venerdì 30 novembre 2018

I “GIUBBOTTI GIALLI” SONO IL NUOVO SINTOMO DELLA RIVOLTA DEI POPOLI CONTRO LE ÉLITE



Rodolfo Casadei 
Tempi novembre 2018
Solo una protesta per il carburante? Molti intellettuali francesi danno un’altra interpretazione della rivolta che sta colpendo la Francia di Emmanuel Macron

Chi sono i “giubbotti gialli” che dopo una settimana di blocchi stradali che hanno paralizzato mezza Francia, sabato si sono scontrati con la polizia a Parigi? In Italia le loro proteste sono state interpretate come la reazione viscerale di automobilisti, camionisti e contadini privi di coscienza ecologica che non vogliono pagare il prezzo della transizione all’economia decarbonizzata da realizzare entro il 2050 secondo gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici, o al massimo come un infortunio in materia fiscale della presidenza Macron che non ha saputo accompagnare i
provvedimenti di aumento del prezzo di benzina, gas e diesel con misure di esenzione per i gruppi sociali sfavoriti. Ma in Francia sempre più numerosi sono gli intellettuali che si dicono convinti che ci troviamo di fronte a qualcosa di molto più grande e importante: un nuovo, forse decisivo episodio di quella rivolta delle classi popolari contro le élites mondialiste che sta cambiando il volto della politica in tutta Europa e negli Stati Uniti. «Il movimento dei giubbotti gialli», scrive su Le Figaro Alexandre Devecchio, «più che una semplice ribellione contadina è un nuovo sintomo della rivolta dei popoli contro la società mondializzata. Una rivolta che attraversa tutte le democrazie occidentali». Gli danno ragione Christophe Guilluy, il geografo più famoso di Francia che ha saputo spiegare le fratture sociali francesi attraverso i movimenti di migrazione interna, il sociologo Jean-Pierre Le Goff, il saggista Ivan Rioufol, il politologo Dominique Reynié e il filosofo Jean-Claude Michéa, socialista libertario feroce critico della sinistra che è diventata liberale e seguace del pensiero di George Orwell.

LA DISTANZA TRA ALTO E BASSO
Guilluy, che ha concettualizzato l’opposizione fra Francia periferica e Francia delle metropoli, inquadra il movimento delle giubbe gialle in un fenomeno molto più vasto: «I media puntano il dito contro gli xenofobi, la popolazione rurale, ed evocano l’impoverimento dei centri storici. Quello che non vedono è un fenomeno ben più gigantesco: la fine della classe media occidentale. Dalla fine della Seconda Guerra mondiale è stata questa classe maggioritaria (ne facevano parte operai, contadini, impiegati e quadri superiori) che ha strutturato tutte le democrazie occidentali con lo stesso circolo virtuoso: integrazione economica, politica e culturale in un contesto di ascesa sociale. Tutto questo sta venendo meno». La ragione per cui la classe media in via di estinzione e i ceti popolari la pensano diversamente sulle questioni ecologiche è chiaro: «Il bilancio del carbonio dell’aeronautica non è mai evocato, perché non si può tassare il kerosene in un contesto di mondializzazione dei trasporti. 
L’inquinamento della mobilità dei “ricchi” è dunque meno tassato di quello dei “poveri” sedentari. Più in generale, le metropoli sono nuove cittadelle medievali, con una borghesia che si rinchiude dietro i suoi bastioni e intende pure istituire presto dei pedaggi urbani: il ritorno delle concessioni! In questi spazi chiusi, gli abitanti hanno soltanto bisogno di collegamenti per uscire: aerei, treni ad alta velocità; e l’automobile per loro è obsoleta. Inversamente, i ceti popolari oggi vivono sempre più lontano dal posto di lavoro e hanno un bisogno vitale dell’auto. Nella demonizzazione dell’auto condotta dalle élites si evidenzia una forma di incoscienza delle difficoltà reali di questi concittadini e anche un disprezzo di classe. La reazione della classe politica superiore è stata di accusare le classi popolari di non avere consapevolezza della
problematica ecologica! I conflitti sociali sono sempre esistiti, ma questa è la prima volta nella storia che c’è una perdita di contatto così grande fra l’alto e il basso della società. Tutti i francesi desiderano preservare l’ambiente. Nessuno consuma il diesel per puro piacere. Alla stessa maniera, se si considera la questione del multiculturalismo, tutto il mondo desidera conservare il proprio capitale culturale e un rapporto distanziato con l’Altro. Ma bisogna distinguere gli obiettivi e i mezzi. Se ho i mezzi per tenere a distanza l’Altro, aggirando la questione della scuola per esempio, posso fare l’apologia della società aperta senza difficoltà. Lo stesso vale per l’ecologia. Si possono facilmente fare discorsi sulla necessità di preservare l’ambiente quando si hanno i mezzi per offrirsi una vettura elettrica o per consumare biologico. La difesa dell’ecologia, come la promozione della “società aperta”, sono divenuti segni di distinzione sociale».

