Giancarlo Cesana 22 dicembre 2020
Don Fabio non era un prete famoso, ma il primo soldato che il fondatore di
Comunione e Liberazione ricordava del suo “esercito”
Don Fabio è spirato alle 7.30 di ieri mattina 21 dicembre
, una giornata uggiosa che va d’accordo con la tristezza.don Fabio Baroncini col Card. Scola e amici
Vidi
per la prima volta don Fabio agli inizi degli anni Settanta, in occasione di
quello che ricordo come mio primo incontro con gli universitari di Comunione e
Liberazione. Eravamo nel salone di un oratorio dalle parti di Città Studi
(Milano). Era d’estate, stavamo cantando Laudato si’. A un certo
punto sulla soglia aperta di una porta laterale comparve un tizio alto e magro;
aveva gli occhiali, indossava pantaloni scuri e una camicia bianca con le
maniche arrotolate. Mi sembrò un intellettuale, un tipo pensoso, come diversi
altri personaggi che frequentavano Cl. Domandai ai vicini chi fosse; mi dissero
Fabio Baroncini, appena ordinato prete.
Per
qualche anno non lo vidi più. Lo incontrai nuovamente quando don Angelo Scola,
che allora seguiva gli universitari ciellini, gli chiese di venire a “dare una
mano” e condividere la responsabilità della conduzione della esperienza di Cl
nelle università milanesi. Da allora, per quasi cinquant’anni, con don Fabio ci
siamo visti tutte le settimane anche più di una volta, nei momenti di
responsabilità del Clu e del Movimento tutto, diocesano e nazionale. Don Fabio
in quanto animatore e guida della comunità di Varese, una delle più numerose
d’Italia, faceva già parte del Consiglio e della Presidenza di Cl.
Non
era un intellettuale, un teorico, anche se era colto perché leggeva moltissimo.
Amava la letteratura russa, come dimostrò al Meeting di Rimini con una magistrale conferenza su Dostoevskij. Amava Charles Péguy,
Paul Claudel e T. S. Eliot, sulle cui opere tenne decine e decine di
incontri, richiesti da studenti medi, universitari e adulti. Amava Dante, che
commentava e citava a memoria. Non disdegnava le discussioni teologiche, anzi
vi si gettava a capofitto in difesa dell’ortodossia e del valore educativo
della dottrina cattolica.
La sua grande preoccupazione era il metodo, ovvero che i contenuti della proposta cristiana non
erano vivibili se non erano accompagnati dalla proposta di come viverli. In ciò
era un vero seguace di don Luigi Giussani, che «per una parola si sarebbe fatto
uccidere», perché le parole non sono suoni intercambiabili, ma espressione
consapevole e concreta dell’esistenza nella situazione. Si appellava alla
ragione e alla libertà, doti fondamentali di un cristiano che voglia essere
uomo e viceversa. La ragione, riconoscendo per vivere la necessità della fede, doveva
diventare convinzione, legarsi tenacemente alla verità.
Per
don Fabio l’esistenza era chiamata a una continua decisione, che accettava il
dramma di tagliare – “decedo”, diceva, con il senso di un tagliare che comporta
un po’ morire, fare sacrificio – le strade inutili, vagheggiate ma impossibili.
Da lui andavano in tantissimi, che avevano difficoltà personali, nella
vocazione, nel lavoro, nel matrimonio o nell’educazione dei figli. Per molti
anni abbiamo “lavorato” in coppia. Lui mandava da me, per le mie competenze
psicologiche, le persone di cui sospettava fragilità mentali e io mandavo da
lui quelli che tendevano a risolvere con un supporto psicologico problematiche
esistenziali. Lui lavorava molto più di me perché un buon prete, paterno ed
esperto di vita, è molto più necessario di uno psicologo. La mancanza di don
Fabio, da quando il Parkinson lo ha imprigionato nella sua silenziosa e
marmorea rigidità, si sente tantissimo.
