giovedì 24 dicembre 2020

FRANCESCO: CHI NON GUARDA LA CRISI ALLA LUCE DEL VANGELO, SI LIMITA A FARE L’AUTOPSIA DI UN CADAVERE

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DEL COLLEGIO CARDINALIZIO E DELLA CURIA ROMANA,
PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI

Sala della Benedizione
Lunedì, 21 dicembre 2020

Cari fratelli e sorelle,

1. Il Natale di Gesù di Nazaret è il mistero di una nascita che ci ricorda che «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per rincominciare»,[1] come osserva in maniera tanto folgorante quanto incisiva Hannah Arendt, la filosofa ebrea che rovescia il pensiero del suo maestro Heidegger, secondo cui l’uomo nasce per essere gettato nella morte. Sulle rovine dei totalitarismi del novecento, Arendt riconosce questa verità luminosa: «Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità. […] È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato fra noi”».[2]


Gerard van Honsthrort, 1619, Uffizi Firenze

(omissis)

6. Fratelli e sorelle, questa riflessione sulla crisi ci mette in guardia dal giudicare frettolosamente la Chiesa in base alle crisi causate dagli scandali di ieri e di oggi, come fece il profeta Elia che, sfogandosi con il Signore, gli presentò una narrazione della realtà priva di speranza: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita» (1 Re 19,14). E quante volte anche le nostre analisi ecclesiali sembrano racconti senza speranza. Una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica. La speranza dà alle nostre analisi ciò che tante volte i nostri sguardi miopi sono incapaci di percepire. Dio risponde ad Elia che la realtà non è così come l’ha percepita lui: «Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; […] Io, poi, riserverò per me in Israele settemila persone, tutti i ginocchi che non si sono piegati a Baal e tutte le bocche che non l’hanno baciato» (1 Re 19,15.18). Non è vero che lui sia solo: è in crisi.

Dio continua a far crescere i semi del suo Regno in mezzo a noi. Qui nella Curia sono molti coloro che danno testimonianza con il lavoro umile, discreto, senza pettegolezzi, silenzioso, leale, professionale, onesto. Sono tanti tra voi, grazie. Anche il nostro tempo ha i suoi problemi, ma ha anche la testimonianza viva del fatto che il Signore non ha abbandonato il suo popolo, con l’unica differenza che i problemi vanno a finire subito sui giornali – questo è di tutti i giorni – invece i segni di speranza fanno notizia solo dopo molto tempo, e non sempre.

Chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere: guarda la crisi, ma senza la speranza del Vangelo, senza la luce del Vangelo. Siamo spaventati dalla crisi non solo perché abbiamo dimenticato di valutarla come il Vangelo ci invita a farlo, ma perché abbiamo scordato che il Vangelo è il primo a metterci in crisi.[4] E’ il Vangelo che ci mette in crisi. Ma se troviamo di nuovo il coraggio e l’umiltà di dire ad alta voce che il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, allora, anche davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento, non ci sentiremo più schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio. «Perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore» (Sir 2,5).

7. Infine, io vorrei esortarvi a non confondere la crisi con il conflitto: sono due cose diverse. La crisi generalmente ha un esito positivo, mentre il conflitto crea sempre un contrasto, una competizione, un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle parti.

La logica del conflitto cerca sempre i “colpevoli” da stigmatizzare e disprezzare e i “giusti” da giustificare per introdurre la consapevolezza – molte volte magica – che questa o quella situazione non ci appartiene. Questa perdita del senso di una comune appartenenza favorisce la crescita o l’affermarsi di certi atteggiamenti di carattere elitario e di “gruppi chiusi” che promuovono logiche limitative e parziali, che impoveriscono l’universalità della nostra missione. «Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 226).

La Chiesa, letta con le categorie di conflitto – destra e sinistra, progressisti e tradizionalisti – frammenta, polarizza, perverte, tradisce la sua vera natura: essa è un Corpo perennemente in crisi proprio perché è vivo, ma non deve mai diventare un corpo in conflitto, con vincitori e vinti. Infatti, in questo modo diffonderà timore, diventerà più rigida, meno sinodale, e imporrà una logica uniforme e uniformante, così lontana dalla ricchezza e pluralità che lo Spirito ha donato alla sua Chiesa.

La novità introdotta dalla crisi voluta dallo Spirito non è mai una novità in contrapposizione al vecchio, bensì una novità che germoglia dal vecchio e lo rende sempre fecondo. Gesù usa un’espressione che esprime in maniera semplice e chiara questo passaggio: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). L’atto di morire del seme è un atto ambivalente, perché nello stesso tempo segna la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. Chiamiamo lo stesso momento morte-marcire e nascita-germogliare perché sono la medesima cosa: davanti ai nostri occhi vediamo una fine e allo stesso tempo in quella fine si manifesta un nuovo inizio.

In questo senso, tutte le resistenze che facciamo all’entrare in crisi lasciandoci condurre dallo Spirito nel tempo della prova ci condannano a rimanere soli e sterili, al massimo in conflitto. Difendendoci dalla crisi, noi ostacoliamo l’opera della Grazia di Dio che vuole manifestarsi in noi e attraverso di noi. Perciò, se un certo realismo ci mostra la nostra storia recente solo come la somma di tentativi non sempre riusciti, di scandali, di cadute, di peccati, di contraddizioni, di cortocircuiti nella testimonianza, non dobbiamo spaventarci, e neppure dobbiamo negare l’evidenza di tutto quello che in noi e nelle nostre comunità è intaccato dalla morte e ha bisogno di conversione. Tutto ciò che di male, di contraddittorio, di debole e di fragile si manifesta apertamente ci ricorda con ancora maggior forza la necessità di morire a un modo di essere, di ragionare e di agire che non rispecchia il Vangelo. Solo morendo a una certa mentalità riusciremo anche a fare spazio alla novità che lo Spirito suscita costantemente nel cuore della Chiesa. I Padri della Chiesa erano consapevoli di questo, che chiamavano “la metanoia”. (…)

Leggi qui tutto il discorso

http://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2020/december/documents/papa-francesco_20201221_curia-romana.html

 

 

mercoledì 23 dicembre 2020

“E CHI È BARONCINI?”, CHIESE IL PAPA A GIUSSANI

Giancarlo Cesana 22 dicembre 2020 

Don Fabio non era un prete famoso, ma il primo soldato che il fondatore di Comunione e Liberazione ricordava del suo “esercito”

Don Fabio è spirato alle 7.30 di ieri mattina 21 dicembre , una giornata uggiosa che va d’accordo con la tristezza.

don Fabio Baroncini col Card. Scola e amici

Vidi per la prima volta don Fabio agli inizi degli anni Settanta, in occasione di quello che ricordo come mio primo incontro con gli universitari di Comunione e Liberazione. Eravamo nel salone di un oratorio dalle parti di Città Studi (Milano). Era d’estate, stavamo cantando Laudato si’. A un certo punto sulla soglia aperta di una porta laterale comparve un tizio alto e magro; aveva gli occhiali, indossava pantaloni scuri e una camicia bianca con le maniche arrotolate. Mi sembrò un intellettuale, un tipo pensoso, come diversi altri personaggi che frequentavano Cl. Domandai ai vicini chi fosse; mi dissero Fabio Baroncini, appena ordinato prete.