I MORALIZZATORI ECOLOGISTI
Per Le Goff la rivolta dei “giubbotti gialli” non fa che catalizzare tutti i mali nati dagli sconvolgimenti della società francese negli ultimi decenni. Essa esprime il rigetto di quattro decenni di liberalismo culturale e di adattamento economico a marce forzate voluto dalle élites. «Che percentuale rappresentano le automobili nell’inquinamento e nel riscaldamento climatico in rapporto all’insieme dei trasporti stradali, marittimi e aerei? Coloro che predicano il verbo ecologista sono spesso gli stessi che prendono l’aereo per trascorrere le vacanze in paesi lontani nel medesimo tempo che si considerano “verdi”. Non si sta facendo pagare ai privati il prezzo della buona coscienza ecologica e politica, nel quadro del libero scambio mondializzato che non si preoccupa di problemi ecologici? Da anni gli appelli reiterati ad adattarsi a una concorrenza mondializzata dove il prezzo del lavoro e le protezioni sociali diventano meri valori di aggiustamento si accompagnano a discorsi moralizzatori nell’ambito dell’ecologia, della cultura e dei costumi da un punto di vista modernista e alla moda. Questa congiunzione rafforza le divisioni in seno alla società fra le élites al potere e una buona parte della popolazione».

I NUOVI PELLEROSSA
«I giubbotti gialli», scrive Rioufol, saggista conservatore autore di La Guerre civile qui vient, «sono dei Pellerosse: come loro al tempo che fu si battono contro uno Stato rullo compressore per il quale l’antico popolo è un ostacolo alla “trasformazione” del paese. Ora, questi francesi indesiderabili non sono candidati al suicidio. I ribelli non hanno alcuna intenzione di restare nelle loro riserve indiane ad ammuffire: queste unità residenziali della Francia periferica, dove i parcheggi dei supermercati e le rotonde stradali servono oggi da punti di concentrazione dei manifestanti. L’insurrezione contro le tasse sul carburante unisce una gran parte della classe media. Essa protesta anche contro l’indifferenza dei “primi della cordata”, contro il centralismo del potere e l’assenza di democrazia. Il poujadismo si fermava ai piccoli commercianti, la sociologia degli indignati è più ampia. I macronisti senza dubbio non amano questa Francia: troppo bianca, troppo attaccata alle radici, troppo patriottica».

FERMARE LA DEGRADAZIONE
«Siccome le classi medie non creavano problemi, i governanti per troppo tempo hanno pensato che non ne avessero», scrive Dominique Reynié, direttore generale di Fondapol, un centro studi liberal-progressista ed europeista. «L’aumento delle tasse sui carburanti le conduce alla rivolta perché si sentono ingannate, essendo l’automobile indissociabile dal modello residenziale che esse rivendicano come loro ideale. Era un mondo a parte, con un certo confort a prezzo moderato, ma anche al riparo dalle forme di vita urbana contemporanea che fanno paura: l’inciviltà, una certa brutalità, i conflitti interculturali… Dopo una serie di misure come la chiusura dei commissariati o degli ospedali, l’aumento del prezzo della benzina e del gasolio è percepito come la conferma che a essere messo in discussione è il modo di vivere delle classi medie, il loro stile di vita. I “giubbotti gialli” sono il primo tentativo di arrestare questo processo di degradazione. Non sarà l’ultimo».

COSCIENZA RIVOLUZIONARIA
Infine Jean-Claude Michea, l’autore de I misteri della Sinistra, si è schierato apertamente coi giubbotti gialli, contrapponendo il loro movimento a quello del 2016 contro la riforma della legislazione sul lavoro al tempo della presidenza Hollande: «Il movimento dei “giubbotti gialli” è, in una certa maniera, l’esatto contrario di “Nuit Debout”. Quest’ultimo movimento, semplificando, era in effetti anzitutto un tentativo incoraggiato dalla maggior parte della stampa borghese da parte del “10%” (cioè coloro che sono preposti o stanno per esserlo all’inquadramento tecnico, politico e culturale del capitalismo moderno) di disinnescare la critica radicale del Sistema, dirigendo tutta l’attenzione politica sul solo potere (certo decisivo) di Wall Street e dei famosi “1%”. Una rivolta, di conseguenza, dei ceti urbani ipermobili e superdiplomati che rappresentano, dai tempi di Mitterrand, il principale vivaio nel quale si reclutano i quadri della sinistra e dell’estrema sinistra liberali. Nel caso dei “giubbotti gialli”, al contrario, sono proprio quelli che stanno in basso che si ribellano, avendo sufficiente coscienza rivoluzionaria per rifiutare di dovere ancora scegliere fra sfruttatori di destra e sfruttatori di sinistra».

