domanda, legittima, che Matzuzzi pone: “Siamo sicuri che lasciare tutto in questa indeterminatezza sia non solo opportuno ma anche sano?”. Vi è poi il terzo elemento, che riguarda da vicino la politica estera, per così dire, di Francesco, in particolare per quanto riguarda i rapporti con la Cina. Questione da cui emerge con chiarezza che c’è, eccome, un disegno preciso che punta alla distensione con il governo di Pechino, obiettivo in nome del quale “Non una parola su Hong Kong – ma molte sulle tensioni socio-politiche negli Stati Uniti, ad esempio – nulla sugli uiguri, nonostante due cardinali di santa romana chiesa…abbiano accusato Pechino di commettere nei confronti di quella popolazione un vero e proprio genocidio”. Fatti che per Matzuzzi non lasciano adito a dubbi: “Sono scelte, non improvvisazione”. Alla fine della sua lunga indagine Matzuzzi torna alla domanda che p. Spadaro ha posto come sottotitolo al suo saggio sul governo di Francesco, “E’ ancora attiva la spinta propulsiva del pontificato?”, per sottolineare che se il direttore della Civiltà Cattolica ha dovuto ribadire che cosa Francesco intenda per riforma e cosa no, forse questo significa che “qualcosa è andato storto: o nella comprensione del modo di governare di questo Papa (modo, non stile) o nel fatto che effettivamente il pontificato ha incontrato qualche ostacolo di troppo non previsto, e la spinta propulsiva ha subìto una battuta d’arresto”.

"AMO GLI STATI UNITI E LA SUA COSTITUZIONE"

 “Il Presidente mi ha nominato per far parte della Corte Suprema degli Stati Uniti. E quell'istituzione appartiene a tutti noi. Se confermata, non assumerei quel ruolo per il bene di coloro che fanno parte della mia cerchia e certamente non per il mio bene. Assumerei questo ruolo per servire ", ha detto Barrett.

 

Donald Trump ha scelto Amy Coney Barrett, 48 anni,  per la Corte Suprema. La sua nomina arriva in sostituzione di Ruth Bader Ginsburg, icona liberal nominata da Clinton nel 1993 e morta a 87 anni. Ora la parola per la conferma di Barrett passa al Senato.



Trump come la Costituzione gli consente persegue l’obiettivo del rafforzamento della maggioranza conservatrice nella Corte Suprema. Stiamo parlando dei pilastri della democrazia in America, l'equilibrio della Corte è oggetto di attenzione totale da parte della politica e dell'opinione pubblica. I giudici sono in carica a vita e l'appartenenza o meno a una scuola di pensiero influenza le decisioni e impatta direttamente sulla vita dei cittadini. La Ginsburg con il suo lavoro tenace sui diritti civili e le donne ha cambiato lo scenario della società americana, il ruolo dell'uomo e della donna, fu Bill Clinton a nominarla alla Corte Suprema nel 1993. Tutte le nomine hanno sempre una matrice politica, non c'è niente di sbagliato, è la vita.

La candidata a sostituire il mito della Ginsburg è sempre una donna, ma di segno opposto: la conservatrice Amy Coney Barrett, 48 anni, cattolica e pro life, sposata con sette figli, di cui due haitiani adottati, mentre il suo figlio più piccolo è down.  Questo non significa che siamo di fronte a un contrasto tra progresso e restaurazione (è un modo rozzo e ignorante di presentare il tema politico), ma che esistono due grandi filoni cultural, due visioni del mondo che cercano un equilibrio continuo, un adattamento ai tempi e un esito nella forma della Legge e della Giustizia. Sono i cicli della storia americana che si riverberano sulla Corte Suprema e le sue decisioni.

I democratici - è battaglia politica, nessuna sorpresa - diranno che la sua fede religiosa influisce sulla sua interpretazione del diritto, ma è una falsa accusa che può essere ribaltata su chiunque, perché ognuno di noi ha una visione del mondo, il fatto importante è quello di applicare la legge e rispettarne il significato. Non a caso Barrett nel suo intervento alla Casa Bianca ha di "amare la Costituzione" e di voler "applicare la legge".

