mercoledì 9 dicembre 2020

BERGAMO ITALIA

NEL CUORE DELL’EPIDEMIA DI CORONAVIRUS PIÙ MORTALE AL MONDO.

Scritto da Jason Horowitz 30 NOVEMBRE, 2020

Tratto dal NEW YORK TIMES

L'inviato del New York Times Jason Horowitz ha scritto una serie di articoli su quanto è accaduto nelle zone della Bergamasca che durante la prima ondata sono state l'epicentro dell'epidemia di Covid-19. Il quotidiano americano ha pubblicato una traduzione italiana di un altro articolo (del 6 dicembre), che potete leggere qui. È un reportage che colpisce dritto alla bocca dello stomaco e racconta la difficoltà senza precedenti di una città pochissimo abituata a lamentarsi.

Sono articoli molto lunghi, ma quasi necessari per capire cosa è successo.

 


Le strade di Bergamo sono vuote. Come in tutt’Italia, le persone possono lasciare le proprie case solo per comprare cibo e medicine, o per andare al lavoro. Fabbriche, negozi e scuole sono chiusi. Non si sente più chiacchierare agli angoli delle strade o ai tavolini dei caffè.

Ciò che si sente di continuo, senza sosta, sono le sirene.

Mentre l’attenzione dei vari Paesi del mondo si sposta sui propri centri di contagio, le sirene continuano a suonare. Come quelle che segnalavano i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, molti sopravvissuti a questo conflitto ne ricorderanno le sirene. Risuonano più forte mentre si avvicinano, venute a raccogliere genitori e nonni, i custodi della memoria italiana.

I nipoti salutano dalle terrazze, mariti e mogli si siedono agli angoli di letti ormai vuoti. E poi le sirene ricominciano a suonare, affievolendosi quando le ambulanze si allontanano, dirette verso ospedali stipati di malati di coronavirus.

“Ormai a Bergamo si sentono solo le sirene”, ha osservato Michela Travelli.

Il 7 marzo, suo padre, Claudio Travelli, 60 anni, guidava un camioncino che consegnava generi alimentari in tutto il Nord Italia. Il giorno seguente, ha iniziato ad avere febbre e sintomi influenzali. Sua moglie aveva avuto la febbre nei giorni precedenti, quindi ha chiamato il medico di base, che le ha detto di prendere una tachipirina e di riposare.

Per gran parte del mese precedente, la classe dirigente italiana aveva mandato messaggi contraddittori sul virus.

Il 19 febbraio, circa 40.000 persone di Bergamo, una provincia lombarda di più o meno un milione di persone, hanno percorso 50 chilometri per andare a Milano ad assistere alla partita di Champions League Atalanta - Valencia. (Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, la settimana scorsa ha definito la partita “un forte acceleratore del contagio”). Travelli e sua moglie allora non avevano preso sul serio il pericolo del contagio, ha raccontato la figlia della coppia, “perché non veniva presentato come una cosa grave”.

Ma a Travelli la febbre non si è abbassata e le sue condizioni si sono fatte più preoccupanti.

Venerdì 13 marzo ha sentito una pressione insopportabile al petto e ha iniziato ad avere conati di vomito. La febbre era altissima e la sua famiglia ha chiamato un’ambulanza. I soccorritori hanno rilevato bassi livelli di ossigeno nel suo sangue ma, seguendo le raccomandazioni degli ospedali di Bergamo, gli hanno consigliato di stare a casa. “Hanno detto: ‘abbiamo visto di peggio e gli ospedali sono come le trincee in una guerra’”, ha riferito la signora Travelli.


Un altro giorno in casa ha portato a un’altra notte di attacchi di tosse e febbre. Domenica, Travelli si è svegliato in lacrime, dicendo “Sono malato, non ce la faccio più”, ha ricordato sua figlia. Ha preso un’altra tachipirina, ma la febbre è salita a più di 39 e la sua pelle ha assunto un colore giallastro.

Questa volta, quando è arrivata l’ambulanza, le sue due figlie, entrambe indossando guanti e mascherina, hanno preparato una borsa con due pigiami, una bottiglia d’acqua, un caricabatterie e un cellulare. I livelli di ossigeno nel sangue del padre erano crollati.

I volontari della Croce Rossa si sono chinati su di lui mentre stava steso sul letto, sotto a un dipinto della Vergine Maria. L’hanno portato in ambulanza. Le sue nipoti, di tre e sei anni, l’hanno salutato dalla terrazza. Lui ha alzato lo sguardo verso di loro, verso i balconi da cui sventolavano bandiere italiane. Poi l’ambulanza se ne è andata e non si è sentito più nulla. “Solo la polizia e le sirene”, ha detto sua figlia.