Per qualche anno non lo vidi più. Lo incontrai nuovamente quando don Angelo Scola, che allora seguiva gli universitari ciellini, gli chiese di venire a “dare una mano” e condividere la responsabilità della conduzione della esperienza di Cl nelle università milanesi. Da allora, per quasi cinquant’anni, con don Fabio ci siamo visti tutte le settimane anche più di una volta, nei momenti di responsabilità del Clu e del Movimento tutto, diocesano e nazionale. Don Fabio in quanto animatore e guida della comunità di Varese, una delle più numerose d’Italia, faceva già parte del Consiglio e della Presidenza di Cl.

Non era un intellettuale, un teorico, anche se era colto perché leggeva moltissimo. Amava la letteratura russa, come dimostrò al Meeting di Rimini con una magistrale conferenza su Dostoevskij. Amava Charles Péguy, Paul Claudel e T. S. Eliot, sulle cui opere tenne decine e decine di incontri, richiesti da studenti medi, universitari e adulti. Amava Dante, che commentava e citava a memoria. Non disdegnava le discussioni teologiche, anzi vi si gettava a capofitto in difesa dell’ortodossia e del valore educativo della dottrina cattolica.

La sua grande preoccupazione era il metodo, ovvero che i contenuti della proposta cristiana non erano vivibili se non erano accompagnati dalla proposta di come viverli. In ciò era un vero seguace di don Luigi Giussani, che «per una parola si sarebbe fatto uccidere», perché le parole non sono suoni intercambiabili, ma espressione consapevole e concreta dell’esistenza nella situazione. Si appellava alla ragione e alla libertà, doti fondamentali di un cristiano che voglia essere uomo e viceversa. La ragione, riconoscendo per vivere la necessità della fede, doveva diventare convinzione, legarsi tenacemente alla verità.

Per don Fabio l’esistenza era chiamata a una continua decisione, che accettava il dramma di tagliare – “decedo”, diceva, con il senso di un tagliare che comporta un po’ morire, fare sacrificio – le strade inutili, vagheggiate ma impossibili. Da lui andavano in tantissimi, che avevano difficoltà personali, nella vocazione, nel lavoro, nel matrimonio o nell’educazione dei figli. Per molti anni abbiamo “lavorato” in coppia. Lui mandava da me, per le mie competenze psicologiche, le persone di cui sospettava fragilità mentali e io mandavo da lui quelli che tendevano a risolvere con un supporto psicologico problematiche esistenziali. Lui lavorava molto più di me perché un buon prete, paterno ed esperto di vita, è molto più necessario di uno psicologo. La mancanza di don Fabio, da quando il Parkinson lo ha imprigionato nella sua silenziosa e marmorea rigidità, si sente tantissimo.

In don Fabio, la stima per don Giussani, la fedeltà al Movimento e alla Chiesa si risolvevano in un’obbedienza intelligente e senza tentennamenti. Fraternità e unità erano condizioni continuamente richiamate, soprattutto negli ultimi tempi, quando capiva che non aveva tempo e forza di soffermarsi su altro, anche se magari avrebbe voluto. Nelle assemblee poteva essere burbero e anche duro, ma poi nel dialogo personale sempre era comprensivo e affettuoso, pur non cedendo sui princìpi cristiani che faceva capire con una dolcezza ferma.

Era un valtellinese nato a Morbegno nel 1942. Portava come esempio di amore coniugale la sua mamma Pina, che, rimasta incinta di lui, vide il suo uomo partire alpino per la Russia, senza saperne più niente – se era vivo, se era morto – fino a guerra finita. Come suo papà, si sentiva un soldato semplice: «Davanti ai muli, dietro i cannoni, lontano dai superiori».

Era appassionato della montagna, dell’impegno e della disciplina che essa richiede, della bellezza delle cime e delle valli, della semplicità della sua gente e dei canti, soprattutto dei canti, che dovevano essere fatti bene, con belle voci soliste e grande attenzione del coro. Anche negli ultimi tempi i canti lo sollecitavano e lo rimettevano in moto: non riusciva quasi più a parlare, ma a cantare sì. Raccontava delle sue imprese, con grande ammirazione per i ragazzi che lo accompagnavano: non si sottovalutava, ma era umile, sapeva riconoscere e valorizzare chi faceva bene e magari meglio di lui. Non l’ho mai sentito chiedere per sé.

Era orgoglioso dell’amicizia, nata in gioventù, con Angelo Scola, divenuto cardinale di Milano. Aveva appeso a una parete una foto grande e bella che ritrae loro due, ragazzi, alla fine di una scalata in Grigna. Era contento quando gli raccontavo che Giussani, durante una colazione, cui ebbi la fortuna di partecipare anch’io, con Giovanni Paolo II, alla domanda del Papa su chi fosse il primo prete del Movimento, rispose «Baroncini». Lui, come disse il Papa – «e chi è Baroncini?» – non era un prete famoso, ma il primo soldato che Giussani ricordava del suo “esercito”.

Siamo andati spesso a cena insieme, al ristorante o nelle case, discutendo di tutto, in particolare di Chiesa e politica, anche in modo acceso, senza mai permettere che l’amicizia venisse incrinata. Don Fabio aveva grande senso dell’umorismo. Prendeva in giro e si faceva prendere in giro per certe sue abitudini strane come la richiesta di solo vino bianco frizzante, che poi, prima di bere, “sgasava” con un apparecchietto particolare, una specie di ventolino manuale di metallo, che gli era stato regalato; come, in un certo periodo, il consumo industriale di Eparema, un epatoprotettore non nocivo, ma nemmeno terapeutico.

Delle malattie aveva un’idea sua, per la quale esse andavano sostanzialmente per conto loro. Faceva tutto quello che gli dicevano i medici, ma con una certa distanza mentale. Ci ho messo diverso tempo a convincerlo di fare gli esami per il Parkinson, di cui poi non l’ho mai sentito lamentarsi, nonostante la sofferenza – non potersi muovere per un montanaro, non poter parlare per un prete ed educatore – sia stata enorme. Della vita ha accettato tutto quello che essa gli ha dato, perché sapeva che la realtà è nelle mani di Dio e quindi ultimamente positiva e che noi, come diceva spesso in dialetto, «siamo qui provvisori». Ieri mattina se ne è andato a trovare il Dio, di cui ha sempre cercato e indicato i segni.

tratto da TEMPI

 

lunedì 21 dicembre 2020

BEETHOVEN E LA DIMORA DELL'IO


Il 16 dicembre di 250 anni fa, nasceva il grande compositore. È uno degli autori più amati da don Giussani.