Barrett deciderà sui temi fondamentali per un periodo molto lungo, i giudici costituzionali restano in carica a vita, è giovane e il suo servizio alla Corte Suprema potrebbe durare 40 anni. Barrett in un recente intervento descrive la "collisione culturale" americana, il tema della pena capitale, la fede religiosa, il dilemma etico della vita che è sacra e l'applicazione della legge che quella vita la spezza. Pena di morte, eutanasia, aborto. Non sono cose che si discutono con i leoni da tastiera della Rete, sono le fondamenta della società, i suoi immani problemi, dilemmi e angosce, che vengono continuamente scossi e rifondati su basi vecchie e nuove, con l'evolversi del tempo. Nel discorso di accettazione ha detto “Un giudice deve applicare la legge come scritta. I giudici non sono responsabili delle politiche e devono essere risoluti nel mettere da parte le opinioni politiche che potrebbero avere ". 

La politica americana è un grande romanzo e la sua forza è in questo intreccio di biografie, politica, diritto, è la forza della sua splendida Costituzione.

mercoledì 9 settembre 2020

REFERENDUM. DIECI RAGIONI PER DIRE NO

Noi con l’Italia ha stilato un decalogo in vista del referendum sul taglio dei parlamentari del 20-21 settembre.
1. SI RISPARMIA. Assolutamente no. Sono state fatte cifre iperboliche. Il taglio consentirebbe una diminuzione di spesa dello 0.007 per cento della spesa pubblica, 57 milioni l’anno, neanche un euro a cittadino. La democrazia vale almeno un caffè al giorno?
2. SONO TROPPI. Non è vero. In Europa l’Italia è al 23° posto (su 27) nel rapporto tra eletti e elettori. In Italia c’è un deputato 96 mila abitanti, con la vittoria dei Sì si passerebbe a uno ogni 151.210. Per il Senato si passerebbe da un senatore ogni 188.424 abitanti a uno ogni 302.420.
3. NOMINATI. Con questo taglio e con l’attuale legge elettorale i 400 deputati e i 200 senatori saranno sempre più nominati e sempre più dipendenti dai capi-partito. Altro che abbattimento della “casta”, il risultato è una casta ancora più autoreferenziale, tutelata e garantita.
4. DEMOCRAZIA DIRETTA. È la promessa di chi sostiene il taglio dei parlamentari, ma non c’è nessuna proposta che vada in questa direzione. Paradossalmente succederà il contrario. Si creeranno situazioni in cui quando una Commissione del Senato è in sede deliberante (cioè i suoi componenti votano direttamente una legge senza passare dall’Aula) può bastare il voto di 4 senatori per farla passare. Avete letto bene: 4 persone decidono per 60 milioni di italiani. Questo è peggio della “casta”, questa è oligarchia.

5. IL PARLAMENTO DIVENTA PIÙ EFFICIENTE. Tutt’altro. Meno persone, soprattutto al Senato, dovranno assolvere a un’infinità di compiti che li obbligherà a un lavoro inevitabilmente più superficiale, oppure a delegarlo a nuovi tecnici e funzionari, con nuovi costi che renderanno ancora più risibile il decantato risparmio. La vera efficienza del Parlamento si ottiene diversificando i compiti tra Camera e Senato. Siamo l’unico Paese al mondo dove esiste il bicameralismo perfetto, dove una legge va avanti e indietro tra Montecitorio e Palazzo Madama per mesi. Ma chi oggi propone il taglio si è opposto a una riforma che eliminava questo difetto delle nostre istituzioni. Sicuri che voglia davvero l’efficienza?
6. UN FAVORE ALLE LOBBY. Un Senato con 200 membri, di fatto scelti dalle segreterie di partito, invece di 315 diventerebbe inevitabilmente più permeabile alle lobby, alle quali questa riforma facilita molto il lavoro.
7. MAGGIORANZA PIGLIATUTTO. Un rischio serio è la formazione di maggioranze che, con gli attuali sistemi elettorali, hanno praticamente la possibilità di eleggersi da sole il Presidente della Repubblica, che non sarebbe più la figura di garanzia e di unità del Paese ma il presidente di una sola parte. L’equilibrio dei poteri previsto dalla nostra Costituzione viene messo in serio pericolo.