I soccorritori che si erano occupati di Travelli avevano iniziato presto quella mattina.

Alle 7.30 un gruppo di tre volontari della Croce Rossa si era ritrovato per assicurarsi che l’ambulanza fosse stata sanificata e rifornita di ossigeno. Come le mascherine e i guanti, anche le bombole sono diventate una risorsa sempre più rara. I tre si sono disinfettati l’un l’altro, poi hanno igienizzato i loro cellulari.

“Non possiamo essere noi gli untori”, ha detto Nadia Vallati, 41 anni, una volontaria della Croce Rossa che di giorno lavora all’ufficio delle imposte, riferendosi a coloro che venivano accusati di diffondere la peste nel diciassettesimo secolo. Dopo essersi disinfettati, Vallati e i suoi colleghi aspettano che suoni l’allarme nella loro sede. Non ci mette mai molto.

Indistinguibili l’uno dall’altro nei camici medici che indossano sopra alle loro tute rosse, i volontari sono entrati in casa di Travelli il 15 marzo trasportando delle bombole d’ossigeno. “Sempre con l’ossigeno”, ha detto Vallati.

Uno dei rischi principali per i malati di coronavirus è l’ipossiemia, il basso livello di ossigeno nel sangue. I livelli medi a condizioni normali sono di 95-100 e i medici si preoccupano quando il valore scende sotto i 90.

Vallati ha detto che le è già capitato di riscontrare in malati di coronavirus anche livelli intorno ai 50. Hanno le labbra blu. La punta delle loro dita diventa viola. Fanno respiri rapidi e superficiali e usano i muscoli dello stomaco per inspirare. I loro polmoni sono troppo deboli.

In molti degli appartamenti che gli operatori visitano, i pazienti sono aggrappati a piccole bombole di ossigeno, grandi circa come quelle per gasare l'acqua, che i familiari hanno procurato loro su ricetta del medico. Stanno nel letto accanto a loro. Mangiano con loro al tavolo della cucina. Guardano con loro, sul divano, i bollettini serali dei morti e dei contagiati italiani.

Il 15 marzo, Vallati ha messo la sua mano, avvolta da due strati di lattice blu, sul petto di Teresina Coria, 88 anni, mentre le veniva misurato il livello di ossigeno nel sangue. Il giorno seguente Antonio Amato, nonostante i suoi 40 anni, stava seduto sulla sua poltrona e stringeva la sua bombola di ossigeno mentre i suoi bambini, che non poteva stringere per paura di contagiarli, lo salutavano dall’altro lato della stanza.

Un sabato, Vallati si è trovata nella stanza di un uomo di 90 anni. Ha chiesto alle sue nipoti se il nonno avesse avuto contatti con qualcuno positivo al coronavirus. Sì, hanno detto, con suo figlio, loro padre, che era morto il mercoledì. La loro nonna, le hanno detto, era stata portata via venerdì ed era in condizioni critiche.

Non piangevano, ha detto, perché “non avevano più lacrime”.

Durante un altro turno in Val Seriana, duramente colpita dall’infezione, Vallati ha raccontato di aver portato via una donna di circa 80 anni. Suo marito, con cui era sposata da decenni, ha chiesto di darle un bacio per salutarla. Ma Vallati gliel’ha negato, perché il rischio di contagio era troppo alto. La donna ha raccontato che mentre i volontari portavano via sua moglie, l’uomo è entrato in un’altra stanza e ha chiuso la porta dietro di sé.

I casi sospetti vengono portati in ospedale, ma gli ospedali stessi non sono più luoghi sicuri. A Bergamo il primo caso di coronavirus è stato diagnosticato nell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo.

In quel momento, secondo le autorità, il virus era già presente da qualche tempo e, scambiato per normale polmonite, veniva trasmesso ad altri pazienti, medici e infermieri. Le persone l’hanno portato fuori dall’ospedale e nella città, fuori dalla città e nella provincia. I giovani l’hanno trasmesso ai loro genitori. Si è diffuso nelle sale da bingo e attorno a tazze di caffè.

Il sindaco Gori ha spiegato come i contagi abbiano devastato la sua città e portato al limite uno dei sistemi sanitari più ricchi e sofisticati in Europa. I medici stimano che 70.000 persone nella provincia abbiano il virus. Bergamo ha dovuto far trasportare 400 corpi in altre province, regioni e Paesi perché i posti erano esauriti.

“Se devo identificare una scintilla,” ha detto, “è l’ospedale”.

Quando arriva un’ambulanza, i soccorritori procedono con estrema cautela. Solo uno dei tre, il responsabile della squadra, accompagna il paziente all’interno. Se il paziente è pesante, qualcun altro lo aiuta.