Da Spirto Gentil, il suo commento al Concerto per violino e orchestra op.61: «È l’emblema dell’attesa di Dio che l’uomo ha»Luigi Giussani

Il tema concretamente ultimo dell’esistenza umana può essere così sintetizzato: l’uomo nasce da, riceve tutto da. È impressionante il fatto che nulla di quello che è proprio del nostro io sia nostro. Eppure la tentazione più grave dell’uomo è quella di concepirsi autonomo. A tal punto essa è così grave che coincide con la sostanza del peccato originale.

Il Concerto per violino e orchestra di Beethoven che ascolto da quasi cinquant’anni, fin dalle prime volte in cui ho iniziato a insegnare religione al liceo Berchet di Milano, è diventato per me simbolo di quella tentazione suprema, accanita, continua dell’uomo di farsi padrone di sé, signore di sé, misura di sé, contro l’evidenza delle cose.

Da quando il Diavolo ha detto alla donna: «Non è vero che se mangi il pomo morirai; al contrario, se lo mangi, diventerai libera, adulta, sarai come Dio, conoscerai il bene e il male», da allora gli sforzi dell’uomo per rendersi autonomo come cultura e come dinamica di amore si sono solo moltiplicati.

Ma torniamo al Beethoven di quasi cinquant’anni fa. Allora avreste potuto vedere per le strade di Milano un prete che girava con un enorme grammofono. E se qualcuno gli avesse domandato: «Dove vai?», avrebbe risposto: «Vado a scuola». «E porti il grammofono a scuola?!» «Eh, la scuola non mi dà il suo e allora porto il mio.»
Una delle prime cose che facevo ascoltare a scuola era proprio il Concerto per violino e orchestra, con quel tema fondamentale che percorre tutto il pezzo: la vita dell’uomo, della società, è segnata dalla melodia dell’orchestra, dalla quale per tre volte il violino fugge per affermare se stesso e dalla quale per tre volte viene ripreso fino a riposare in pace, quasi dicesse: «Finalmente!».

Il violino – l’individuo – per affermare se stesso ha sempre la tentazione di staccarsi in uno slancio fugace, e proprio in quel tentativo lo strumento dà il meglio di se stesso. Perciò i motivi più affascinanti del concerto sono quelli del violino, del singolo che tenta di affermarsi al di sopra di tutti. Ma il violino non può resistere a lungo in questo slancio; e meno male che c’è l’orchestra – la realtà comunitaria – che lo riprende in sé.

Ricorderò sempre il brivido che percorse la classe quando feci ascoltare per la prima volta a scuola questo brano di Beethoven: il violino esprimeva una tale struggenza del sentimento che realmente ci faceva piegare sopra noi stessi. Era talmente sensibile nella sua potenza quello struggimento che una ragazza, seduta nel secondo banco vicino alla finestra che dava sul cortile, scoppiò in un singhiozzo. La classe non rise. Io, allora, dissi soltanto che il luogo della pace è dove tutti gli impeti irrazionali, o comunque incompiuti, dell’istintività sono ricomposti: nella comunità.

Infatti, che cosa permette al violino di compiere i già citati tre slanci, solitari e geniali, i tre momenti più pacificanti del concerto? L’appoggio della comunità, dell’orchestra, a cui può ritornare in ogni momento, che lo riprende, lo insegue e lo riprende ogni volta che scappa.
Il violino è l’uomo che spera nelle sue forze momentanee, sempre concepite come isolate, più che nel comune tentativo dettato da un’origine e da un destino condivisi. Comunque la si concepisca, non può essere giusta l’autonomia dell’individuo, proprio perché come tale non ha vera origine né destino e quindi non può creare storia; può suscitare un momento di emozione nel tempo, ma, subito dopo avere squassato la superficie dell’acqua non può fare nulla, non riesce ad avere un fine.
Lo struggimento che il tema fondamentale del Concerto per violino e orchestra suscita – quello che provocò il pianto improvviso della ragazzina – è l’emblema dell’attesa di Dio che l’uomo ha.

sabato 19 dicembre 2020

COSA CI SOSTIENE IN QUESTA TEMPESTA?

 

Il record mondiale della mortalità

Il lockdown sarà un altro contributo decisivo all'esaurimento nervoso del paese  (i segni sono più che evidenti) senza risolvere il problema della mortalità per Covid. Si tende infatti a dimenticare che non siamo all'esordio della crisi, è trascorso quasi un anno e non uno degli obiettivi che aveva il governo è stato centrato, tutto il sistema delle tre T (test, trattamento, tracciamento) è fallito. Questa è la classifica aggiornata della mortalità della Johns Hopkins University:

Abbiamo di nuovo superato il Regno Unito, siamo il terzo paese al mondo per mortalità rispetto al numero dei contagiati (case-fatality ratio), il primo in Europa. Ora vediamo un altro grafico, sempre della Johns Hopkins: 

L'Italia è prima al mondo per il numero di morti per Covid-19 rispetto agli abitanti. In Italia risultano 111,23 decessi ogni 100 mila abitanti. Seguono Spagna (104,39), Gran Bretagna (99,59) e Stati Uniti (94,97).  Questo macabro primato arriva dopo un durissimo lockdown alla cinese in primavera, un'estate anarchica (con il bonus vacanze), un autunno dove il governo si vantava di essere un modello, un ingresso nella realtà dell'inverno (con il cashback): siamo i peggiori in Occidente, ci battono solo Iran e Messico, non proprio un modello in tema di sanità, democrazia, rispetto dei diritti umani.

Il presidente del Consiglio si giustifica dicendo che "l'alto numero dei decessi dipende da tanti fattori: in Italia c'è una soglia anagrafica molto elevata, la seconda al mondo dopo il Giappone". Qui il premier si inerpica per vie sconosciute e il risultato è surreale: "L'alto numero di decessi dipende anche dalle abitudini di vita degli anziani: li teniamo vicini a noi. Insomma dipende da una serie di fattori, con gli scienziati stiamo cercando di approfondire tutti questi dati ma la politica dismette il ruolo e affida la risposta alla scienza". Vediamo qualche dato. Il Giappone citato da Conte conta 190.950 casi positivi, i morti sono 2661; la Germania, l'altro paese più vecchio del mondo, ha oltre 1.4 milioni di casi, i morti sono 25,027. L'Italia ha  1,906,377 casi positivi e 67,220 morti.  Un panorama di macerie e dolore su cui cala un silenzio tombale nel governo. 

In cosa possiamo sperare? Ma la nostra speranza non poggia sulla politica



venerdì 18 dicembre 2020

CHE COS'E' LA FEDE?

