NEL CUORE DELL’EPIDEMIA DI CORONAVIRUS PIÙ MORTALE AL MONDO.
Scritto
da Jason Horowitz 30 NOVEMBRE, 2020
Tratto dal NEW YORK TIMES
L'inviato del New York Times Jason Horowitz ha scritto una
serie di articoli su quanto è accaduto nelle zone della Bergamasca che durante
la prima ondata sono state l'epicentro dell'epidemia di Covid-19. Il quotidiano
americano ha pubblicato una traduzione italiana di un altro articolo (del 6
dicembre), che potete leggere
qui. È un reportage che colpisce dritto alla bocca
dello stomaco e racconta la difficoltà senza precedenti di una città pochissimo
abituata a lamentarsi.
Sono articoli molto lunghi, ma quasi necessari per capire
cosa è successo.
Le strade di Bergamo sono
vuote. Come in tutt’Italia, le persone possono lasciare le proprie case solo per
comprare cibo e medicine, o per andare al lavoro. Fabbriche, negozi e scuole
sono chiusi. Non si sente più chiacchierare agli angoli delle strade o ai
tavolini dei caffè.
Ciò che si sente di continuo,
senza sosta, sono le sirene.
Mentre l’attenzione dei vari
Paesi del mondo si sposta sui propri centri di contagio, le sirene continuano a
suonare. Come quelle che segnalavano i bombardamenti durante la seconda guerra
mondiale, molti sopravvissuti a questo conflitto ne ricorderanno le sirene.
Risuonano più forte mentre si avvicinano, venute a raccogliere genitori e
nonni, i custodi della memoria italiana.
I nipoti salutano dalle
terrazze, mariti e mogli si siedono agli angoli di letti ormai vuoti. E poi le
sirene ricominciano a suonare, affievolendosi quando le ambulanze si
allontanano, dirette verso ospedali stipati di malati di coronavirus.
“Ormai a Bergamo si sentono
solo le sirene”, ha osservato Michela Travelli.
Il 7 marzo, suo padre, Claudio
Travelli, 60 anni, guidava un camioncino che consegnava generi alimentari in
tutto il Nord Italia. Il giorno seguente, ha iniziato ad avere febbre e sintomi
influenzali. Sua moglie aveva avuto la febbre nei giorni precedenti, quindi ha
chiamato il medico di base, che le ha detto di prendere una tachipirina e di riposare.
Per gran parte del mese
precedente, la classe dirigente italiana aveva mandato messaggi contraddittori
sul virus.
Il 19 febbraio, circa 40.000
persone di Bergamo, una provincia lombarda di più o meno un milione di persone,
hanno percorso 50 chilometri per andare a Milano ad assistere alla partita di
Champions League Atalanta - Valencia. (Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, la
settimana scorsa ha definito la partita “un forte acceleratore del contagio”).
Travelli e sua moglie allora non avevano preso sul serio il pericolo del
contagio, ha raccontato la figlia della coppia, “perché non veniva presentato
come una cosa grave”.
Ma a Travelli la febbre non si
è abbassata e le sue condizioni si sono fatte più preoccupanti.
Venerdì 13 marzo ha sentito una pressione insopportabile al petto e ha iniziato ad avere conati di vomito. La febbre era altissima e la sua famiglia ha chiamato un’ambulanza. I soccorritori hanno rilevato bassi livelli di ossigeno nel suo sangue ma, seguendo le raccomandazioni degli ospedali di Bergamo, gli hanno consigliato di stare a casa. “Hanno detto: ‘abbiamo visto di peggio e gli ospedali sono come le trincee in una guerra’”, ha riferito la signora Travelli.
Un altro giorno in casa ha
portato a un’altra notte di attacchi di tosse e febbre. Domenica, Travelli si è
svegliato in lacrime, dicendo “Sono malato, non ce la faccio più”, ha ricordato
sua figlia. Ha preso un’altra tachipirina, ma la febbre è salita a più di 39 e
la sua pelle ha assunto un colore giallastro.