 8. MINORANZE E REGIONI NON RAPPRESENTATE. Il Senato è eletto su base regionale, ma essendo solo 200 i senatori, molti partiti, pur avendo superato la soglia di sbarramento nazionale, non potranno partecipare alla distribuzione dei seggi su base regionale perché, vista la riduzione numerica, gli scranni saranno attribuiti solo alle liste maggiori. Inoltre La riforma concentra la rappresentanza politica nelle aree più popolose del Paese, a scapito di quelle con meno abitanti ma territorialmente più vaste, e non tutela in modo adeguato le minoranze linguistiche (il caso del Trentino-Alto Adige è quello più significativo).
9. LA STRADA VERSO L’AUTORITARISMO. L’antiparlamentarismo è sempre stata una caratteristica delle ideologie totalitarie. Non è mai successo che riducendo la democrazia rappresentativa sia cresciuta la democrazia diretta. Agli attacchi al Parlamento di solito segue un’esperienza autoritaria. Qualcuno deve decidere, se non lo fanno deputati e senatori lo fanno altri poteri.
10. LO VUOLE LA GENTE. La democrazia non può essere appaltata ai sondaggi. Non ci piace cavalcare la moda dell’antipolitica. È la politica che ha il compito di guida e di formazione di una democrazia più compiuta ed efficiente. Il numero dei parlamentari non è un dogma, la sua riduzione è possibile. Ma fatto in questo modo, solo per rincorrere il consenso popolare senza riforme che rendano veramente più efficiente il Parlamento, il taglio non ha senso. È un errore, e gli errori sono pieni di conseguenze negative.
Foto ANSA

martedì 8 settembre 2020

È L’IDEOLOGIA IL VIRUS DELLA SCUOLA


Davide Rondoni

Fa bene il mio amico Alessandro D’Avenia nella sua rubrica del lunedì sul Corriere della Sera a richiamare ieri che la scuola non è un problema sanitario, e che la vita in classe non dipenderà dalla emergenza sanitaria ma dal significato che gli daremo. E che non contano gli oggetti (banchi singoli, tablet etc) ma i progetti con cui verranno usati. (*)

Dice che la scuola può esser luogo di relazioni generative. E però dice anche che l’ "emergenza sanitaria non ha debilitato il sistema scolastico, ma ne ha reso evidente lo stato comatoso". Alessandro è un bravo scrittore e quindi sa che se di una cosa si dice che è in "stato comatoso" poi è difficile sperare che lì fioriscano relazioni generative. Certo, queste dipendono dalle persone, ma se un sistema è “comatoso” significa che le persone che al suo interno vogliono dar vita a qualcosa di generativo fanno molta, troppa fatica, ai limiti dell’impossibilità.

E allora verrebbe da chiedere un po’ di coraggio all’Alessandro che scrive di ragazzi e scuola sul Quotidiano dei Signori: non cavartela dicendo che lo stato “comatoso” dipende da “tagli e operazioni sbagliate” compiute da governi di diversi colore. Questo è solo una parte di verità che dicono anche politici e politicanti.

Lo stato comatoso dipende ben di più dall’impianto ideologico su cui la scuola è edificata. I dogmi indiscutibili sono:

primo, enciclopedismo illuminista (come se cultura fosse sapere – male – di tutto un po’) e negazione del talento individuale,

secondo dogma è lo statalismo e la conseguente riduzione dei docenti a funzionari spesso frustrati.