CONTRO GLI SFRUTTATORI DI SINISTRA
Agli sfruttatori di sinistra e al loro moralismo ecologista il socialista Michéa riserva la sua indignazione: «Non è l’auto come simbolo della loro integrazione al mondo del consumo che i “giubbotti gialli” difendono. Si tratta semplicemente del fatto che la loro vettura diesel acquistata di seconda mano (e che la Commissione Europea cerca già di togliere loro inventando continuamente nuove norme di “controllo tecnico”) rappresenta la loro ultima possibilità di sopravvivere, cioè di avere ancora un tetto, un lavoro e qualcosa da mangiare, loro e la loro famiglia, all’interno del sistema capitalistico così come è diventato, e che avvantaggia sempre più i vincenti della mondializzazione. E pensare che è anzitutto questa “sinistra al kerosene”, che vola di aeroporto in aeroporto per portare nelle università del mondo intero (e in tutti i Festival di Cannes) la buona parola “ecologica” e “associativa” che osa impartire a loro lezioni di ambientalismo!».


giovedì 29 novembre 2018

EDUCARE È L'INIZIO DELLO SVILUPPO? - Prof. Dott. Giancarlo Cesana

 
3° incontro de "IL PERCORSO ELEMENTARE DI CULTURA" (quarto anno) dal titolo: "EDUCARE È L'INIZIO DELLO SVILUPPO? - Prof. Dott. Giancarlo Cesana ". Giovedì 22 novembre 2019, Sala Cacciaguerra Cesena.

Interviene il Prof. Dott. Giancarlo Cesana: Professore di Igiene Generale e Applicata all'Università degli Studi di Milano Bicocca.


MONS. CHARLES J. CHAPUT ARCIVESCOVO DI PHILADELPHIA: “NON CI SONO ‘NUOVI PARADIGMI’ O RIVOLUZIONI NEL PENSIERO CATTOLICO. QUESTO LINGUAGGIO È FUORVIANTE”


Quest’anno ricorre il  20° anniversario dalla pubblicazione dell’enciclica Fides et Ratio. Papa Giovanni Paolo II, con quella enciclica, volle profeticamente denunciare la pericolosa deriva della ragione verso lo scetticismo e il nichilismo. Il papa all’epoca intuì che vi era una “crisi di fiducia nella ragione”che si rivelava essere pericolosa per la fede. Era quello un pericolo che la Chiesa non poteva permettersi di sottovalutare, sul quale non poteva permettersi di rimanere in silenzio. La ragione infatti, per Grazia, riconosce ed aderisce alla Verità, per la quale è fatta.
Oggi la distruzione dell’umano è conclamata e la ragione è sempre più debole. Però la risposta sembra essere altrettanto debole.
Della Fides et Ratio ci dà qualche cenno l’arcivescovo di Philadelphia, mons. Charles J. Chaput, in questa intervista (qui) , pubblicata su Catholic News Agency. Ecco alcuni stralci.

Domanda: Come può il cattolico medio trarre beneficio dalla enciclica Fides et ratio, 20 anni dopo la sua pubblicazione?
 Chaput: (…) Il principale risultato di Fides et Ratio è che imparare a pensare chiaramente, con la Chiesa, in modo maturo e ben informato, è vitale. E’ cruciale tanto quanto sentire profondamente le nostre convinzioni religiose. Il sentimento non basta, e questo influisce direttamente su come comprendiamo il ruolo della coscienza.
La fede cristiana è qualcosa di più della buona volontà e delle buone intenzioni. La coscienza è più delle nostre opinioni personali sincere. Una coscienza sana ha bisogno di una forte formazione nelle verità comunemente affermate nella comunità cattolica. Senza di ciò, la coscienza può molto rapidamente trasformarsi in una macchina degli alibi. Il mondo è un luogo complicato. Richiede solide capacità di ragionamento cattolico radicate nell’insegnamento della Chiesa.
Il problema è che ora abbiamo almeno due generazioni di catechesi povera e di formazione della coscienza molto inadeguata. Così, quando alcuni ci dicono di lasciare le decisioni morali di oggi alle “coscienze adulte” del nostro popolo, potremmo desiderare di essere d’accordo – idealmente – ma prima di fare ciò, dobbiamo esaminare che cosa significhi esattamente questo. Abbiamo moltissimi adulti con credenziali di successo che si considerano cattolici, ma la cui educazione alla fede si è interrotta nel sesto anno. Recuperare la disciplina del buon ragionamento morale cattolico è urgente.

 I CATTOLICI HANNO BISOGNO DI FEDE E RAGIONE, NON DI UN NUOVO PARADIGMA

Domanda: Se qualcuno si trova in un ambiente culturale o ecclesiale dominato da una filosofia e da un teologia povera, come dovrebbe rispondere?
Chaput: Ignorare le sciocchezze, leggere, guardare e ascoltare le buone fonti cattoliche, e vivere la propria fede in conformità con ciò che la Chiesa ha sempre insegnato. L’insegnamento essenziale (della Chiesa, ndr) si applica ancora al matrimonio, al sesso, all’onestà e a tutto il resto. Non ci sono “nuovi paradigmi” o rivoluzioni nel pensiero cattolico. L’uso di questo tipo di linguaggio fuorviante non fa che aggiungere confusione ad un’epoca che confonde.