Luigi Giussani

 Appunti dall'intervento di Luigi Giussani all'Equipe nazionale degli universitari
di Comunione e Liberazione Rimini, 29 maggio 1976 (quasi al termine dei lavori, dopo una pausa dell'assemblea dedicata al tema dell'impegno culturale e politico in Università)


Sarebbe interessante che ognuno di voi rispondesse a questa domanda, dalla quale, a mio parere, dipende ogni problema: «Che cos'è la fede?».
Secondo me manca la chiarezza della risposta: ma se manca la chiarezza della risposta, il metodo, cioè il cammino, il vivere, come può diventare creativo? Solo un soggetto maturo e autocoscente è, infatti, creativo.

San Bertrand de Commiges (Haute Garonne)
Abside della Chiesa romanica di San Giulio
Sullo sfondo la Cattedrale di St. Marie


Ora, qual è il ruolo di Cl dentro la vita della Chiesa e della società italiana oggi, se non di essere richiamo alla fede? Non c'è più nessuno che si richiami ai contenuti della fede; per questo tutti si agitano, ma non riescono a trovare il proprio soggetto, il proprio volto, la propria identità. Ma se manca la chiarezza, allora ciò che è funzione e strumento di una autocoscienza tende a diventare supplenza di quello che non c'è.
Ma che cos'è la fede? Cosa sia la fede lo si capisce se ci si mette nei panni dei primi: di Andrea e di Giovanni che lo seguirono e gli chiesero: «Maestro, dove stai di casa?» (Gv 1, 38). Di fronte a quell'uomo, cos'era la fede? Era il riconoscere la presenza divina. Loro non osavano neppure pensarlo, non avevano la chiarezza, però riconoscevano in quell'uomo la presenza che liberava, che salvava.

La fede che definisce la nostra identità e ci rende soggetti attivi, e quindi creativi, è l'accorgersi di questa presenza tra noi, che è la nostra unità, che è il nostro essere popolo. La mia identità adeguata è l'unità di noi come popolo; la coscienza di questo cancellerebbe immediatamente al 100% le difficoltà gravissime che ci sono fra la considerazione del proprio soggetto individualisticamente inteso e la vita della comunità, difficoltà che a mio avviso insabbiano una infinità di energie.

Il vero rapporto con l'adulto, cioè con l'autorità del Clu (la realtà degli universitari di Cl; ndr), è il rapporto con la storia così come è guidata: ogni altro rapporto, infatti, rischierebbe di scadere a rapporto personale e tendenzialmente intimistico (che potrebbe essere salvato solo da un'eccezionale nettezza e oggettività della persona matura; questo, peraltro, avviene solo in casi eccezionali).
È oggettivo ciò che ci salva, è oggettivo ciò che ci fa diventare adulti. La fede è riconoscere la presenza della liberazione della vita, della salvezza di tutto; questo è ciò che fa scattare una certezza fresca e gioiosa che noi non abbiamo. Questo è ciò che vince il mondo e che noi non abbiamo: la fede. È la fede tua che riconosce questa presenza redentrice e liberatrice di te e, nello stesso tempo, del mondo. Questa presenza duemila anni fa aveva il volto di quell'Uomo, e ora ha il volto della nostra unità, del popolo che è Corpo suo: la nostra identità vera e adeguata è questo Corpo, è nell'unità con questo Corpo.
È come se noi non avessimo ancora varcato la soglia dell'Avvenimento da cui prendiamo il nome. È come se non fosse una realtà, ma solo un nome ideologico, uno spunto ideologico che in fasi giustapposte implica una certa culturalità e una certa moralità.
La caratteristica di un uomo che si percepisce liberato, salvato, e perciò nuovo, è invece il giocarsi nella storia, il creare nella letizia e nella gioia.

Chiostro della Cattedrale di St. Marie

La seconda cosa da tenere presente è che non esiste un individuo sospeso per aria, esiste una identità incarnata: non può esistere una identità se non nella situazione. Il problema non è l'unità con il Cle (la realtà degli insegnanti medi di Cl; ndr), con il Clu, con i livelli del movimento; il problema è questa autocoscienza della novità che siamo e che vive nella situazione. Allora si potrebbe essere sprovveduti in Università (nei corsi, nei Consigli di facoltà), ma ugualmente frementi per la novità che si porta in sé.
Quando cessa l'Università è questo fremito d'identità che si deve portare fuori, nella vita della Chiesa, nell'impegno civile, sociale e politico.
Allora anche l'impegno politico è impostato come lavoro culturale, perché si ha coscienza di quello che vuol dire lavoro per il bisogno culturale. Si tratta della coscienza di un popolo che approfondisce sempre di più, a contatto con gli avvenimenti, la chiarezza di portare in sé la risposta alla crisi.
La posizione nell'impegno culturale è quella di un popolo che approfondisce la coscienza di portare in se stesso il principio risolutivo della crisi per tutti; noi portiamo la salvezza. «Il Signore è la mia salvezza e con Lui non temo più, perché ho nel cuore la certezza, la salvezza è qui con me». Questa frase non è l'emblema della riduzione estetizzante e moralisticamente superficiale con cui viviamo: questa frase definisce il tipo di coscienza che ho di me stesso. Questa identità non esiste astrattamente, ma incarnata nella situazione politica, universitaria, ecc. Non esiste una posizione dall'esterno di questi problemi: essi mi costituiscono, sono io.

Cattedrale di St. Marie, Portale
Volevo richiamare in questi termini che cos'è la fede, la risposta a quella domanda è la chiave di volta di tutto: è riconoscere la presenza che libera noi stessi e il mondo. Spesso andiamo a portare l'annuncio cristiano in tutta Italia e non lo sentiamo esistenzialmente noi, manca l'esistenzialità nel riconoscimento dell'accettazione di questa risposta. Il Fatto cristiano è l'annuncio che è arrivata una presenza nuova; Dio si è reso presenza, un Uomo che è la Liberazione, è entrato nella storia; coinvolgendoci con Lui siamo liberati come storia.
Al di fuori di questo, nulla è storia, ma menzogna fatta e costruita di infiniti mattoni che sarebbero buoni in sé, ma così sono perduti.

L'appartenenza a questo popolo è la mia identità. Chi fece questa osservazione fu uno di noi: ma entrò nel movimento nel '69 per un certo gruppo di amici che, in quello stesso anno, se ne andò tutto; allora percepì l'oggettività del fatto del popolo di Dio, dell'unità che era indipendente anche dal gruppo di amici che lo aveva portato in Cl. La sua identità era appartenere al popolo; per questa autocoscienza si deve pregare lo Spirito Santo.


Questa identità ha la coscienza di se stessa e di appartenere al popolo; è tutto quanto si deve chiedere, perché qui comincia la maturità che ci permette una creatività. Questa coscienza è l'urgenza non solo per il movimento in università, ma per tutti. Tanti adulti non lo capiscono più. Molti sono bravissimi, ma non capiscono il passaggio di coscienza del fatto cristiano. La capiscono a cinquanta-sessant'anni, confusamente, quando la parola "unità" non trova più ostacolo nelle opinioni, perché ormai non c'è più niente davanti alla vita. Allora si calano con povertà di spirito nell'unità come mistero, senza però capire che cos'è.