Il terzo dogma è una tendenza allo “scuolacentrismo” come se a scuola ci si dovesse occupare di tutto (eccetto che di arte e di educazione del gusto) e cosí tener occupati i ragazzi invece che favorire il loro rapporto con la società e con gli adulti fuori dalla scuola.
Parlare anche d’altro è utile, divagare no.

Da Il resto del Carlino 8/9/2020



lunedì 7 settembre 2020

QUANDO PAOLO VI SALVO' LA CHIESA DAL DISASTRO


INTERVISTA CON DON LUIGI GIUSSANI
Ecco qui di seguito i passaggi essenziali di quella intervista, raccolta da Renato Farina e uscita sul settimanale “Il Sabato” del 9 agosto 1988

D. – Il mese di agosto del 1978 morì Paolo VI e venne papa Albino Luciani. Poi ci fu l’avvento del “papa venuto da lontano”. Ricorda le ore in cui fu annunciata la morte di Paolo VI?
R. – “Ricordo quei momenti. […] Versava in tali condizioni la Chiesa che la perdita di quella guida mi parve gravissima. Era stato Paolo VI che, con tutta buona fede, aveva visto favorevolmente una certa evoluzione della Chiesa. Ma tanta era la verità del suo amore alla Chiesa che, a un certo punto, dovette accorgersi del disastro cui la dinamica delle cose – pur [da lui] approvate – portava. Fu allora che si aprì totalmente all’esperienza di Comunione e Liberazione. Che papa Montini venisse meno allora fu come l’assentarsi di una possibile guida. Aveva visto e avallato; conosceva le intime connessioni di quel processo di distruzione. Ora, intendeva andare contro corrente: ed era lui il più indicato a farlo, il migliore”.
D. – Da quando data questa volontà nuova di Paolo VI?
R. – “È a far data dal suo famoso ‘Credo’, il 30 giugno del 1968, che avviene la svolta. L’’Humanae Vitae’ e gli inauditi attacchi cui fu sottoposto lo confermarono nel suo giudizio. Il culmine della sua disillusione si ha con il referendum sul divorzio in Italia, nel 1974, quando proprio i dirigenti dell’Azione Cattolica e della FUCI, che egli aveva amato e protetto, gli volsero le spalle. È in questo clima, probabilmente, che Paolo VI si accorge della capacità di rinnovamento dell’avvenimento cristiano e di risposta all’uomo che Comunione e Liberazione implicava. È dal 1975 che si sono moltiplicati i segni di questa sua nuova e forte simpatia. Per la Domenica delle Palme di quell’anno egli chiamò i giovani di tutti i gruppi cattolici a Roma […]. Chiamò tutti. Si trovò da solo coi diciassettemila di CL”.
D. – E poi come andò?
R. – “[…] Finita la messa, era circa mezzogiorno, mi sento chiamare da un prelato: ‘Don Giussani, il papa la vuole’. Ero nel pronao della basilica di San Pietro, avevo la pisside con ostie consacrate tra le mani, e sentii quella voce. Tentai di affibbiare, nell’emozione, la pisside a un alabardiere, che si ritrasse. Finalmente potei correre verso il papa. Comparvi dinanzi a lui proprio sulla porta della chiesa. Mi sono inginocchiato, ero così confuso… Ricordo con precisione solo queste parole: ‘Coraggio, questa è la strada giusta: vada avanti così’”.

giovedì 3 settembre 2020

LA MOSSA DEL VATICANO


PUR DI ESSERE CONTRO TRUMP LA CHIESA SOCCORRE L’ABORTISTA JOE BIDEN



La Chiesa cattolica americana si sta spaccando in vista delle elezioni presidenziali, mentre le istituzioni ecclesiastiche del Vaticano sembrano avere idee chiare sul candidato da favorire.
Joe Biden in queste settimane è divenuto oggetto di discussione tra i fedeli e sui media vicini agli ambienti cattolici per via delle sue posizioni sull’aborto.