Questa volta, quando è arrivata
l’ambulanza, le sue due figlie, entrambe indossando guanti e mascherina, hanno
preparato una borsa con due pigiami, una bottiglia d’acqua, un caricabatterie e
un cellulare. I livelli di ossigeno nel sangue del padre erano crollati.
I volontari della Croce Rossa
si sono chinati su di lui mentre stava steso sul letto, sotto a un dipinto
della Vergine Maria. L’hanno portato in ambulanza. Le sue nipoti, di tre e sei
anni, l’hanno salutato dalla terrazza. Lui ha alzato lo sguardo verso di loro,
verso i balconi da cui sventolavano bandiere italiane. Poi l’ambulanza se ne è
andata e non si è sentito più nulla. “Solo la polizia e le sirene”, ha detto
sua figlia.
I soccorritori che si erano
occupati di Travelli avevano iniziato presto quella mattina.
Alle 7.30 un gruppo di tre
volontari della Croce Rossa si era ritrovato per assicurarsi che l’ambulanza
fosse stata sanificata e rifornita di ossigeno. Come le mascherine e i guanti,
anche le bombole sono diventate una risorsa sempre più rara. I tre si sono
disinfettati l’un l’altro, poi hanno igienizzato i loro cellulari.
“Non possiamo essere noi gli
untori”, ha detto Nadia Vallati, 41 anni, una volontaria della Croce Rossa che
di giorno lavora all’ufficio delle imposte, riferendosi a coloro che venivano
accusati di diffondere la peste nel diciassettesimo secolo. Dopo essersi
disinfettati, Vallati e i suoi colleghi aspettano che suoni l’allarme nella
loro sede. Non ci mette mai molto.
Indistinguibili l’uno
dall’altro nei camici medici che indossano sopra alle loro tute rosse, i
volontari sono entrati in casa di Travelli il 15 marzo trasportando delle
bombole d’ossigeno. “Sempre con l’ossigeno”, ha detto Vallati.
Uno dei rischi principali per i
malati di coronavirus è l’ipossiemia, il basso livello di ossigeno nel sangue.
I livelli medi a condizioni normali sono di 95-100 e i medici si preoccupano
quando il valore scende sotto i 90.
Vallati ha detto che le è già
capitato di riscontrare in malati di coronavirus anche livelli intorno ai 50.
Hanno le labbra blu. La punta delle loro dita diventa viola. Fanno respiri
rapidi e superficiali e usano i muscoli dello stomaco per inspirare. I loro
polmoni sono troppo deboli.
In molti
degli appartamenti che gli operatori visitano, i pazienti sono aggrappati a piccole
bombole di ossigeno, grandi circa come quelle per gasare l'acqua, che i
familiari hanno procurato loro su ricetta del medico. Stanno nel letto accanto
a loro. Mangiano con loro al tavolo della cucina. Guardano con loro, sul
divano, i bollettini serali dei morti e dei contagiati italiani.
Il 15 marzo, Vallati ha messo
la sua mano, avvolta da due strati di lattice blu, sul petto di Teresina Coria,
88 anni, mentre le veniva misurato il livello di ossigeno nel sangue. Il giorno
seguente Antonio Amato, nonostante i suoi 40 anni, stava seduto sulla sua
poltrona e stringeva la sua bombola di ossigeno mentre i suoi bambini, che non
poteva stringere per paura di contagiarli, lo salutavano dall’altro lato della
stanza.
Un sabato, Vallati si è trovata
nella stanza di un uomo di 90 anni. Ha chiesto alle sue nipoti se il nonno
avesse avuto contatti con qualcuno positivo al coronavirus. Sì, hanno detto,
con suo figlio, loro padre, che era morto il mercoledì. La loro nonna, le hanno
detto, era stata portata via venerdì ed era in condizioni critiche.