In ogni modo, nella situazione in cui siamo incarnati con una autentica maturità possiamo anche non essere competenti in nulla, ma ugualmente noi "travolgeremo". Nessuno può giudicare quello che uno è adesso dal rendimento che adesso ha, perché ciò che qui è in gioco è una storia e la storia è il prodursi del significato nella realtà temporale per il soggetto, cioè del significato vivente che si comunica. Il mio significato vivente è l'unità che ho con voi, il Mistero che c'è tra noi. Sono altrimenti un fuscello inutile staccato dall'albero. Il popolo di Dio con la sua storia è realmente un'esperienza di libertà, di consistenza della propria persona, indipendentemente da quello che si è capaci di fare e di dire, perché tutta la nostra consistenza è questa Presenza il cui volto è il popolo di Dio, l'unità dei credenti che tende a diventare corpo presente nella situazione (in università, o nel movimento, come nell'intera Chiesa).

mercoledì 16 dicembre 2020

BENEDETTO XVI: COSA SIGNIFICA PER ME IL NATALE

 Benedetto XVI ha ricevuto gli Universitari il 15 dicembre 2011 nella Basilica Vaticana per la tradizionale celebrazione dei Vespri

di FRANCESCO VENTORINO

Li ha sfidati, il Papa, quegli universitari romani che stavano ad ascoltarlo nella basilica Vaticana il 15 dicembre. Parlando dell'attesa di Dio, propria dell'Avvento, ha domandato: "L'invito all'attesa di Dio è proprio fuori tempo?". E ancora: "Cosa significa per me il Natale; è davvero importante per la mia esistenza, per la costruzione della società?".



Interrogativi non retorici. Ma Benedetto XVI ha fatto notare subito che ogni tentativo di costruire il mondo senza o contro Dio, e al seguito di ideologie pretenziose, ha finito per ritorcersi contro l'uomo stesso e la sua dignità profonda, fino a fargli perdere la speranza in una edificazione positiva entro la storia, nonché la stima e l'amore verso se stesso.
Ha scritto Giacomo Leopardi nello Zibaldone: "L'uomo che non si interessa a se stesso, non è capace di interessarsi a nulla, perché nulla può interessare l'uomo se non in relazione a se stesso. L'uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono agli altri".
All'uomo d'oggi manca questo amore. Egli infatti ha smarrito la ragione per cui amare se stesso. Ed è disperatamente attaccato a ciò che fa e a ciò che possiede: da questo cerca di trarre il proprio valore, il valore della propria vita, perché non si ama e non si stima per ciò che egli è. "L'attaccarsi a quel che si fa come luogo di consistenza - diceva don Luigi Giussani nel 1984 agli universitari - è l'espressione della mancanza di consistenza di sé come affezione. L'impeto affettivo non logora mai la persona, ma aumenta nella sua espressività man mano che avanza. Ciò che logora è l'impeto di possesso".

Ma quando l'uomo impara ad amarsi? Solo quando è oggetto di un grande amore. "Nell'esperienza di un grande amore - ha scritto Romano Guardini - tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito. L'elemento personale a cui in ultima analisi intende l'amore e che rappresenta ciò che di più alto c'è fra le realtà che il mondo abbraccia, penetra e determina ogni altra forma: spazio e paesaggio, pietre, alberi, animali". Come suggeriscono queste parole dell'”Essenza del cristianesimo”, l'uomo coglie il valore di se stesso e di tutto il mondo quando fa l'esperienza di essere amato.

Per questo il delitto più grande contro l'umanità è la sistematica negazione di Dio come mistero di carità, da cui sgorga tutto ciò che è, da cui in particolare fluisce quell'essere singolare che è l'uomo libero, creato e amato per se stesso, in vista soltanto della sua stessa realizzazione, della sua felicità, e non in funzione di altro. Consumata questa negazione, l'uomo ha iniziato da capo, come nell'oscurità dei tempi antichi, a concepirsi come figlio del niente, del caso o della necessità naturale, finendo per perdere la stima verso se stesso e con essa la capacità di voler bene all'altro.

Il fatto che oggi si rifiuti persino il legame coniugale nasce da una doppia disistima: "Può un altro amare me per tutta la vita? E merita forse l'altro un amore fedele?". A buon diritto san Paolo aveva affermato: "Chi ama la propria moglie ama se stesso" (Efesini, 5, 28). Il matrimonio, soprattutto quello cristiano, risulta così una sorta di rivincita sull'apparente inutilità della vita e sulla ostentata affermazione della nullità dell'uomo.

L'essere è carità. Se ne fai l'esperienza almeno per un istante, non puoi più trascurare questo punto di vista. Purché ci sia chi te lo rammenti con la sua compagnia. E in definitiva, questo è lo scopo di ogni autentica compagnia umana: l'esaltazione dell'uomo, la promozione del suo desiderio di amare e di generare. Credo che si siano sentiti compresi quegli universitari a cui il Papa ha detto: "Non abbiamo bisogno di un dio generico, indefinito, ma del Dio vivo e vero, che apra l'orizzonte del futuro dell'uomo a una prospettiva di ferma e sicura speranza, una speranza ricca di eternità e che permetta di affrontare con coraggio il presente in tutti i suoi aspetti"!

Non basta più, dunque, un vago senso religioso o una qualunque nozione che noi possiamo farci di Dio. Ciò che occorre è l'annunzio del Dio cristiano, un Dio che si fa bambino per l'uomo: "Nella grotta di Betlemme la solitudine dell'uomo è vinta, la nostra esistenza non è più abbandonata alle forze impersonali dei processi naturali e storici, la nostra casa può essere costruita sulla roccia: noi possiamo progettare la nostra storia, la storia dell'umanità non nell'utopia ma nella certezza che il Dio di Gesù Cristo è presente e ci accompagna". Solo l'esperienza di una novità, dell'incontro con questo Dio, può ridare all'uomo il senso vero di se stesso e della storia, e la speranza in un compimento.

http://www.vatican.va/content/osservatore-romano/it/comments/2011/documents/293q01b1.html

Il testo dell'Omelia di Benedetto XVI

http://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2011/documents/hf_ben-xvi_hom_20111215_vespri.html


IL NAUFRAGIO DEL MODELLO ITALIA



Il "modello Italia" ieri ha superato il Regno Unito per numero di morti per Covid-19. Siamo i primi in Europa secondo il conteggio dell'Agenzia France Presse, il bilancio totale delle vittime è a quota 64.036, prima del nostro paese gli Stati Uniti (296.105 morti su 328 milioni di abitanti), il Brasile (180.437 morti su 209 milioni di abitanti), l'India (142.628 su  1,3 miliardi di abitanti) e il Messico (113.019 morti su 126 milioni di abitanti). I numeri sono freddi, ma raccontano perfettamente il dramma di un paese di 60 milioni di abitanti che fino a due mesi fa nelle dichiarazioni dei suoi governanti si auto-promuoveva come un modello per tutti gli altri. Gli angeli sono caduti a terra. (dati del 13 dicembre)

Siamo arrivati a questo punto pur essendo stati i primi in Occidente a scoprire la minaccia, dicendo che "tutto è sotto controllo" (premier Giuseppe Conte, 31 gennaio), dopo un durissimo isolamento alla pechinese, affermando poi che "la situazione è sotto controllo, niente più lockdown" (premier Giuseppe Conte, 31 agosto), disquisendo in autunno sulle virtù del nostro sistema di contrasto, alzando la bandiera bianca in inverno di fronte all'inesorabile fatto che il sistema delle tre T (test, trattamento, tracciamento) all'italiana era crollato miseramente.