Domanda: Perché Lei pensa che questi problemi di fede e ragione siano così ricorrenti nel nostro tempo?
Chaput: La scienza e la tecnologia possono far sembrare – ma solo sembrare – il soprannaturale ed il sacro non plausibili. Il linguaggio della fede può cominciare a suonare alieno ed irrilevante. Questo è il motivo per cui perdiamo così tanti giovani prima ancora che comincino a considerare il credo religioso. Sono catechizzati ogni giorno da un flusso di distrazioni materialiste che non smentiscono Dio, ma creano indifferenza nei suoi confronti. (come disse sinteticamente Cornelio Fabro: Dio se c’è non conta, ndr)
La Chiesa sta lottando con molto dubbio (cioè con molta incertezza, ndr). È naturale in un’epoca di rapidi cambiamenti. Penso che molti pastori e studiosi della Chiesa abbiano semplicemente perso la fiducia nella razionalità della fede e nell’affidabilità della Parola di Dio senza essere disposti ad ammetterlo. Piuttosto, si rifugiano nei sentimenti umanitari e nell’azione sociale. Ma non hai bisogno di Dio per nessuna di queste cose, almeno nel breve periodo. A lungo andare, Dio è l’unico sicuro garante dei diritti umani e della dignità. Quindi abbiamo bisogno di pensare il nostro cristianesimo – profondamente, fedelmente e rigorosamente – e sentirlo.
Ecco perché l’enciclica Fides et Ratio è così importante. Essa ce lo ricorda.



IL NON DETTO DELLE BUONE CAUSE


LUCA RICOLFI
Il caso della giovane volontaria rapita e sequestrata in Kenya riapre antiche ferite nell’opinione pubblica italiana. Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima. Chi ha buona memoria, o non è troppo giovane, ricorderà sicuramente il caso delle “due Simone”, che tante polemiche suscitò 14 anni fa (estate 2004), regnante Berlusconi e in piena guerra in Iraq.
Simona Torretta e Simona Pari 2004
Ma perché tanto si discute e tanto ci si divide quando accadono drammi di questo tipo? Perché non ci limitiamo a sperare che qualcuno, sia esso il nostro governo o quello del paese dove è avvenuto il rapimento, riesca a riportare a casa la persona che è stata rapita?
La ragione di fondo è che, di fronte ai sequestri di volontari impegnati in una causa umanitaria, scattano due reazioni opposte, talora entro la medesima persona. La prima è un sentimento di ammirazione per chi spende i suoi anni migliori per aiutare soggetti fragili, siano essi bambini, donne, malati, poveri. La seconda, più che una reazione, è una sorta di stato di perplessità e di dubbio, che si manifesta attraverso un groviglio di domande.
Queste perplessità, più o meno confusamente, poggiano su vari ordini di pensieri. Ma c’è un elemento comune che li attraversa tutti, ed è l’idea che, quando si parla di questo genere di scelte di vita, ci sia un non detto, un pezzo di verità che resta troppo spesso in ombra.
Un tipico non detto sono i costi delle scelte più imprudenti. Costi che per i paesi che, come l’Italia, sono usi pagare riscatti, sono di molti tipi, non solo economici. Le operazioni di liberazione degli ostaggi possono costare la vita ai liberatori, come accadde nel 2004, quando per liberare la giornalista Giuliana Sgrena, in Iraq per un reportage di guerra, perse la vita il nostro agente del SISMI Nicola Calipari. Il denaro del riscatto può essere usato per organizzare nuove operazioni terroristiche, che faranno altri morti innocenti. E proprio il buon esito della transazione può incentivare nuovi sequestri, tanto più probabili verso i cittadini dei paesi inclini alla trattativa (è questo il motivo per cui i governi americano e inglese non trattano). Per non parlare di quel che gli economisti chiamano il costo opportunità di ogni nostra scelta: se metto le mie energie in una cosa, le sottraggo a un’altra. Osservazione che può sembrare sottile o capziosa, ma cessa di esserlo quando ci si chiede perché, con tutti i drammi che abbiamo in patria (dalla povertà alla non autosufficienza), così pochi giovani si sentano attratti dall’affrontarli, e preferiscano esercitare le loro virtù in teatri lontani e spesso rischiosi.
E qui veniamo al non detto più insidioso, quello che riguarda i benefici dell’altruismo. Ciò che, a una parte dell’opinione pubblica non torna, è la retorica del racconto delle gesta umanitarie, per lo più descritte nel registro dell’altruismo, dell’abnegazione, del sacrificio di sé, e così raramente colte nel registro sociologicamente più plausibile, ovvero come strategie di autorealizzazione e di costruzione dell’identità (un tratto, sia detto per inciso, che spiega la sottovalutazione dei rischi: è proprio perché così cruciali nella costruzione del sé, che le imprese in teatri pericolosi non suscitano il timore che meriterebbero).
Ecco perché siamo combattuti. Da un lato l’ammirazione per una gioventù che, come ha scritto ieri Massimo Gramellini, non è fatta né di “lamentosi” vittimisti né di indolenti “sdraiati”.  Dall’altro la sensazione che, alla “meglio gioventù” di oggi, un po’ più di lucidità e consapevolezza non farebbero male.
E’ diventato normale, in tutte le società occidentali, che la stella polare di ognuno, giovane e meno giovane, sia la felicità individuale, la cosiddetta autorealizzazione. Una meta per lo più perseguita con determinazione, costi quel che costi, e che crea non pochi problemi nuovi, anche di natura diversissima fra loro: dalla rottura precoce delle unioni sentimentali alla mancanza di elettricisti (e di decine di altre categorie di lavoratori).
Nicola Calipari
Che cosa c’entrano le separazioni con gli elettricisti? C’entrano eccome, perché alla base di entrambe c’è l’enorme, incontenibile, indomito bisogno di autorealizzazione che pervade le società moderne, e conduce a rompere un legame appena se ne presenta uno più promettente, ma anche a rifiutare una carriera solida ma prosaica (elettricista) appena se ne intravede una più incerta ma gratificante (blogger, conduttore televisivo, cantante). Con enormi conseguenze, individuali e collettive: la moltiplicazione delle diadi madre-figlio (più raramente padre-figlio), con uno dei genitori volato a più lieti lidi, la crescente difficoltà delle imprese di trovare le maestranze che servono.
Ecco perché dicevo che, forse, un po’ più di consapevolezza non guasterebbe. Chi usa il suo tempo a favore degli altri merita innanzitutto ammirazione. Ma nel vasto mondo di coloro che perseguono buone cause, merita una speciale ammirazione chi è impegnato in cause umili, che non dànno né visibilità, né speciali gratificazioni.
E, soprattutto, non mettono a repentaglio la vita altrui, come accade ogni volta in cui la causa che abbiamo scelto può farci trovare in situazioni drammatiche, da cui solo gli altri ci potranno tirare fuori. Non di rado a prezzo della loro vita, come la storia di Nicola Calipari ci ricorda.
Articolo pubblicato da Il Messaggero il 23 novembre 2018