Lo scorso fine settimana, un gruppo di dottori dell’ospedale di Bergamo ha scritto in una rivista di medicina associata con il New England Journal of Medicine, “stiamo apprendendo che gli ospedali possono essere i primi vettori di Covid-19”, visto che “sono così densamente popolati da pazienti infetti e facilitano la trasmissione a pazienti non infetti”.

Le ambulanze e il personale addetto vengono infettati, hanno scritto, ma questi possono non mostrare sintomi e diffondere ulteriormente il virus. Per questo i medici hanno chiesto di evitare di portare i pazienti in ospedale salvo in casi di estrema necessità.

Ma Vallati ha detto che per i casi più gravi non hanno avuto scelta. Gli autori dell’articolo lavorano all’ospedale Papa Giovanni XXIII a Bergamo, dove la squadra di Vallati ha trasportato molti dei malati.

Il Dottor Ivano Riva, un anestesista, ha spiegato che l’ospedale accoglieva circa 60 nuovi malati di coronavirus al giorno. Ha detto che vengono sottoposti a un test, ma a questo punto l’evidenza clinica - la tosse, i bassi livelli di ossigeno, la febbre - è un indicatore migliore, soprattutto perché il 30% dei test ha prodotto dei falsi negativi.

L’ospedale aveva 500 pazienti affetti da coronavirus, che occupavano tutti i 90 letti della terapia intensiva. Circa un mese prima, l’ospedale aveva solo sette letti di quella tipologia.

L’ossigeno ora scorre ovunque all’interno degli ospedali lombardi e i dipendenti spingono costantemente per i corridoi carrelli che contengono bombole. Un camion-cisterna pieno di ossigeno è parcheggiato all’esterno. I pazienti sono stretti vicino a sgabuzzini e nei corridoi.

Il Dottor Riva ha spiegato che delle 101 persone che compongono lo staff medico del suo ospedale, 26 erano a casa con il virus. “È una situazione che nessuno ha mai visto, penso in nessun altro Paese al mondo”, ha detto.

Se le persone non stanno a casa, ha detto, “il sistema cederà”.

I suoi colleghi hanno scritto nell'articolo che i letti in terapia intensiva sono riservati ai malati di coronavirus con “una possibilità ragionevole di sopravvivere”. I pazienti più anziani, hanno scritto, “non vengono rianimati e muoiono da soli”.

Travelli è finito al vicino ospedale Humanitas Gavazzeni, dove, dopo un falso negativo, è risultato positivo al virus. È ancora vivo.

“Papi sei stato fortunato perché hai trovato un letto - ora devi combattere, combattere, combattere”, gli ha detto sua figlia Michela in una telefonata, l’ultima prima che gli mettessero un casco per aiutarlo a respirare. “Era spaventato”, ha detto. “Credeva di essere sul punto di morire”.

Intanto, la signora Travelli ha aggiunto di essere stata messa in quarantena e che aveva perso il senso del gusto, un disturbo frequente tra le persone che pur non mostrando sintomi sono state a stretto contatto con il virus.

Così tante persone stanno morendo, così velocemente, che le camere mortuarie dell’ospedale e gli addetti delle pompe funebri non riescono a reggere il ritmo. “Trasportiamo i morti dalla mattina alla sera, uno dopo l’altro, costantemente,” ha detto Vanda Piccioli, che dirige una delle ultime agenzie di pompe funebri rimaste aperte. Altre hanno chiuso dopo che i loro direttori si sono ammalati, alcuni finendo anche in terapia intensiva. “In genere onoriamo i defunti. Ora è come una guerra e noi ne raccogliamo le vittime”.

Piccioli ha detto che un membro del suo staff è morto di coronavirus domenica. Ha preso in considerazione l’opzione di chiudere, ma poi ha pensato che fosse sua responsabilità restare, nonostante quello che ha definito come un terrore costante di essere contagiati e un trauma emotivo. “Tu sei come una spugna, assorbi il dolore di tutti,” ha detto.

Ha spiegato che il suo staff trasporta 60 corpi infetti al giorno, dall’ospedale Papa Giovanni e quello di Alzano, dalle cliniche, dalle case di riposo e dagli appartamenti. “È difficile per noi trovare guanti e maschere”, ha detto. “Siamo una categoria nell’ombra”.

Piccioli ha aggiunto che all’inizio cercavano di restituire gli effetti personali dei defunti, raccolti in sacchetti di plastica, ai loro cari. Una scatola di biscotti. Una tazza. Un pigiama. Delle ciabatte. Ma adesso semplicemente non hanno tempo.

Le chiamate alla Croce Rossa non si sono ancora fermate.