Il fallimento è prima di tutto del governo che non ha mai fatto una seria e necessaria autocritica e ha accusato gli italiani di non essere un popolo responsabile delle proprie azioni. Se questa fosse la causa del boom dei contagi e dei morti in Italia, chi governa dovrebbe trarre la conclusione che non è capace di guidare il proprio popolo. La guida di una nazione è il mix di una serie di elementi, quelli caratteristici del comando: l'autorità va sposata all'autorevolezza, le leggi emanate all'efficacia, l'azione in sintonia con il messaggio. Tutto questo è mancato, la prova è nella crisi che si è aperta nella maggioranza in questi giorni. Un esecutivo che va in testacoda con la pandemia, un collasso economico devastante, la sfida della ricostruzione, una campagna di vaccinazione globale alle porte e la più grande rivoluzione dei rapporti internazionali dal dopoguerra a oggi, dovrebbe avere un altro passo e un altro tono. Quello che sta mancando ha un nome, si chiama politica. 

Mentre scorrono i titoli di coda del 2020, annus horribilis, si sente in lontananza il cigolio del 2021. Siamo tra la paura e la speranza, tra il ferro e il fuoco, tra la luce e il buio. Abbiamo la certezza dei vaccini, è arrivata la cavalleria della scienza, ma l'emergenza sanitaria finirà quando la campagna di vaccinazione sarà dispiegata sul territorio e per farlo serve una grande organizzazione logistica, una mobilitazione del paese. Sta avvenendo? Siamo sulla torre di Babele, parlano tutti, il rumore è sovrano.

Il Regno Unito ha cominciato la distribuzione del vaccino da qualche giorno, gli inglesi si possono criticare finché si vuole, ma sono arrivati primi; gli Stati Uniti sono in pista, hanno centrato il risultato storico di aver prodotto due vaccini per primi (Pfizer e Moderna) e avranno l'impulso di una nuova presidenza che non può mancare il bersaglio; in Europa la Germania è il paese più attrezzato, come sempre, l'Italia appare in ritardo e non solo su questo fronte. Siamo agganciati all'Unione europea, questa è una speranza e un antidoto contro la nostra anarchia, ma preferiamo essere prudenti e realisti, perché il recente passato ci ha insegnato a osservare i fatti e poi confrontarli con le parole dette in anticipo.

In questo scenario, la frattura che si aperta nel governo sulla istituzione di una cabina di regia del Recovery Fund è una conseguenza dell'assenza di una visione politica, il vero deficit di Palazzo Chigi. Matteo Renzi, può piacere o meno, ha aperto una discussione necessaria e Conte non potrà glissare: non si possono gestire oltre 200 miliardi con un comitato di tecnici che espropria le competenze dei ministri e del parlamento perché il risultato sarebbe il caos. Inoltre, come ha sottolineato Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna, non si può neppure immaginare di rendere esecutivi i progetti senza le Regioni. L'Italia è un sistema istituzionale complesso, articolato su più livelli e il titolo V della Costituzione riserva grandi competenze agli enti locali. Senza la collaborazione di tutti, non si va lontano, si resta fermi e sarebbe letale. 

L'Italia non può fallire questi due obiettivi: la vaccinazione e la ricostruzione, perché il 2021 comincerà a proiettare l'ombra del debito pubblico decollato in maniera esponenziale (oltre il 160% del prodotto interno lordo) con una logica non di investimento ma di sola emergenza (è la differenza che passa tra il debito buono e quello cattivo di cui parlò - inascoltato - Mario Draghi mesi fa).

La realtà busserà alla porta e il contraccolpo della fine delle misure straordinarie sarà improvvisamente visibile sul fronte del lavoro (e siamo già a 622 mila occupati in meno), interi settori sono stati ristrutturati dalla crisi pandemica e si preparano a affrontare la realtà del mercato, la "stay home economy" è destinata a restare in molti campi, è cambiata l'agenda della contemporaneità.

Ecco perché la discussione che si è aperta sul governo e il premier Conte è necessaria e opportuna. O il governo si rafforza e cambia passo, o si volta pagina prima che sia troppo tardi. Non è un problema personale, non è in gioco la biografia di Conte o la fortuna politica di Renzi, è un tema che riguarda l'intera nazione. Per andare avanti, servono idee chiare, leadership, capacità di trascinare il paese verso un'altra era, siamo entrati in un nuovo mondo. 

 ANTONIO SOCCI 12 DICEMBRE

tratto da LIBERO.IT

LA FOTO è TRATTA DA L'ESPRESSO

lunedì 14 dicembre 2020

PAPA FRANCESCO: ABORTO E' COME AFFITTARE UN SICARIO

LA LETTERA DI PAPA FRANCESCO AI SUOI EX ALUNNI ARGENTINI

1.12.2020

Cari amici,

grazie per la mail. Mi ha molto rallegrato riceverla e mi fa piacere sapervi tanto inquieti per il bene della Patria. L'amore per la Patria è un valore fondamentale, indica amore per i padri della Patria, amore per le tradizioni, amore per il popolo della Patria. A volte penso (osservando alcuni paesi d’Europa) che conti, più che l’amore per la Patria, l'amore per l’"azienda" che porta avanti il paese... e quando vedo questo mi viene in mente la poesia di Jorge Dragone: “la nostra Patria è morta”.

Devo confessarvi che non sono a conoscenza di tutto ciò che accade lì, nei dettagli. La segreteria di Stato mi mette al corrente degli avvenimenti dei paesi una volta alla settimana. Ci si riunisce e vengo informato. Lì vengo a sapere dei fatti dell’Argentina e confesso che alcuni mi preoccupano.


Non tengo corrispondenza con i politici; solo ogni tanto ricevo lettere di persone che sono in politica, ma pochissime; e la mia risposta è piuttosto pastorale e di buona educazione, senza mescolarmi nella lotta politica di tutti i giorni.

 ultime lettere mi poneva il problema dell'aborto e io ho risposto come faccio sempre (anche nell’ultimo libro “Ritorniamo a sognare”, che esce oggi); la questione dell’aborto non è una questione primariamente religiosa, bensì umana, una questione di etica umana che è previa a qualsiasi confessione religiosa.

