venerdì 27 settembre 2019

CORTE COSTITUZIONALE: CERCARE SCORCIATOIE SIGNIFICA RASSEGNARSI A UNA SCONFITTA DI CIVILTÀ.



LA DECISIONE DELLA CONSULTA SUL SUICIDIO ASSISTITO SEGNA LA VITTORIA DI UNA CULTURA LIBERTARIA E RELATIVISTA PENETRATA DA DECENNI NELLA NOSTRA SOCIETÀ. IL COMPITO DEL PARLAMENTO, ORA, SARÀ ANCORA PIÙ COMPLICATO

ALFREDO MANTOVANO

Provo a ragionare in prospettiva, muovendomi sulla traccia della nota stampa diffusa dalla Corte costituzionale l’altra sera – in uno con l’ordinanza n. 207 di dieci mesi fa -, e immaginando vari lievi di intervento.
 
foto Ansa
Prima domanda: la sentenza della Consulta avrà effetti concreti e immediati? Se sì, quali? Non è una quesito capzioso, perché la Corte non dichiara illegittimo l’art. 580 del cod. pen.: demanda al giudice del singolo caso stabilire se sussistono le condizioni per la non punibilità, presupponendo che comunque un procedimento penale si avvii per operare la verifica richiesta.
Fra le condizioni, la nota stampa, e prima l’ordinanza, indicano quale pregiudiziale a ogni trattamento di fine vita il ricorso alle cure palliative. Cure che, entrate nell’ordinamento con la legge n.38/2010, non hanno mai trovato attuazione: nelle facoltà di medicina manca l’apposita disciplina, i corsi di specializzazione si contano sulle punta delle dita di una mano, e per questo non ci sono i medici palliativisti e i relativi reparti. Immaginiamo che il Governo voglia recuperare il gap e inserisca nella legge di stabilità le risorse finora mancate: per la piena fruibilità delle cure sull’intero territorio nazionale trascorrerebbe, se va bene, un decennio. E nel frattempo? La nota precisa che “la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa (…) sulle cure palliative”: “subordinare” vuol dire che la punibilità opera se prima non sono attivate le cure palliative. Vi è una logica: se l’impulso a chiedere l’assistenza al suicidio deriva dall’intollerabilità delle sofferenze del paziente, circoscriverle può far venir meno la richiesta. Ma se questo è il quadro, la medesima logica impone che la sentenza della Consulta non si applichi prima che le cure palliative vadano a pieno regime. La sentenza chiarirà quest’aspetto?

La Corte affida le “modalità di esecuzione” a “una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente”. Anche qui i problemi sono tanti: non  vi è solo la medicalizzazione del suicidio assistito, bensì pure la sua presa in carico dal servizio pubblico. Rispetto all’ordinanza n. 207 c’è qualcosa in meno: la nota non menziona l’obiezione di coscienza per il medico. E’ per sintesi del comunicato o, come è già nella legge sulle “dat”-le disposizioni anticipate di trattamento, l’omissione è voluta? E c’è qualcosa in più: il parere del Comitato etico competente per territorio.

Si riconosca o meno il diritto all’obiezione, il medico, come la Federazione degli Ordini ha sottolineato in un documento di qualche mese fa, viene chiamato a compiere un atto vietato dal proprio codice deontologico; il problema, prima ancora della valvola di sfogo dell’obiezione (il cui eventuale mancato riconoscimento violerebbe, esso sì, più nome costituzionali), è il rapporto fra legge dello Stato, o sentenza della Consulta, e norme di deontologia: quale prevale? Non è così semplice, se ne dibatte da decenni: diventa cruciale a fronte di scelte di morte. Quanto al Comitato etico, in Belgio e in Olanda – nei quali eutanasia e suicidio assistito sono legali da tempo – c’è qualcosa di simile, ma svolge una verifica ex post sulla correttezza della procedura. La sentenza dirà qualcosa su profili così rilevanti?

Vi è un livello successivo: quello della legge che dovrà seguire alla sentenza: legge dalla Consulta definita “indispensabile”. L’impressione è che larga parte del Parlamento – qualche gruppo politico lo ha pure detto in esplicito – non avesse voglia di impegnarsi in una materia così difficile, e preferisse lasciare il “lavoro sporco” ai giudici costituzionali. Lo stesso Governo mostra di aver condiviso questo tratto, allorché non ha fatto chiedere dall’Avvocatura dello Stato nel giudizio di costituzionalità il rinvio, che ci sarebbe stato tutto, per dare più tempo alle Camere.

Il risultato è che oggi il compito del Parlamento è, se possibile, ancora più complicato, dovendo fare i conti con le contraddizioni della sentenza e con la necessità di sciogliere i nodi che essa presenta. Non è immaginabile di uscirsene con qualche slogan da social.