Non piangevano, ha detto,
perché “non avevano più lacrime”.
Durante un altro turno in Val
Seriana, duramente colpita dall’infezione, Vallati ha raccontato di aver
portato via una donna di circa 80 anni. Suo marito, con cui era sposata da
decenni, ha chiesto di darle un bacio per salutarla. Ma Vallati gliel’ha
negato, perché il rischio di contagio era troppo alto. La donna ha raccontato
che mentre i volontari portavano via sua moglie, l’uomo è entrato in un’altra
stanza e ha chiuso la porta dietro di sé.
I casi sospetti vengono portati
in ospedale, ma gli ospedali stessi non sono più luoghi sicuri. A Bergamo il
primo caso di coronavirus è stato diagnosticato nell’ospedale Pesenti Fenaroli
di Alzano Lombardo.
In quel momento, secondo le
autorità, il virus era già presente da qualche tempo e, scambiato per normale
polmonite, veniva trasmesso ad altri pazienti, medici e infermieri. Le persone
l’hanno portato fuori dall’ospedale e nella città, fuori dalla città e nella
provincia. I giovani l’hanno trasmesso ai loro genitori. Si è diffuso nelle
sale da bingo e attorno a tazze di caffè.
Il sindaco
Gori ha spiegato come i contagi abbiano devastato la sua città e portato al
limite uno dei sistemi sanitari più ricchi e sofisticati in Europa. I medici
stimano che 70.000 persone nella provincia abbiano il virus. Bergamo ha dovuto
far trasportare 400 corpi in altre province, regioni e Paesi perché i posti
erano esauriti.
“Se devo identificare una
scintilla,” ha detto, “è l’ospedale”.
Quando arriva un’ambulanza, i
soccorritori procedono con estrema cautela. Solo uno dei tre, il responsabile
della squadra, accompagna il paziente all’interno. Se il paziente è pesante,
qualcun altro lo aiuta.
Lo scorso fine settimana, un
gruppo di dottori dell’ospedale di Bergamo ha scritto in una rivista di
medicina associata con il New England Journal of Medicine, “stiamo apprendendo
che gli ospedali possono essere i primi vettori di Covid-19”, visto che “sono
così densamente popolati da pazienti infetti e facilitano la trasmissione a
pazienti non infetti”.
Le ambulanze e il personale
addetto vengono infettati, hanno scritto, ma questi possono non mostrare
sintomi e diffondere ulteriormente il virus. Per questo i medici hanno chiesto
di evitare di portare i pazienti in ospedale salvo in casi di estrema
necessità.
Ma Vallati ha detto che per i
casi più gravi non hanno avuto scelta. Gli autori dell’articolo lavorano
all’ospedale Papa Giovanni XXIII a Bergamo, dove la squadra di Vallati ha
trasportato molti dei malati.
Il Dottor Ivano Riva, un
anestesista, ha spiegato che l’ospedale accoglieva circa 60 nuovi malati di
coronavirus al giorno. Ha detto che vengono sottoposti a un test, ma a questo
punto l’evidenza clinica - la tosse, i bassi livelli di ossigeno, la febbre - è
un indicatore migliore, soprattutto perché il 30% dei test ha prodotto dei
falsi negativi.
L’ospedale aveva 500 pazienti
affetti da coronavirus, che occupavano tutti i 90 letti della terapia
intensiva. Circa un mese prima, l’ospedale aveva solo sette letti di quella
tipologia.
L’ossigeno ora scorre ovunque
all’interno degli ospedali lombardi e i dipendenti spingono costantemente per i
corridoi carrelli che contengono bombole. Un camion-cisterna pieno di ossigeno
è parcheggiato all’esterno. I pazienti sono stretti vicino a sgabuzzini e nei
corridoi.
Il Dottor
Riva ha spiegato che delle 101 persone che compongono lo staff medico del suo
ospedale, 26 erano a casa con il virus. “È una situazione che nessuno ha mai
visto, penso in nessun altro Paese al mondo”, ha detto.