E suggerisco che vengano poste due domande:

1) È giusto eliminare una vita umana per risolvere un problema?

 2) è giusto assoldare un sicario per risolvere un problema?

Mi viene da sorridere quando qualcuno dice: “Perché il Papa non fa arrivare all'Argentina la sua opinione riguardo all’aborto?”. Perché non faccio altro che farla arrivare a tutto il mondo (Argentina compresa) da quando sono Papa.

E questo tocca un altro problema. In generale lì non si sa che cosa dico giorno dopo giorno…, si sa quello che dicono che io dico, e questo grazie ai media i quali, lo sappiamo bene, rispondono a interessi parziali, particolari e partitici.

In questo credo che i cattolici, dall’episcopato sino ai fedeli di una parrocchia, abbiano il diritto di sapere cosa dice veramente il Papa... e non quello che gli fanno dire i media; qui gioca molto il fenomeno del riferito (per es. Mi ha detto Tizio che Caio ha detto questo… e così la catena continua).

Con questo metodo di comunicazione, nel quale ognuno aggiunge o toglie qualcosa, si arriva a risultati inverosimili, come per esempio il racconto di Cappuccetto Rosso che finisce a tavola con Cappuccetto e la nonna che mangiano uno squisito spezzatino cucinato con la carne del lupo. Così succede con il riferito.

Già due volte è stato menzionato il mio rapporto (di vicinanza, di amicizia) con la sig.ra de Kirchner. L'ultima volta che sono stato in contatto con i due ex Presidenti (lei e l'ing. Macri) è stato quando erano ancora in carica. Dopodiché non ho più avuto alcun contatto con loro. È vero che le espressioni “sono molto amico di” o “sono in contatto abituale con” sono tipiche della popolazione “porteña” [di Buenos Aires - ndr], e non è la prima volta che lo sento dire (scherzosamente potrei dire di non avere mai avuto “tanti amici” come ora).

Per quanto riguarda “la proprietà privata” non faccio altro che ripetere la Dottrina Sociale della Chiesa. In verità alcuni prendono le mie affermazioni per trasformarle o interpretarle secondo il loro punto di vista. San Paolo VI e San Giovanni Paolo II, a questo proposito, si sono espressi in maniera ancora più dura. Credo che nelle Parrocchie e nelle Scuole Cattoliche la Dottrina Sociale della Chiesa non sia spiegata abbastanza, soprattutto nel periodo che va da Leone XIII ad oggi; ecco perché tanti malintesi. Un santo vescovo, per il quale è stata avviata la causa di canonizzazione, diceva: “Quando mi occupo dei poveri dicono che sono un santo; ma quando chiedo qual è la causa di tanta povertà mi danno del comunista”.

Bene, la lettera si fa lunga. Mi sono soffermato più volte sulle vostre firme... e vi ricordo a uno a uno. Qualcuno di voi è già diventato bisnonno? E sono tornato indietro agli anni ’64-65 e con molto affetto ho accarezzato immagini che “toccano” il cuore mentre, quasi inconsciamente, rispuntava la frase del Brindisi di Gerardo Diego. Per me anche questo è tornare alle fonti.

Grazie per aver scritto. Prego per Voi e le vostre famiglie; per favore, chiedo a voi di continuare a farlo per me.

Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa si prenda cura di voi. Fraternamente,

Francisco

PS: su quanto dico dei mezzi di comunicazione, mi sono spiegato più estesamente in Fratelli tutti nn. 42-53.

La lettera è riportata nel blog di Sandro Magister

 http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/12/14/papa-francesco-censurato-ogni-volta-che-parla-contro-l%e2%80%99aborto/

 


domenica 13 dicembre 2020

IL NAUFRAGIO DEL MODELLO ITALIA

Sono 17.938 i nuovi casi positivi al Covid-19, con una diminuzione di 1.965 casi rispetto ai 19.903 positivi di ieri. Aumenta la percentuale tamponi positivi che arriva a 11,7, rispetto a 10,1% di ieri. I tamponi effettuati sono stati 152.697, -43.742 rispetto a ieri quando erano stati fatti 196.439. È quanto emerge dal bollettino del ministero della Salute. Diminuisce il numero dei deceduti che nella giornata di oggi è di 484, ieri erano stati 649. I morti totali dall'inizio della pandemia secondo i dati del ministero della Salute sono 64.520.

Il "modello Italia" ieri ha superato il Regno Unito per numero di morti per Covid-19. Siamo i primi in Europa secondo il conteggio dell'Agenzia France Presse, il bilancio totale delle vittime è a quota 64.036, prima del nostro paese gli Stati Uniti (296.105 morti su 328 milioni di abitanti), il Brasile (180.437 morti su 209 milioni di abitanti), l'India (142.628 su 1,3 miliardi di abitanti) e il Messico (113.019 morti su 126 milioni di abitanti). I numeri sono freddi, ma raccontano perfettamente il dramma di un paese di 60 milioni di abitanti che fino a due mesi fa nelle dichiarazioni dei suoi governanti si auto-promuoveva come un modello per tutti gli altri. Gli angeli sono caduti a terra.

Siamo arrivati a questo punto pur essendo stati i primi in Occidente a scoprire la minaccia, dicendo che "tutto è sotto controllo" (premier Giuseppe Conte, 31 gennaio), dopo un durissimo isolamento alla pechinese, affermando poi che "la situazione è sotto controllo, niente più lockdown" (premier Giuseppe Conte, 31 agosto), disquisendo in autunno sulle virtù del nostro sistema di contrasto, alzando la bandiera bianca in inverno di fronte all'inesorabile fatto che il sistema delle tre T (test, trattamento, tracciamento) all'italiana era crollato miseramente.

Il fallimento è prima di tutto del governo che non ha mai fatto una seria e necessaria autocritica e ha accusato gli italiani di non essere un popolo responsabile delle proprie azioni. Se questa fosse la causa del boom dei contagi e dei morti in Italia, chi governa dovrebbe trarre la conclusione che non è capace di guidare il proprio popolo. La guida di una nazione è il mix di una serie di elementi, quelli caratteristici del comando: l'autorità va sposata all'autorevolezza, le leggi emanate all'efficacia, l'azione in sintonia con il messaggio. Tutto questo è mancato, la prova è nella crisi che si è aperta nella maggioranza in questi giorni. Un esecutivo che va in testacoda con la pandemia, un collasso economico devastante, la sfida della ricostruzione, una campagna di vaccinazione globale alle porte e la più grande rivoluzione dei rapporti internazionali dal dopoguerra a oggi, dovrebbe avere un altro passo e un altro tono. Quello che sta mancando ha un nome, si chiama politica.