L'UOMO GIUSTO AL POSTO GIUSTO


Si tratta del generale dei gesuiti, padre Augusto Sosa, eletto presidente dei superiori generali di tutti gli ordini religiosi.
L’elezione, avvenuta durante i lavori della novantunesima assemblea dell’Usg, Unione superiori generali, che si è tenuta presso la Casa Divin Maestro di Ariccia sul tema “Giovani, fede e discernimento”, non può che rallegrare.
Arturo Sosa Abascal, 31° superiore generale dei Gesuiti
Ricorderete infatti che padre Arturo Sosa Abascal tempo fa, interrogato a proposito della comunione ai divorziati risposati, si distinse per aver autorevolmente spiegato: “Intanto bisognerebbe incominciare una bella riflessione su che cosa ha detto veramente Gesù. A quel tempo nessuno aveva un registratore per inciderne le parole”. 
E quando poi gli si fece notare il passo evangelico di Matteo 19,3-6 (“Non divida l’uomo ciò che Dio ha congiunto”), Sosa autorevolmente rispose: “Io mi identifico con quello che dice papa Francesco. Non si mette in dubbio, si mette a discernimento”
Ecco perché i colleghi superiori devono aver automaticamente pensato: è lui l’uomo giusto al posto giusto!

giovedì 22 novembre 2018

VENEZIA IN ROSSO, UN MARE DI SANGUE PER NON DIMENTICARE I CRISTIANI PERSEGUITATI




Ieri sera le acque del Canal Grande si sono tinte di rosso. 

Venezia è diventata rosso sangue, quello dei cristiani perseguitati in tutto il mondo. Il merito è di Aiuto alla Chiesa che soffre, benemerita Fondazione di diritto pontificio che non vuole arrendersi a dimenticare (come fanno tutti, come facciamo anche noi) chi, ancora oggi, è ucciso e vessato solo a causa della propria fede.

Bisogna essere grati ad Acs che, ormai da diversi anni, organizza questi eventi di grande impatto. La Fontana di Trevi, il Colosseo, il Palazzo di Westminster a Londra, la statua del Cristo Redentore a Rio de Janeiro, la Basilica del Sacro Cuore a Parigi, la Cattedrale di Manila: sono questi i luoghi che Acs ha mostrato rosso sangue. 
La cosa interessante è che sono luoghi pubblici, su piazza, che tutti possono vedere. Perché è sempre buona cosa scrivere, organizzare incontri e convegni su questa grande tragedia dimenticata che è la persecuzione anticristiana, ma è anche necessario che questa denuncia arrivi a “disturbarci” mentre camminiamo per strada pensando a tutt’altro, magari mentre facciamo shopping.
https://youtu.be/eaDKAfBIny0

sabato 17 novembre 2018

REGNO UNITO E ITALIA. L'ORA DELLE SCELTE FATALI


GLI ULTIMI BAGLIORI DI QUESTA UNIONE EUROPEA 
La Brexit è il detonatore della nostra crisi contemporanea, quella dell'Occidente.

Scoppia non a caso a Londra, patria del capitalismo (qui vi è sepolto anche il suo più importante critico, Karl Marx) e si propaga sempre non casualmente a Washington (Trump) e Parigi (Macron), le città delle rivoluzioni e della libertà. L'Unione europea di fronte a questa ondata che ha origini lontane (1990-2008, ascesa e declino della globalizzazione) avrebbe dovuto affrontare la Brexit e il caso inglese con grande delicatezza, ma è entrata in sala operatoria con l'ascia e agitandola ha costretto - di questo si tratta - la premier Theresa May a bere la cicuta di un accordo che è troppo oneroso e umiliante per gli inglesi.

Lo scontro tra la Commissione Ue e il governo italiano ha la stessa matrice culturale dello scontro con la Gran Bretagna.

