Si può discutere di un pontificato senza essere bollati come reazionari?
Il
dibattito in corso circa la spinta propulsiva dell’attuale pontificato,
innescato da un denso saggio del
direttore della Civiltà Cattolica,(leggi anche qui),
padre Antonio Spadaro (per inciso, saggio molto elegante e raffinato, che tra i
tanti pregi ha anche quello di gettare una luce nuova, muovendo da altra
angolatura, sui pontificati precedenti), è stato arricchito tra gli altri da
un’intervento del vaticanista de Il Foglio, Matteo Matzuzzi, che al tema ha dedicato un’ampia ed articolata
indagine. Indagine che fin dal titolo – “Il tramonto di un papato” – esprimeva una chiave di lettura diversa rispetto a
quanto sostenuto da p. Spadaro. In estrema sintesi, per p. Spadaro la carica
propulsiva del pontificato di Francesco non si è affatto esaurita, ma per
poterla apprezzare occorre comprendere come per Francesco il concetto di
governo della Chiesa e di riforma faccia tutt’uno con un processo di costante
conversione e discernimento – categoria chiave della spiritualità ignaziana –
che in quanto tale rifugge schemi precostituiti o idee nate a tavolino.
“Si
comprende così – scrive p. Spadaro – che la domanda su quale sia il
«programma» di papa Francesco non ha senso. Il Papa non ha idee
preconfezionate da applicare al reale, né un piano ideologico di riforme
prêt-à-porter, ma avanza sulla base di un’esperienza spirituale e di preghiera
che condivide passo passo nel dialogo, nella consultazione, nella risposta
concreta alla situazione umana vulnerabile”. Il Papa, scrive ancora p. Spadaro,
“…ha ben chiaro il contesto, la situazione di partenza; è informato, ascolta
pareri; è saldamente aderente al presente. Tuttavia, la strada che intende
percorrere è per lui davvero aperta, non c’è una road map soltanto
teorica: il cammino si apre camminando”.
Dal
canto suo Matzuzzi ha notato, a mo’ di premessa, che “avere un programma non è
delittuoso”, e che anzi i cardinali quando debbono scegliere chi eleggere Papa
“guardano bene cosa pensa e cosa no su determinati temi”. Secondo, e cosa più
importante, durante il suo pontificato “Francesco una rotta ben impostata l’ha
mostrata eccome“. Rotta tracciata nell’esortazione apostolica Evangelii
gaudium del 2013, laddove Francesco dice che “Ciò che intendo qui
esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti”.
Insomma, se non un programma vero e proprio, quanto meno una chiara direzione
di marcia. D’altra parte, guardando indietro a questi sette anni e mezzo di
pontificato gli indizi che dicono di una visione programmatica non mancano.
A
partire dai primi mesi quando, nota Matzuzzi, “più che dello spirito si parlò
dell’amministrazione, di uffici e personale: chirografi su chirografi,
commissioni e comitati per riformare, cambiare aggiornare”. E questo non
per caso ma perché “nelle congregazioni generali del pre Conclave, i cardinali
avevano preteso da chiunque fosse stato eletto un giro di vite, una grande
riforma che solo un Papa-manager… avrebbe potuto realizzare”. Altro elemento,
la creazione del C9, l’organismo voluto da Francesco con l’incarico di rifomare
la Curia, “talmente istituzionale e strutturato che all’origine aveva un
componente per continente”; e ancora, l’indicazione, contenuta sempre in Evangelii
gaudium, circa lo statuto delle Conferenze episcopali “che le concepisca
come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica
autorità dottrinale”. Vi sono poi stati i vari Sinodi (a partire da quelli del
2014 e 2015 che portarono alla discussa Esortazione apostolica Amoris
laetitia) i cui temi – sottolinea Matzuzzi – “li ha scelti Francesco. E ha
scelto temi che sapeva essere divisivi; temi che avrebbero incendiato gli animi
e creato spaccature allargando fossati già distanti l’uno dall’altro”.
Non
solo. Anche la scelta, sempre operata da Francesco, di affidare al card. Kasper
la relazione che aprì e indirizzò i lavori del Concistoro che precedette il
doppio Sinodo sulla famiglia, non fu certo una scelta “neutrale” se solo si
tiene conto che Kasper “fin dai tempi di Giovanni Paolo II aveva chiesto meglio
e più di altri il via libera al riaccostamento dei divorziati risposati alla
comunione; richieste sempre rispedite al mittente dal duo Wojtyla-Ratzinger”. E
lo stesso dicasi per Claudio Hummes, il cardinale brasiliano cui Francesco
affidò il Sinodo sull’Amazzonia, “da sempre convinto peroratore del via libera
ai viri probati”. A sostegno del fatto che la questione del
“metodo” di governo di Francesco non è forse così chiara come vorrebbe p.