Mentre scorrono i titoli di coda del 2020, annus horribilis, si sente in lontananza il cigolio del 2021. Siamo tra la paura e la speranza, tra il ferro e il fuoco, tra la luce e il buio. Abbiamo la certezza dei vaccini, è arrivata la cavalleria della scienza, ma l'emergenza sanitaria finirà quando la campagna di vaccinazione sarà dispiegata sul territorio e per farlo serve una grande organizzazione logistica, una mobilitazione del paese. Sta avvenendo? Siamo sulla torre di Babele, parlano tutti, il rumore è sovrano.

Il Regno Unito ha cominciato la distribuzione del vaccino da qualche giorno, gli inglesi si possono criticare finché si vuole, ma sono arrivati primi; gli Stati Uniti sono in pista, hanno centrato il risultato storico di aver prodotto due vaccini per primi (Pfizer e Moderna) e avranno l'impulso di una nuova presidenza che non può mancare il bersaglio; in Europa la Germania è il paese più attrezzato, come sempre, l'Italia appare in ritardo e non solo su questo fronte. Siamo agganciati all'Unione europea, questa è una speranza e un antidoto contro la nostra anarchia, ma preferiamo essere prudenti e realisti, perché il recente passato ci ha insegnato a osservare i fatti e poi confrontarli con le parole dette in anticipo.

In questo scenario, la frattura che si aperta nel governo sulla istituzione di una cabina di regia del Recovery Fund è una conseguenza dell'assenza di una visione politica, il vero deficit di Palazzo Chigi. Matteo Renzi, può piacere o meno, ha aperto una discussione necessaria e Conte non potrà glissare: non si possono gestire oltre 200 miliardi con un comitato di tecnici che espropria le competenze dei ministri e del parlamento perché il risultato sarebbe il caos. Inoltre, come ha sottolineato Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia Romagna, non si può neppure immaginare di rendere esecutivi i progetti senza le Regioni. L'Italia è un sistema istituzionale complesso, articolato su più livelli e il titolo V della Costituzione riserva grandi competenze agli enti locali. Senza la collaborazione di tutti, non si va lontano, si resta fermi e sarebbe letale.

L'Italia non può fallire questi due obiettivi: la vaccinazione e la ricostruzione, perché il 2021 comincerà a proiettare l'ombra del debito pubblico decollato in maniera esponenziale (oltre il 160% del prodotto interno lordo) con una logica non di investimento ma di sola emergenza (è la differenza che passa tra il debito buono e quello cattivo di cui parlò - inascoltato - Mario Draghi mesi fa).

La realtà busserà alla porta e il contraccolpo della fine delle misure straordinarie sarà improvvisamente visibile sul fronte del lavoro (e siamo già a 622 mila occupati in meno), interi settori sono stati ristrutturati dalla crisi pandemica e si preparano a affrontare la realtà del mercato, la "stay home economy" è destinata a restare in molti campi, è cambiata l'agenda della contemporaneità.

Ecco perché la discussione che si è aperta sul governo e il premier Conte è necessaria e opportuna. O il governo si rafforza e cambia passo, o si volta pagina prima che sia troppo tardi. Non è un problema personale, non è in gioco la biografia di Conte o la fortuna politica di Renzi, è un tema che riguarda l'intera nazione.

Per andare avanti, servono idee chiare, leadership, capacità di trascinare il paese verso un'altra era, siamo entrati in un nuovo mondo.

tratto da LIST di MARIO SECHI

mercoledì 9 dicembre 2020

DOV’È LA VITA CHE ABBIAMO PERDUTO VIVENDO?


ELIOT, CORI DA “LA ROCCA” CANTO I°

“Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?
Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo?
Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?
I cicli del Cielo in venti secoli
Ci portano più lontani da DIO e più vicini alla Polvere.
Viaggiavo verso Londra, alla City che è preda del tempo,
La dove il Fiume scorre con flutti stranieri.
Laggiù mi dissero: abbiamo troppe chiese,
E troppo poche osterie.
Laggiù mi dissero:
Se ne vadano i parroci.
Gli uomini non hanno bisogno della Chiesa
Nel luogo in cui lavorano, ma dove passano le domeniche.
In città non abbiamo bisogno di campane:
Che sveglino i sobborghi.
Camminai fino ai sobborghi, e là mi dissero:
Sei giorni lavoriamo, il settimo vogliamo andare in gita
Con l’automobile fino a Hindhead, o a Maidenhead.
Se il tempo è brutto restiamo a casa a leggere i giornali.
Nei distretti industriali mi dissero
Delle leggi economiche.
Nelle campagne ridenti sembrava
Vi fosse solo posto per picnic.
E sembra che la Chiesa non sia desiderata
Nelle campagne, e nemmeno nei sobborghi; in città
Solo per importanti matrimoni.

(…)

Voi siete gli uomini che in questi tempi deridono
Tutto ciò che è stato fatto di buono, trovate spiegazioni
Per soddisfare la mente razionale e illuminata.
E poi, trascurate e disprezzate il deserto.
Il deserto non è così remoto nel tropico australe,
Il deserto non è solo voltato l’angolo,
Il deserto è passato nel treno della metropolitana
Presso di voi, il deserto è nel cuore di vostro fratello.
Il buono è colui che costruisce, se costruisce ciò che è buono.
Vi mostrerò le cose che ora si stanno facendo,
E alcune delle cose che molto tempo fa furono fatte,
Così che prendiate coraggio.
Rendete perfetta la vostra volontà.
Fate che io vi mostri l’opera degli umili.

(...) 

“Sotto la sabbia, non quella australe, ma quella delle nostre parti, quella del nichilismo nostrano, sono state sepolte le nostre esigenze. Il vento del deserto rischia di cancellare dall’esistenza i segni delle evidenze più  elementari. Esigenze ed evidenze, questo zoccolo duro dell’umano che don Giussani ha chiamato esperienza elementare, o più semplicemente “cuore”. “Un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste”, aggiungendo che “esse possono essere riassunte con diverse espressioni come: esigenza di felicità, esigenza di verità, esigenza di giustizia. Sono comunque come una scintilla che mette in azione il motore umano; prima di esse non si dà alcun movimento, alcuna umana dinamica”.

È la percezione di questo cuore che rischiamo di perdere e con esso la vibrazione della libertà, l’esperienza dell’ amore all’altro, il senso cocente di cosa è vero e di cosa è falso, di cosa è umanamente giusto e di cosa non lo è, il gusto di mettersi insieme per far andare meglio il mondo. Se ancora percepiamo il baluginare di quella scintilla di cui parla don Giussani è perché il desiderio del cuore non molla, e comunque, a tratti, lacera il grigiore del nichilismo. Non possiamo sottrarci all’impeto che ci porta a stare attivamente dalla parte di questo baluginìo, educando e costruendo a partire da esso.”

EMILIA GUARNIERI