L'Unione europea applica all'Italia - paese fondatore dell'Unione, terza economia dell'Eurozona - la sua logica economica senza guardare alla sostanza politica del problema che si presenta con l'Italia: lo scenario anticipato dell'Europa dopo il voto di maggio 2019. Questo quadro c'è già in Svezia (dopo il voto non riescono ancora a formare il governo), si sta profilando in Germania (la Grosse Koalition è in panne), c'è una profonda crisi di consenso per Macron in Francia, una crisi di carattere costituzionale in Spagna (vedere alla voce Catalogna), uno Stato tenuto in vita in maniera artificiale in Grecia (vedere cosa sostiene il Fondo monetario internazionale). I parlamenti prima diventano zoppi, poi vengono conquistati dai partiti nazional-populisti o da forze anti-sistema che sostituiscono quelle tradizionali.

Nonostante questi bagliori giganteschi, la Commissione Ue e l'Italia non trovano alcun punto di incontro. Bruxelles prepara la procedura d'infrazione contro il governo di Giuseppe Conte, lo spread si alimenta delle chiacchiere in libertà di tutti, a Palazzo Chigi Di Maio e Salvini litigano sui... termovalorizzatori. 
Chi guida la politica europea dovrebbe sapere a cosa condurrà il muro contro muro con l'Italia. Ma anche in questo caso l'atteggiamento è quello di chi sa di essere in posizione di supremazia e imporre delle scelte. Come abbiamo visto finora, così non è, per la semplice ragione che in Italia c'è un governo non solo di segno, ma di natura completamente diversa rispetto al passato. Ancora una volta, siamo di fronte a un deficit non contabile, ma di lettura storica. 

Il caso è quello del vincitore di una guerra che messo in posizione di assoluto vantaggio decide di infierire sul vinto. Così si sta comportando l'Unione europea nel caso inglese e italiano. Le parti di un contratto sono due. E devono incontrarsi. È sempre la storia a spiegarci cosa accade. Così dalla Seconda guerra mondiale torniamo indietro e passiamo alla Prima guerra mondiale, alla disastrosa pace di Versailles del 1919 in cui le nazioni vincitrici strangolarono la Germania con le sanzioni. Il risultato fu l'avvento di Hitler e un'altra guerra ancora più sanguinosa. Tutto questo è raccontato con maestria assoluta da John Maynard Keynes ne Le conseguenze economiche della pace, libro profetico scritto prima e non dopo le conseguenze inattese che poi puntualmente arrivarono. 

Il caso inglese e il caso italiano stanno correndo in parallelo, stessa rotta di collisione. Le decisioni fatali dell'Unione europea e dei governi di Londra e Roma preparano un gigantesco big bang della politica europea.

Sono ancora in tempo a fermarsi? Certamente, ma bisogna ricordare che nella storia ci sono fatti e direzioni di marcia che a un certo punto appaiono ineludibili. 

Così oggi la hard Brexit diventa un rischio concreto e una crisi finanziaria dell'Italia una faccenda maledettamente seria. Questi due fattori, combinati, possono creare un guaio ancor più grande, una singolarità, la rottura dell'Unione europea e dell'Eurozona.

Da LIST, venerdì 16 novembre

QUANDO LA “GLOSSA” SOSTITUISCE IL TESTO (CON UNA SPIEGAZIONE)


LEONARDO LUGARESI
Dunque i nostri vescovi, come previsto, hanno sentito la necessità di cambiare la traduzione del testo liturgico del Padre Nostro perché hanno ritenuto non più accettabile l'espressione «non ci indurre in tentazione». A me quelle parole non hanno mai fatto alcun problema e non ricordo di essermi mai accorto che facessero problema a qualcun altro, ma questo vuol dire poco: sono “epi-skopoi”, vedono le cose dall'alto, e di lì avranno visto che quella traduzione era in effetti una gran difficoltà per il popolo di Dio. “Non capisco ma mi adeguo”, come diceva un mio concittadino.
Duccio di Buoninsegna, La tentazione di Cristo, Duomo di Siena
C'è però un altro problema, che nasce dal fatto che hanno deciso di sostituire quella “vecchia traduzione inadeguata” non con un'altra traduzione ma con una spiegazione. Tale, infatti, deve considerarsi l'espressione adottata: «non ci abbandonare alla tentazione».
Mi chiedo se abbiano ponderato bene le implicazioni di questa scelta, che di fatto sostituisce la glossa al testo. Quante sono le asperità, le oscurità, perfino gli “scandali” che il testo biblico ci mette davanti? Innumerevoli. Ma è un bene sottrarle ai fedeli? Origene e dopo di lui gli altri Padri ci hanno insegnato come e perché l'asperità del testo sacro sia invece un dono prezioso al lettore che voglia veramente assimilarne il senso. 
Con questo metodo, che per altro è già in vigore da tempo, tutte le asperità possono essere appianate, tutte le oscurità chiarite e tutti gli “scandali” tolti di mezzo. Di questo passo, non finiremo per avere un testo facilitato, a nostra misura, che dice sempre quello che ci aspettiamo che dica? Con un po' di malizia, si potrebbe arguire che, in questo modo, invece di “vivere il vangelo sine glossa” – com'era l'ideale arduo e quasi irraggiungibile di Francesco (quell'altro) – si potrà passare direttamente alla glossa, saltando il testo. Ma se la glossa sostituisce il testo, niente più Origene, niente più Francesco.
P.S. A chi obiettasse che questi sono arzigogoli aristocratici, fisime da eruditi che hanno tempo da perdere, mentre i vescovi giustamente si preoccupano del buon popolo di Dio, farei sommessamente notare che in fin dei conti chi sa il greco la possibilità di sapere cosa ci sia scritto nel vangelo ce l'ha comunque, mentre è proprio alla grande maggioranza dei fedeli, che il greco non lo conoscono, che viene tolto l'accesso al testo così com'è, quando al posto di una corretta traduzione gli viene data un'esegesi.
Leggi  anche il commento di NICOLA BUX