Se le persone non stanno a
casa, ha detto, “il sistema cederà”.
I suoi colleghi hanno scritto
nell'articolo che i letti in terapia intensiva sono riservati ai malati di
coronavirus con “una possibilità ragionevole di sopravvivere”. I pazienti più
anziani, hanno scritto, “non vengono rianimati e muoiono da soli”.
Travelli è finito al vicino
ospedale Humanitas Gavazzeni, dove, dopo un falso negativo, è risultato
positivo al virus. È ancora vivo.
“Papi sei stato fortunato perché
hai trovato un letto - ora devi combattere, combattere, combattere”, gli ha
detto sua figlia Michela in una telefonata, l’ultima prima che gli mettessero
un casco per aiutarlo a respirare. “Era spaventato”, ha detto. “Credeva di
essere sul punto di morire”.
Intanto, la signora Travelli ha
aggiunto di essere stata messa in quarantena e che aveva perso il senso del
gusto, un disturbo frequente tra le persone che pur non mostrando sintomi sono
state a stretto contatto con il virus.
Così tante persone stanno
morendo, così velocemente, che le camere mortuarie dell’ospedale e gli addetti
delle pompe funebri non riescono a reggere il ritmo. “Trasportiamo i morti
dalla mattina alla sera, uno dopo l’altro, costantemente,” ha detto Vanda
Piccioli, che dirige una delle ultime agenzie di pompe funebri rimaste aperte.
Altre hanno chiuso dopo che i loro direttori si sono ammalati, alcuni finendo
anche in terapia intensiva. “In genere onoriamo i defunti. Ora è come una
guerra e noi ne raccogliamo le vittime”.
Piccioli ha detto che un membro
del suo staff è morto di coronavirus domenica. Ha preso in considerazione
l’opzione di chiudere, ma poi ha pensato che fosse sua responsabilità restare,
nonostante quello che ha definito come un terrore costante di essere contagiati
e un trauma emotivo. “Tu sei come una spugna, assorbi il dolore di tutti,” ha
detto.
Ha spiegato
che il suo staff trasporta 60 corpi infetti al giorno, dall’ospedale Papa
Giovanni e quello di Alzano, dalle cliniche, dalle case di riposo e dagli
appartamenti. “È difficile per noi trovare guanti e maschere”, ha detto. “Siamo
una categoria nell’ombra”.
Piccioli ha aggiunto che
all’inizio cercavano di restituire gli effetti personali dei defunti, raccolti
in sacchetti di plastica, ai loro cari. Una scatola di biscotti. Una tazza. Un
pigiama. Delle ciabatte. Ma adesso semplicemente non hanno tempo.
Le chiamate alla Croce Rossa
non si sono ancora fermate.
Il 19 marzo, Vallati e i suoi
colleghi sono entrati nell'appartamento di Maddalena Peracchi, 74 anni, a Gazzaniga.
Aveva finito l’ossigeno. Sua figlia Cinzia Cagnoni, 43 anni, che vive
nell’appartamento di sotto, aveva ordinato una nuova bombola che sarebbe
arrivata lunedì, ma i volontari della Croce Rossa le hanno detto che non
avrebbe resistito così a lungo.
“Eravamo un po’ agitati perché
sapevano che quella potrebbe essere stata l’ultima volta che ci vedevamo”, ha
detto Cagnoni. “È come mandare qualcuno a morire da solo”.
Lei, sua sorella e suo padre
nascondevano un’espressione coraggiosa sotto le mascherine, ha raccontato. “Ce
la puoi fare”, hanno rassicurato la madre. “Ti aspetteremo, ci sono ancora così
tante cose che dobbiamo fare con te. Combatti”.
