LUCA RICOLFI
Il caso della giovane volontaria rapita
e sequestrata in Kenya riapre antiche ferite nell’opinione pubblica italiana. Non è la prima
volta che succede, e non sarà l’ultima. Chi ha buona memoria, o non è troppo
giovane, ricorderà sicuramente il caso delle “due Simone”, che tante polemiche
suscitò 14 anni fa (estate 2004), regnante Berlusconi e in piena guerra in
Iraq.
Simona Torretta e Simona Pari 2004 |
Ma perché tanto si discute e tanto ci si
divide quando accadono drammi di questo tipo? Perché non ci limitiamo a sperare che qualcuno, sia esso il nostro governo
o quello del paese dove è avvenuto il rapimento, riesca a riportare a casa la
persona che è stata rapita?
La ragione di fondo è
che, di fronte ai sequestri di volontari impegnati in una causa umanitaria,
scattano due reazioni opposte,
talora entro la medesima persona. La
prima è un sentimento di ammirazione per chi spende i suoi anni migliori per
aiutare soggetti fragili, siano essi bambini, donne, malati, poveri. La
seconda, più che una reazione, è una sorta di stato di perplessità e di dubbio,
che si manifesta attraverso un groviglio di domande.
Queste perplessità,
più o meno confusamente, poggiano su vari ordini di pensieri. Ma c’è un
elemento comune che li attraversa tutti, ed è
l’idea che, quando si parla di questo genere di scelte di vita, ci sia un non
detto, un pezzo di verità che resta troppo spesso in ombra.
Un tipico non detto sono i costi delle
scelte più imprudenti. Costi che per i paesi che, come l’Italia, sono usi pagare riscatti, sono
di molti tipi, non solo economici. Le operazioni di liberazione degli ostaggi possono
costare la vita ai liberatori, come accadde nel 2004, quando per
liberare la giornalista Giuliana Sgrena, in Iraq per un reportage di guerra,
perse la vita il nostro agente del SISMI Nicola Calipari. Il denaro del riscatto può essere
usato per organizzare nuove operazioni terroristiche, che faranno altri
morti innocenti. E proprio il buon esito della transazione può incentivare nuovi
sequestri, tanto più probabili verso i cittadini dei paesi inclini alla
trattativa (è questo il motivo per cui i governi americano e inglese non
trattano). Per non parlare di quel che gli economisti chiamano il costo
opportunità di ogni nostra scelta: se metto le mie energie in una cosa, le
sottraggo a un’altra. Osservazione che può sembrare sottile o capziosa, ma
cessa di esserlo quando ci si chiede perché, con tutti i drammi che abbiamo in
patria (dalla povertà alla non autosufficienza), così pochi giovani si sentano
attratti dall’affrontarli, e preferiscano esercitare le loro virtù in teatri
lontani e spesso rischiosi.
E qui veniamo al non detto più
insidioso, quello che riguarda i benefici dell’altruismo. Ciò che, a una parte dell’opinione
pubblica non torna, è la retorica del racconto delle gesta umanitarie, per lo
più descritte nel registro dell’altruismo, dell’abnegazione, del sacrificio di
sé, e così raramente colte nel registro
sociologicamente più plausibile, ovvero come strategie di autorealizzazione e
di costruzione dell’identità (un tratto, sia detto per inciso, che spiega
la sottovalutazione dei rischi: è proprio perché così cruciali nella
costruzione del sé, che le imprese in teatri pericolosi non suscitano il timore
che meriterebbero).
Ecco perché siamo
combattuti. Da un lato l’ammirazione
per una gioventù che, come ha scritto ieri Massimo Gramellini, non è fatta né
di “lamentosi” vittimisti né di indolenti “sdraiati”. Dall’altro la sensazione che, alla “meglio
gioventù” di oggi, un po’ più di lucidità e consapevolezza non farebbero male.
E’ diventato normale,
in tutte le società occidentali, che la stella polare di ognuno, giovane e meno
giovane, sia la felicità individuale, la cosiddetta autorealizzazione. Una meta
per lo più perseguita con determinazione, costi quel che costi, e che crea non
pochi problemi nuovi, anche di natura diversissima fra loro: dalla rottura precoce
delle unioni sentimentali alla mancanza di elettricisti (e di decine di altre
categorie di lavoratori).
Nicola Calipari |
Che cosa c’entrano le
separazioni con gli elettricisti? C’entrano eccome, perché alla base di
entrambe c’è l’enorme, incontenibile,
indomito bisogno di autorealizzazione che pervade le società moderne, e
conduce a rompere un legame appena se ne presenta uno più promettente, ma anche
a rifiutare una carriera solida ma prosaica (elettricista) appena se ne
intravede una più incerta ma gratificante (blogger, conduttore televisivo,
cantante). Con enormi conseguenze, individuali e collettive: la moltiplicazione
delle diadi madre-figlio (più raramente padre-figlio), con uno dei genitori
volato a più lieti lidi, la crescente difficoltà delle imprese di trovare le
maestranze che servono.
Ecco perché dicevo
che, forse, un po’ più di consapevolezza non guasterebbe. Chi usa il suo tempo a favore degli altri merita innanzitutto
ammirazione. Ma nel vasto mondo di coloro che perseguono buone cause, merita
una speciale ammirazione chi è impegnato in cause umili, che non dànno né
visibilità, né speciali gratificazioni.
E, soprattutto, non
mettono a repentaglio la vita altrui, come accade ogni volta in cui la causa
che abbiamo scelto può farci trovare in situazioni drammatiche, da cui solo gli
altri ci potranno tirare fuori. Non di rado a prezzo della loro vita, come la
storia di Nicola Calipari ci ricorda.
Articolo pubblicato da Il Messaggero il 23 novembre 2018
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