In
don Fabio, la stima per don Giussani, la fedeltà al Movimento e alla Chiesa si
risolvevano in un’obbedienza
intelligente e senza tentennamenti. Fraternità e unità erano condizioni
continuamente richiamate, soprattutto negli ultimi tempi, quando capiva che non
aveva tempo e forza di soffermarsi su altro, anche se magari avrebbe voluto.
Nelle assemblee poteva essere burbero e
anche duro, ma poi nel dialogo personale sempre era comprensivo e affettuoso,
pur non cedendo sui princìpi cristiani che faceva capire con una dolcezza
ferma.
Era
un valtellinese nato a Morbegno nel 1942. Portava come esempio di amore
coniugale la sua mamma Pina, che, rimasta incinta di lui, vide il suo uomo
partire alpino per la Russia, senza saperne più niente – se era vivo, se era
morto – fino a guerra finita. Come suo papà, si sentiva un soldato semplice: «Davanti
ai muli, dietro i cannoni, lontano dai superiori».
Era
appassionato della montagna, dell’impegno e della disciplina che essa richiede,
della bellezza delle cime e delle valli, della semplicità della sua gente e dei
canti, soprattutto dei canti, che dovevano essere fatti bene, con belle voci
soliste e grande attenzione del coro. Anche negli ultimi tempi i canti lo
sollecitavano e lo rimettevano in moto: non riusciva quasi più a parlare, ma a
cantare sì. Raccontava delle sue imprese, con grande ammirazione per i ragazzi
che lo accompagnavano: non si sottovalutava, ma era umile, sapeva riconoscere e
valorizzare chi faceva bene e magari meglio di lui. Non l’ho mai sentito
chiedere per sé.
Era
orgoglioso dell’amicizia, nata in gioventù, con Angelo Scola, divenuto
cardinale di Milano. Aveva appeso a una parete una foto grande e bella che
ritrae loro due, ragazzi, alla fine di una scalata in Grigna. Era contento
quando gli raccontavo che Giussani, durante una colazione, cui ebbi la fortuna
di partecipare anch’io, con Giovanni Paolo II, alla domanda del Papa su chi
fosse il primo prete del Movimento, rispose «Baroncini». Lui, come disse il
Papa – «e chi è Baroncini?» – non era un prete famoso, ma il primo soldato che
Giussani ricordava del suo “esercito”.
Siamo
andati spesso a cena insieme, al ristorante o nelle case, discutendo di tutto,
in particolare di Chiesa e politica, anche in modo acceso, senza mai permettere
che l’amicizia venisse incrinata. Don Fabio aveva grande senso dell’umorismo.
Prendeva in giro e si faceva prendere in giro per certe sue abitudini strane
come la richiesta di solo vino bianco frizzante, che poi, prima di bere,
“sgasava” con un apparecchietto particolare, una specie di ventolino manuale di
metallo, che gli era stato regalato; come, in un certo periodo, il consumo
industriale di Eparema, un epatoprotettore non nocivo, ma nemmeno terapeutico.
Delle
malattie aveva un’idea sua, per la quale esse andavano sostanzialmente per
conto loro. Faceva tutto quello che gli dicevano i medici, ma con una certa
distanza mentale. Ci ho messo diverso tempo a convincerlo di fare gli esami per
il Parkinson, di cui poi non l’ho mai sentito lamentarsi, nonostante la
sofferenza – non potersi muovere per un montanaro, non poter parlare per un
prete ed educatore – sia stata enorme. Della vita ha accettato tutto quello che
essa gli ha dato, perché sapeva che la realtà è nelle mani di Dio e quindi
ultimamente positiva e che noi, come diceva spesso in dialetto, «siamo qui
provvisori». Ieri mattina se ne è andato a trovare il Dio, di cui ha sempre
cercato e indicato i segni.
tratto da TEMPI
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