I volontari hanno portato
Peracchi all’ambulanza. Una delle sue figlie ha suggerito ai nipoti sconvolti di
salutarla a voce più alta. “Ho pensato a un migliaio di cose”, ha ricordato
Cagnoni. “Non abbandonarmi. Signore aiutaci. Signore salva mia madre”. La porta
dell’ambulanza si è chiusa. Le sirene hanno iniziato a suonare, come fanno “a
tutte le ore del giorno”, ha detto Cagnoni.
L’ambulanza è arrivata al
Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, dove a Peracchi è stato diagnosticato il
coronavirus e una polmonite a entrambi i polmoni. Il giovedì sera, sua figlia
ha riferito che stava “appesa a un filo.”
La signora Peracchi è una donna
di profonda fede cattolica, ha spiegato sua figlia, che ha avuto anche lei la
febbre la notte in cui l’ambulanza ha portato via sua madre e da allora è in
quarantena.
La figlia ha
raccontato che a sua mamma faceva soffrire l’idea che, se le cose fossero
andate male, “non potremo fare un funerale”.
Per contenere il virus, tutte
le celebrazioni civili e religiose, tra cui i funerali, sono state vietate in
Italia. Il cimitero di Bergamo è chiuso. Le bare accumulate attendono in una sorta
di ingorgo di essere portate al crematorio.
Le autorità hanno vietato alle
famiglie di cambiare gli abiti dei morti e hanno chiesto che i corpi vengano
cremati con il pigiama o i camici che le vittime indossavano al momento del
decesso. I cadaveri devono essere avvolti in un ulteriore involucro o coperti
con un tessuto disinfettante. I coperchi delle bare, che in genere devono
rimanere aperti fino alla consegna di un formale certificato di morte, ora
possono essere chiusi, ma devono comunque attendere prima di essere sigillati.
Spesso i corpi rimangono per giorni nelle case, dato che le scale e le stanze
soffocanti sono diventate particolarmente pericolose per lo staff delle imprese
funebri.
“Cerchiamo di evitarlo”, ha
detto Piccioli, la direttrice dell’agenzia di pompe funebri, riguardo le visite
a casa. Nelle case di riposo è molto più facile perché si può arrivare con
cinque o sei bare, riempirle e caricarle direttamente nelle macchine. “So che è
terribile da dire”, ha detto.
Attraverso una rete di
sacerdoti locali, Piccioli aiuta a organizzare veloci preghiere, invece che
veri e propri funerali, per i defunti e per le famiglie che non sono in
quarantena.
È stato il caso di Teresina
Gregis, seppellita al cimitero di Alzano Lombardo il 21 marzo dopo che era
morta a casa. I soccorritori avevano detto alla sua famiglia che non c’era
spazio negli ospedali.
Hanno detto alla famiglia
“Tutti i letti sono pieni”, ha raccontato la nuora della donna, Romina Mologni,
34. Dato che lei aveva 75 anni, “hanno dato la priorità ad altri che erano più
giovani”.
Nelle sue ultime settimane a
casa, la sua famiglia ha fatto di tutto per trovarle delle bombole di ossigeno,
cercandole in tutta la provincia mentre la donna stava seduta di fronte al suo
giardino e alle girandole che adorava.
Quando è
morta, tutti i negozi di fiori erano chiusi a causa dell’ordinanza. Mologni
allora ha portato al cimitero una delle girandole che sua figlia aveva regalato
alla nonna. “Le piaceva quella”.
https://www.tpi.it/politica/new-york-times-inchiesta-covid-bergamo-val-seriana-20201201706813/
Il corrispondente del quotidiano statunitense in Italia, Jason Horowitz,
ricostruisce i “giorni che hanno reso Bergamo il lazzaretto
d’Italia”, ovvero quelli che vanno dal 23 febbraio al 9 marzo, quando
l’epidemia aveva già colpito la Val Seriana utilizzando il lavoro
d’inchiesta di TPI realizzato dalla
giornalista Francesca
Nava e supportato dalla redazione
FOTO Fabio
Bucciarelli per The New York Times
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