Il candidato dei Dem, come buona parte del partito che rappresenta, non è un anti-abortista. Il cardinale conservatore Raymond Leo Burke, anche sulla scia di considerazioni ratzingeriane, ha dichiarato che Biden, così come gli altri politici abortisti, non dovrebbero avere accesso al sacramento dell’eucaristia. La polemica non è nuova. Il doppiopesismo dei cattolici democratici alla Biden è un argomento che alimenta da sempre le critiche del “fronte tradizionale”. Joe Biden – questa è una novità rispetto alle ultime scelte degli asinelli – è sì un candidato progressista, ma anche un credente.
In materia bioetica, però, Biden non persegue la linea della Chiesa. E dunque perché la Santa Sede dovrebbe simpatizzare per l’esponente dei Dem?

Le politiche di Donald Trump in materia d’immigrazione ed ambiente non sono in linea con la visione di papa Francesco, dunque con quella del Vaticano. Durante questi anni le acredini tra le parti sono state evidenti: dalla questione del muro al confine con il Messico alle continue rimostranze dell’episcopato cattolico statunitense contro il tycoon, passando per la mancata concordia sul da farsi dal punto di vista ecologico.

Il Vaticano e Trump hanno faticato a trovare punti di contatto nel corso di questi quattro anni. Biden rappresenta in questo senso un’occasione per normalizzare i rapporti. L’ex vice di Barack Obama, giusto per fare un esempio, è un sostenitore del multilateralismo diplomatico. Non si può dire lo stesso di Trump. Gestione dei fenomeni migratori, ambientalismo e geopolitica costituiscono un trittico per cui Santa Sede e Casa Bianca potrebbero andare d’accordo nel prossimo futuro.
Ma rimane il problema del pensiero di Biden sull’aborto e sulle altre questioni considerate non negoziabili dal Vaticano.

Trump ha inviato un messaggio chiaro, facendo della convention repubblicana pure un palcoscenico per attori politici pro life. La presenza di suor Dede Byrne all’appuntamento pre-elettorale del Gop, con un discorso centrato su come Trump da presidente abbia davvero tutelato i cattolici americani, ha destato scalpore. Sembra che The Donald, anche in funzione della turnata di novembre, voglia sfruttare la polarizzazione delle opinioni, provando a pesuadere i cattolici di essere il loro unico paladino. La “maggioranza silenziosa”, che è composta anche da fedeli, può essere convinta, sfruttando il “fattore coerenza”.

La Santa Sede, che forse ha fiutato l’aria, ha in qualche modo replicato alla mossa di The Donald per il tramite di un’intervista rilasciata a Crux da monsignor Vincenzo Paglia,
ecclesiastico progressista e presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Paglia, in ottica di “schieramenti vaticani”, è considerato un bergogliano doc. Il monsignore italiano, in buona sostanza, ha dichiarato che le posizioni dei politici in bioetica non devono essere strumentalizzate per fini elettorali. Gli “argomenti bioetici” – ha fatto intendere Paglia – non deve essere “indirizzata” verso “strategie ideologiche”. Il che, tradotto, potrebbe suonare più o meno così: non si deve politicamente stigmatizzare Joe Biden in quanto abortista. Un bell’assist servito tra i piedi del candidato alla presidenza dei Dem.

La Chiesa cattolica vive così un cortocircuito piuttosto palese, dove l’anti-trumpismo può addirittura declinarsi in simpatie verso un candidato abortista.
Ma la sensazione che permane è quella di uno scollamento tra la base dei fedeli – base convintamente trumpiana – e le alte sfere ecclesiastiche, che sembrano propendere per la speranza in un’affermazione di Joe Biden. Altri argomenti, in specie relativi ai migranti, potrebbero essere sollevati nel corso dei mesi che separano gli americani dalle urne. La Chiesa avrà insomma ulteriori occasioni di dire la sua, ma per ora sembra che il cattolicesimo democratico propagandato da Biden sia per lo più in grado di convincere, quantomeno tra i cattolici, soltanto i sacri palazzi o quasi.

Francesco Boezi 30 AGOSTO 2020
Tratto da INSIDEOVER
Foto LAPRESSE