BENEDETTO XVI : CHE COS'E' LA MUSICA


Il  4 LUGLIO 2015 a Castel Gandolfo, il Papa emerito Benedetto XVI ha ricevuto il dottorato honoris causa da parte della Pontificia Università “Giovanni Paolo II” di Cracovia e dell’Accademia di Musica di Cracovia (Polonia). A conferire le due Lauree è il cardinale Stanisław Dziwisz, arcivescovo di Cracovia, Gran Cancelliere della Pontificia Università “Giovanni Paolo II”.


(…) Che cos’è in realtà la musica? Da dove viene e a cosa tende?
Penso si possano localizzare tre “luoghi” da cui scaturisce la musica.
Una sua prima scaturigine è l’esperienza dell’amore. Quando gli uomini furono afferrati dall’amore, si schiuse loro un’altra dimensione dell’essere, una nuova grandezza e ampiezza della realtà. Ed essa spinse anche a esprimersi in modo nuovo. La poesia, il canto e la musica in genere sono nati da questo essere colpiti, da questo schiudersi di una nuova dimensione della vita.
Una seconda origine della musica è l’esperienza della tristezza, l’essere toccati dalla morte, dal dolore e dagli abissi dell’esistenza. Anche in questo caso si schiudono, in direzione opposta, nuove dimensioni della realtà che non possono più trovare risposta nei soli discorsi.
Infine, il terzo luogo d’origine della musica è l’incontro con il divino, che sin dall’inizio è parte di ciò che definisce l’umano. A maggior ragione è qui che è presente il totalmente altro e il totalmente grande che suscita nell’uomo nuovi modi di esprimersi. Forse è possibile affermare che in realtà anche negli altri due ambiti – l’amore e la morte – il mistero divino ci tocca e, in questo senso, è l’essere toccati da Dio che complessivamente costituisce l’origine della musica.
Trovo commovente osservare come ad esempio nei Salmi agli uomini non basti più neanche il canto, e si fa appello a tutti gli strumenti: viene risvegliata la musica nascosta della creazione, il suo linguaggio misterioso. Con il Salterio, nel quale operano anche i due motivi dell’amore e della morte, ci troviamo direttamente all’origine della musica della Chiesa di Dio. Si può dire che la qualità della musica dipende dalla purezza e dalla grandezza dell’incontro con il divino, con l’esperienza dell’amore e del dolore. Quanto più pura e vera è quell’esperienza, tanto più pura e grande sarà anche la musica che da essa nasce e si sviluppa.

A questo punto vorrei esprimere un pensiero che negli ultimi tempi mi ha preso sempre più, tanto più quanto le diverse culture e religioni entrano in relazione fra loro. Nell’ambito delle più diverse culture e religioni è presente una grande letteratura, una grande architettura, una grande pittura e grandi sculture. E ovunque c’è anche la musica. E tuttavia in nessun’altro ambito culturale c’è una musica di grandezza pari a quella nata nell’ambito della fede cristiana: da Palestrina a Bach, a Händel, sino a Mozart, Beethoven e Bruckner. La musica occidentale è qualcosa di unico, che non ha eguali nelle altre culture. Questo ci deve far pensare. (…)

LEGGI TUTTO L'INTERVENTO NEL LINK

L’EUROPA CHE RISCHIA DI TORNARE AL PASSATO



Chi teme la rinascita dei nazionalismi dovrebbe occuparsi anche dei limiti, culturali e politici, e dei difetti del processo di integrazione comunitaria

Angelo Panebianco

Per condividere l’affermazione di Angela Merkel nel suo discorso al congresso dei popolari europei secondo cui «i nazionalismi portano la guerra» non è necessario essere profondi conoscitori della storia umana. La Merkel ha ripetuto quanto il suo mentore politico, lo scomparso Helmut Kohl, diceva spesso, ossia che l’integrazione europea è la migliore garanzia contro la possibilità che la guerra torni a insanguinare l’Europa.
 
Merkel e Macron per ora ridono ......
Nel 1990 uno studioso americano, John Mearsheimer, riflettendo su quelle che egli riteneva le probabili conseguenze della caduta del muro di Berlino e dell’unificazione tedesca, scrisse un saggio dal titolo suggestivo: Back to the future, ritorno al futuro. Secondo Mearsheimer l’Europa sarebbe presto tornata a dividersi come aveva sempre fatto, gli Stati europei avrebbero ricominciato a praticare, gli uni nei confronti degli altri, il vecchio gioco della politica di potenza.
Quel saggio suscitò una valanga di critiche. Era in controtendenza rispetto
al clima euforico, da dopoguerra, che prevaleva in Occidente in quel momento. Mearsheimer venne considerato un guastafeste. Fu un coro unanime: altro che ritorno della politica di potenza — si disse —, mai come ora la collaborazione fra gli europei è stata così stretta, il passato non può ritornare. Il problema con le scommesse/profezie sul futuro è che non bastano quasi mai pochi anni
per decidere della loro validità o falsità.