Il 19 marzo, Vallati e i suoi colleghi sono entrati nell'appartamento di Maddalena Peracchi, 74 anni, a Gazzaniga. Aveva finito l’ossigeno. Sua figlia Cinzia Cagnoni, 43 anni, che vive nell’appartamento di sotto, aveva ordinato una nuova bombola che sarebbe arrivata lunedì, ma i volontari della Croce Rossa le hanno detto che non avrebbe resistito così a lungo.

“Eravamo un po’ agitati perché sapevano che quella potrebbe essere stata l’ultima volta che ci vedevamo”, ha detto Cagnoni. “È come mandare qualcuno a morire da solo”.

Lei, sua sorella e suo padre nascondevano un’espressione coraggiosa sotto le mascherine, ha raccontato. “Ce la puoi fare”, hanno rassicurato la madre. “Ti aspetteremo, ci sono ancora così tante cose che dobbiamo fare con te. Combatti”.

I volontari hanno portato Peracchi all’ambulanza. Una delle sue figlie ha suggerito ai nipoti sconvolti di salutarla a voce più alta. “Ho pensato a un migliaio di cose”, ha ricordato Cagnoni. “Non abbandonarmi. Signore aiutaci. Signore salva mia madre”. La porta dell’ambulanza si è chiusa. Le sirene hanno iniziato a suonare, come fanno “a tutte le ore del giorno”, ha detto Cagnoni.

L’ambulanza è arrivata al Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, dove a Peracchi è stato diagnosticato il coronavirus e una polmonite a entrambi i polmoni. Il giovedì sera, sua figlia ha riferito che stava “appesa a un filo.”

La signora Peracchi è una donna di profonda fede cattolica, ha spiegato sua figlia, che ha avuto anche lei la febbre la notte in cui l’ambulanza ha portato via sua madre e da allora è in quarantena.

La figlia ha raccontato che a sua mamma faceva soffrire l’idea che, se le cose fossero andate male, “non potremo fare un funerale”.

Per contenere il virus, tutte le celebrazioni civili e religiose, tra cui i funerali, sono state vietate in Italia. Il cimitero di Bergamo è chiuso. Le bare accumulate attendono in una sorta di ingorgo di essere portate al crematorio.

Le autorità hanno vietato alle famiglie di cambiare gli abiti dei morti e hanno chiesto che i corpi vengano cremati con il pigiama o i camici che le vittime indossavano al momento del decesso. I cadaveri devono essere avvolti in un ulteriore involucro o coperti con un tessuto disinfettante. I coperchi delle bare, che in genere devono rimanere aperti fino alla consegna di un formale certificato di morte, ora possono essere chiusi, ma devono comunque attendere prima di essere sigillati. Spesso i corpi rimangono per giorni nelle case, dato che le scale e le stanze soffocanti sono diventate particolarmente pericolose per lo staff delle imprese funebri.

“Cerchiamo di evitarlo”, ha detto Piccioli, la direttrice dell’agenzia di pompe funebri, riguardo le visite a casa. Nelle case di riposo è molto più facile perché si può arrivare con cinque o sei bare, riempirle e caricarle direttamente nelle macchine. “So che è terribile da dire”, ha detto.

Attraverso una rete di sacerdoti locali, Piccioli aiuta a organizzare veloci preghiere, invece che veri e propri funerali, per i defunti e per le famiglie che non sono in quarantena.

È stato il caso di Teresina Gregis, seppellita al cimitero di Alzano Lombardo il 21 marzo dopo che era morta a casa. I soccorritori avevano detto alla sua famiglia che non c’era spazio negli ospedali.

Hanno detto alla famiglia “Tutti i letti sono pieni”, ha raccontato la nuora della donna, Romina Mologni, 34. Dato che lei aveva 75 anni, “hanno dato la priorità ad altri che erano più giovani”.

Nelle sue ultime settimane a casa, la sua famiglia ha fatto di tutto per trovarle delle bombole di ossigeno, cercandole in tutta la provincia mentre la donna stava seduta di fronte al suo giardino e alle girandole che adorava.

Quando è morta, tutti i negozi di fiori erano chiusi a causa dell’ordinanza. Mologni allora ha portato al cimitero una delle girandole che sua figlia aveva regalato alla nonna. “Le piaceva quella”.

 

https://www.tpi.it/politica/new-york-times-inchiesta-covid-bergamo-val-seriana-20201201706813/

Il corrispondente del quotidiano statunitense in Italia, Jason Horowitz, ricostruisce i “giorni che hanno reso Bergamo il lazzaretto d’Italia”, ovvero quelli che vanno dal 23 febbraio al 9 marzo, quando l’epidemia aveva già colpito la Val Seriana utilizzando il lavoro d’inchiesta di TPI realizzato dalla giornalista Francesca Nava e supportato dalla redazione

FOTO Fabio Bucciarelli per The New York Times


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