Spadaro, Matzuzzi adduce altri tre elementi. Primo, le reazioni – “in
qualche caso fuori dalle righe” – di chi si aspettava ben altri risultati dall’azione
di governo di Francesco, dimostrano che “anche tra i più entusiasti sostenitori
della linea caratterizzante il pontificato si era fatta strada l’idea che oltre
alla volontà ignaziana di «riformare le persone dal di dentro» ci fosse pure la
determinazione di riformare la chiesa stessa in modo irreversibile”; secondo,
il fatto – ciò che rappresenta un problema non di poco conto – che “ogni
assemblea sotto Francesco si è trasformata in una disputa mai risolta dal
Papa”. Da qui la domanda, legittima, che Matzuzzi pone: “Siamo sicuri che
lasciare tutto in questa indeterminatezza sia non solo opportuno ma anche
sano?”. Vi è poi il terzo elemento, che riguarda da vicino la politica estera,
per così dire, di Francesco, in particolare per quanto riguarda i rapporti con
la Cina. Questione da cui emerge con chiarezza che c’è, eccome, un disegno
preciso che punta alla distensione con il governo di Pechino, obiettivo in nome
del quale “Non una parola su Hong Kong – ma molte sulle tensioni
socio-politiche negli Stati Uniti, ad esempio – nulla sugli uiguri, nonostante
due cardinali di santa romana chiesa…abbiano accusato Pechino di commettere nei
confronti di quella popolazione un vero e proprio genocidio”. Fatti che per
Matzuzzi non lasciano adito a dubbi: “Sono scelte, non improvvisazione”. Alla
fine della sua lunga indagine Matzuzzi torna alla domanda che p. Spadaro ha
posto come sottotitolo al suo saggio sul governo di Francesco, “E’ ancora
attiva la spinta propulsiva del pontificato?”, per sottolineare che se il direttore
della Civiltà Cattolica ha dovuto ribadire che cosa Francesco intenda per
riforma e cosa no, forse questo significa che “qualcosa è andato storto: o
nella comprensione del modo di governare di questo Papa (modo, non stile) o nel
fatto che effettivamente il pontificato ha incontrato qualche ostacolo di
troppo non previsto, e la spinta propulsiva ha subìto una battuta d’arresto”.
Sarebbe oltremodo sciocco pensare che un saggio come quello di p. Spadaro potesse passare inosservato, siccome tocca un tema di assoluta rilevanza per chiunque, credente o no, segua da vicino le vicende della Chiesa. In esso p. Spadaro ha dato una lettura del governo di Francesco che si può condividere o meno. Così come si può condividere, in tutto in parte o per nulla, ciò che sull’argomento ha scritto Matzuzzi o altri che pure hanno affrontato la questione. Per fare un altro esempio, appare alquanto discutibile l’affermazione “I Papi non fanno programmi, seguono il vento dello Spirito”, con cui Maurizio Crippa (altra firma del Foglio) ha chiuso un suo recente intervento sulla vicenda dopo essersi premurato di ricordare i fallimenti (a suo dire, s’intende) dei programmi dei papi che hanno preceduto Francesco, da Paolo VI a Benedetto XVI passando per Giovanni Paolo II, per sottolineare di contro quanto siano ancora feconde e valide le intuizioni originarie di ciascuno. (...)
Tornando alle reazioni nei confronti dell’indagine di Matzuzzi, va ribadito che le osservazioni in essa sollevate possono non piacere ma restano più che legittime. Per sua natura il ministero petrino non ha solo una dimensione spirituale, ma anche pastorale e di governo che, in quanto tali, richiedono una chiara visione dei problemi sul tappeto e un’altrettanto chiara rotta da seguire. Che poi lo si voglia chiamare programma o in altro modo poco importa. Ma di sicuro un pontefice non può permettersi il lusso di navigare a vista (né questo, by the way, è il caso di Francesco, come lo stesso Matzuzzi ha dimostrato), altrimenti è a rischio l’essenza stessa di ogni pontificato, quell’essere la “roccia” che conferma i fratelli nella fede. Anche per questo certe reazioni appaiono sempre stonate e fuori luogo. Intendiamoci, non che sia una novità. Non è stata la prima e non sarà l’ultima volta che chi, svolgendo il suo lavoro, solleva dubbi o muove una qualche seppur rispettosa critica, viene fatto oggetto di attacchi. Per tacere di episodi sfociati nel grottesco come quando – lo ricordò il diretto interessato in un’intervista che gli feci per Tempi – pretoriani e custodi vari promossero nei confronti di Vittorio Messori, reo di aver dato voce ad alcune rispettose perplessità nei confronti di Francesco, niente meno che la formazione di un comitato che pretendeva (sic!) che il Corriere della Sera gli sospendesse la collaborazione. L’aspetto singolare di quella vicenda, e che si ripresenta tale e quale oggi, fu che gli attacchi a Messori giunsero da quegli stessi ambienti che, anni addietro, contestavano un giorno sì e l’altro pure la Chiesa e i papi di allora (Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI).
Con una piccola differenza: che quando un pontefice viene criticato, per semplificare, da sinistra, è lui che sbaglia e i suoi critici sono tutti martiri del libero pensiero; quando invece il Papa è criticato da destra allora è lui che ha ragione e i suoi detrattori hanno torto marcio. Al solito, due pesi e due misure. Ma tant’è. E’ una delle costanti della storia, non solo ecclesiale, che chi ieri stava sulle barricate e contestava, poi te lo ritrovi dall’altra parte a sventolare cartellini rossi. Lupi che hanno perso il pelo ma non il vizio di ergersi a maestrini col ditino sempre puntato, con la stessa sicumera e lo stesso tono altezzoso con cui di volta in volta a papi, vescovi ed “eretici” di turno, pretendono di insegnare come debba essere la Chiesa e come si debba vivere il Vangelo. Avanti il prossimo.
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