I processi storici, per dispiegarsi, possono richiedere decenni. Non è così sicuro che se il saggio di Mearsheimer anziché nel 1990 fosse stato pubblicato uno o due anni fa avrebbe ricevuto la stessa accoglienza , al limite dell’irrisione, che ricevette ventotto anni or sono.

L’integrazione europea ha funzionato producendo benefici per tutti i Paesi coinvolti fin quando era unanimemente pensata come un gioco a somma variabile, nel quale, cioè, tutti — anche se, eventualmente, in modo diseguale — potevano guadagnarci. Il ritorno dei nazionalismi (impropriamente detti sovranismi) ha trasformato — non per tutti gli europei ma per molti sì — i rapporti entro l’Unione in un gioco a somma zero: l’impressione di coloro che sono suggestionati dalla propaganda nazionalista/sovranista è che, in Europa, il guadagno dell’uno comporti automaticamente la perdita dell’altro. Ma nel momento in cui l’integrazione europea diventa (viene percepita come) un gioco a somma zero il motore dell’integrazione si imballa e l’Unione corre il rischio di implodere. Se l’Unione implodesse, che cosa pensate che accadrebbe dopo qualche tempo in Europa? Da un lato, il Vecchio Continente diventerebbe terra di conquista: sfruttando le sue divisioni le grandi potenze cercherebbero, l’una in competizione con l’altra, di accrescere la propria influenza sui vari Paesi europei. Dall’altro lato, le tensioni e i contenziosi fra gli europei non potrebbero più usufruire di quella «camera di compensazione» che è stata, per decenni, la Comunità/Unione. Naturalmente, anche se sostenerlo può essere utile (ma lo è davvero?) alla polemica politica, è troppo comodo limitarsi a puntare il dito contro i rinascenti nazionalismi. Perché essi non ci sono arrivati addosso da chissà dove, sono la conseguenza dei limiti della costruzione europea. Questi limiti sono per lo più antichi, anche se solo oggi la storia ci sta presentando il conto.
Ci sono, nella storia dell’integrazione, limiti culturali e limiti politici. Un limite culturale è stata l’idea, a lungo propagandata dagli euro-entusiasti, secondo cui sarebbe stato possibile prima o poi sostituire le democrazie nazionali con una «democrazia sovranazionale» europea. Ma una tale democrazia non potrà mai nascere. Nessuno potrà mai fidarsi di, e votare per, un qualsiasi candidato a una qualsiasi carica europea se continuerà ad avere bisogno dell’interprete per capire che cosa quel candidato dica e prometta. Le cosiddette «élites cosmopolite», sproloquiando di fantomatiche democrazie sovranazionali , hanno involontariamente favorito la reazione nazionalista in atto. Un altro limite culturale — ma con pesanti ricadute istituzionali e politiche — è stato a lungo quello di pensare all’integrazione europea (soprattutto sotto l’influsso della cultura politica francese) come a un processo di costruzione di uno «Stato» (sovranazionale), confondendo così il federalismo con la statualità.

I limiti politici sono stati molti. Forse il più grave è consistito nella «rimozione» del ruolo degli Stati Uniti. Per non urtare i sentimenti anti-americani di una parte degli europei, si è cercato a lungo di minimizzare l’importanza dei legami interatlantici. Ma furono gli Stati Uniti il principale sponsor (in funzione antisovietica) dell’integrazione europea. Furono gli Stati Uniti che garantendo la sicurezza militare agli europei in cambio del riconoscimento della loro leadership, permisero alla Comunità/Unione di investire solo in sviluppo e welfare anziché in sicurezza. Per inciso, chi nasce gatto non può diventare cane: l’impossibilità di dare vita a una «difesa europea» si spiega in questo modo.

Oggi la crisi in atto dei legami interatlantici rende ancora più grave la crisi europea. Minimizzare l’importanza di quei legami non ha mai aiutato gli europei a pensare in modo realistico e convincente la loro impresa comune.

Ancora, fra i limiti politici, si può citare una assai poco accorta gestione dell’integrazione monetaria che ha finito per esasperare le divisioni fra europei. O l’altrettanto poco accorta gestione della questione dell’immigrazione: da un lato, Schengen (la libera circolazione delle persone) ma, dall’altro, l’assenza di un controllo comune delle frontiere europee. O, infine, la mancata — da parte delle élites — educazione/preparazione delle opinioni pubbliche al fatto che il successo della cooperazione europea non implica la soppressione pura e semplice degli interessi nazionali.

I limiti sopra elencati hanno alla fine favorito l’emergere di movimenti il cui successo potrebbe comportare la dissoluzione dell’Unione. Chi condivide l’idea della Merkel secondo cui il nostro peggior passato rischia di ritornare non dovrebbe limitarsi a condannare i nazionalismi. Dovrebbe occuparsi dei limiti e dei difetti della costruzione europea.

dal "Corriere della Sera"