DISCORSO DEL SANTO
PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DEL COLLEGIO CARDINALIZIO E DELLA CURIA ROMANA,
PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI
Sala della Benedizione
Lunedì, 21 dicembre 2020
Cari fratelli e sorelle,
1. Il Natale di Gesù di Nazaret è il mistero di una nascita che ci ricorda che «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per rincominciare»,[1] come osserva in maniera tanto folgorante quanto incisiva Hannah Arendt, la filosofa ebrea che rovescia il pensiero del suo maestro Heidegger, secondo cui l’uomo nasce per essere gettato nella morte. Sulle rovine dei totalitarismi del novecento, Arendt riconosce questa verità luminosa: «Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità. […] È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato fra noi”».[2]
Gerard van Honsthrort, 1619, Uffizi Firenze
(omissis)
6. Fratelli e sorelle, questa
riflessione sulla crisi ci mette in guardia dal giudicare frettolosamente
la Chiesa in base alle crisi causate dagli scandali di ieri e di oggi, come
fece il profeta Elia che, sfogandosi
con il Signore, gli presentò una narrazione della realtà priva di speranza:
«Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti
hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso
di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la
vita» (1 Re 19,14). E quante volte anche le nostre analisi
ecclesiali sembrano racconti senza speranza. Una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica.
La speranza dà alle nostre analisi ciò che tante volte i nostri sguardi
miopi sono incapaci di percepire. Dio risponde ad Elia che la realtà non è così
come l’ha percepita lui: «Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di
Damasco; […] Io, poi, riserverò per me in Israele settemila persone, tutti i
ginocchi che non si sono piegati a Baal e tutte le bocche che non l’hanno
baciato» (1 Re 19,15.18). Non è vero che lui sia solo: è in crisi.
Dio continua a far crescere i semi del suo Regno in mezzo a noi.
Qui nella Curia sono molti coloro che danno testimonianza con il lavoro umile,
discreto, senza pettegolezzi, silenzioso, leale, professionale, onesto. Sono
tanti tra voi, grazie. Anche il nostro tempo ha i suoi problemi, ma ha anche la
testimonianza viva del fatto che il Signore non ha abbandonato il suo popolo,
con l’unica differenza che i problemi vanno a finire subito sui giornali –
questo è di tutti i giorni – invece i segni di speranza fanno notizia solo dopo
molto tempo, e non sempre.
Chi non
guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un
cadavere: guarda la crisi, ma senza la speranza del Vangelo, senza la luce
del Vangelo. Siamo spaventati dalla crisi non solo perché abbiamo dimenticato
di valutarla come il Vangelo ci invita a farlo, ma perché abbiamo scordato che
il Vangelo è il primo a metterci in crisi.[4] E’
il Vangelo che ci mette in crisi. Ma se troviamo di nuovo il coraggio e
l’umiltà di dire ad alta voce che il tempo della crisi è un tempo dello
Spirito, allora, anche davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della
fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento, non ci sentiremo più
schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno
per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una
Grazia nascosta nel buio. «Perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben
accetti nel crogiuolo del dolore» (Sir 2,5).
7. Infine, io vorrei esortarvi a non confondere la crisi con
il conflitto: sono due cose diverse. La crisi generalmente ha un
esito positivo, mentre il conflitto crea sempre un contrasto, una competizione,
un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da
amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle parti.
La logica del conflitto cerca sempre i “colpevoli” da
stigmatizzare e disprezzare e i “giusti” da giustificare per introdurre la
consapevolezza – molte volte magica – che questa o quella situazione non ci
appartiene. Questa perdita del senso di una comune appartenenza favorisce la
crescita o l’affermarsi di certi atteggiamenti di carattere elitario e di
“gruppi chiusi” che promuovono logiche limitative e parziali, che impoveriscono
l’universalità della nostra missione. «Quando ci fermiamo nella congiuntura
conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà» (Esort.
ap. Evangelii gaudium, 226).
La Chiesa, letta con le categorie di conflitto – destra e sinistra,
progressisti e tradizionalisti – frammenta, polarizza, perverte, tradisce la
sua vera natura: essa è un Corpo perennemente in crisi proprio perché è vivo,
ma non deve mai diventare un corpo in conflitto, con vincitori e vinti.
Infatti, in questo modo diffonderà timore, diventerà più rigida, meno sinodale,
e imporrà una logica uniforme e uniformante, così lontana dalla ricchezza e
pluralità che lo Spirito ha donato alla sua Chiesa.
La novità introdotta dalla crisi voluta dallo Spirito non è mai
una novità in contrapposizione al vecchio, bensì una novità che germoglia dal
vecchio e lo rende sempre fecondo. Gesù usa un’espressione che esprime in
maniera semplice e chiara questo passaggio: «Se il chicco di grano caduto in
terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
L’atto di morire del seme è un atto ambivalente, perché nello stesso tempo
segna la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. Chiamiamo lo stesso
momento morte-marcire e nascita-germogliare perché sono la medesima cosa:
davanti ai nostri occhi vediamo una fine e allo stesso tempo in quella fine si
manifesta un nuovo inizio.
In questo senso, tutte le resistenze che facciamo all’entrare in
crisi lasciandoci condurre dallo Spirito nel tempo della prova ci condannano a
rimanere soli e sterili, al massimo in conflitto. Difendendoci dalla crisi, noi
ostacoliamo l’opera della Grazia di Dio che vuole manifestarsi in noi e
attraverso di noi. Perciò, se un certo realismo ci mostra la nostra storia
recente solo come la somma di tentativi non sempre riusciti, di scandali, di
cadute, di peccati, di contraddizioni, di cortocircuiti nella testimonianza,
non dobbiamo spaventarci, e neppure dobbiamo negare l’evidenza di tutto quello
che in noi e nelle nostre comunità è intaccato dalla morte e ha bisogno di
conversione. Tutto ciò che di male, di contraddittorio, di debole e di fragile
si manifesta apertamente ci ricorda con ancora maggior forza la necessità di
morire a un modo di essere, di ragionare e di agire che non rispecchia il
Vangelo. Solo morendo a una certa mentalità riusciremo anche a fare spazio alla
novità che lo Spirito suscita costantemente nel cuore della Chiesa. I Padri
della Chiesa erano consapevoli di questo, che chiamavano “la metanoia”. (…)
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