Vi è un ulteriore livello: quello in senso lato culturale. Di una “cultura” libertaria e relativista che ha trasformato un giudizio di legittimità, che per Costituzione avrebbe a oggetto una norma, in un giudizio sulla punibilità dell’on. Cappato e di chi fa come lui; e che ha impostato il dibattito mediatico in una disputa (quando c’è stata) fra cantori dell’autodeterminazione e vescovi, lasciando fuori le prioritarie e non confessionali ragioni di ordine antropologico

Quanto accaduto in Italia a partire dal caso Englaro, poi con la legge sulle “dat”, e quindi con le decisioni della Consulta, è l’esito della prevalenza di orientamenti penetrati nel corso dei decenni nella comunità scientifica, nelle università, nelle aule di giustizia, e quindi nei media e nella politica. Chi non condivide questi esiti sappia che la strada da percorrere non può limitarsi al pur necessario intervento legislativo: deve approfondire l’elaborazione di una cultura delle vita e della cura della sofferenza rispettosa della dignità e dell’unicità di ogni persona. 
CERCARE SCORCIATOIE SIGNIFICA RASSEGNARSI A UNA SCONFITTA DI CIVILTÀ.

TRATTO DA "CENTRO STUDI LIVATINO"

LA FALSA SACRALITA’ DELLA SUPREMA CORTE



LA CORTE NON E’ UNA ENTITA’ METAFISICA, MA UN ORGANO DI INDIRIZZO POLITICO

Ieri la Corte costituzionale ha emesso una sentenza con la quale legittima, a determinate condizioni, l'aiuto al suicidio. (Non il “suicidio assistito” o “l'assistenza al suicidio”, come pur si sente dire, con una piccola truffa linguistica basata sull'ambiguità del verbo “assistere”. L'art. 580 del Codice penale, puniva chi «agevola in qualsiasi modo l'esecuzione» di un suicidio).
Lo ha fatto dopo una camera di consiglio durata due giorni: segno inequivocabile di un dibattito molto tormentato e indizio quasi certo di una decisione presa a maggioranza. Del resto, anche il testo dell'ordinanza di rinvio emessa undici mesi fa dalla stessa Corte, – nella quale peraltro, del tutto irritualmente, veniva già prefigurato il contenuto della sentenza di ieri – portava il segno di forti contrasti tra dottrine e orientamenti diversi in seno al collegio giudicante.
MARTA CARTABIA, Vicepresidente della Corte
So che l'ordinamento italiano non prevede, a differenza di altri, la possibilità che i membri di un collegio giudicante rendano pubblica la loro dissenting opinion, cioè il proprio motivato dissenso dalla decizione presa dalla maggioranza del collegio. Quello che ignoro – e pregherei chi tra gli eventuali lettori fosse in grado di illuminarmi su questo di spiegarmelo – è se per i giudici della Corte costituzionale esista una norma di legge che esplicitamente lo vieta e come sia punita la violazione di tale divieto.
Lo chiedo perché, se non vi fosse una proibizione esplicita e diretta, io credo che almeno in un caso come questo, in cui è in gioco un bene di tale importanza, i giudici dissenzienti avrebbero il dovere morale di far conoscere al popolo italiano (nel cui nome giudicano!) il loro diverso giudizio. Anche a costo di una forzatura rispetto alla prassi consolidata e rispetto ad un “principio generale”. (Le forzature, quando si voglion fare, si fanno: del resto, anche anticipare la sentenza in un'ordinanza di rinvio non è una “sgrammaticatura”, e non da poco,  rispetto al principio che un giudice decide solo con la sentenza e nella sentenza, e non prima?)
Me lo aspetterei, in particolare, dal giudice Marta Cartabia, vicepresidente della Corte, cattolica, che presumo sia stata in prima fila nel sostenere ragioni diverse e contrarie a quelle che hanno portato alla sentenza di ieri.
Perché penso che sarebbe doveroso compiere un gesto di rottura di questo genere? Perché servirebbe a togliere di mezzo un inganno: quell'alone di “falsa sacralità” con cui ancora si avvolge l'operato della “Suprema Corte”, come se essa pronunciasse verdetti “divini” che scendono direttamente dall'Olimpo del Diritto e non fosse invece un organo di indirizzo politico. Sapere che non “La Corte” come entità metafisica, ma poniamo otto o nove giudici su quindici hanno fatto un certo ragionamento, mentre sette o otto ne hanno fatto un altro; poter mettere a confronto le diverse logiche culturali-politiche-giuridiche che hanno condotto a conclusioni opposte, eccetera eccetera, significherebbe restituire ai cittadini la possibilità di sapere come stanno le cose. Che è la base di ogni libertà.
LEONARDO LUGARESI

VORREI, PIOGGIA D'AUTUNNO, ESSERE FOGLIA

L’inizio dell’autunno porta con sé un cambiamento di clima, di incombenze, di abitudini che in molti genera malinconia. Anche i poeti, interpreti privilegiati dell’animo umano, descrivono con note di tristezza questa stagione in cui la natura sembra avviarsi alla morte. La voce di Ada Negri si scosta da questa lettura, cogliendo con sensibilità femminile il fondo del sentimento umano.

Vorrei, pioggia d’autunno, essere foglia
che s’imbeve di te sin nelle fibre
che l’uniscono al ramo, e il ramo al tronco,
e il tronco al suolo; e tu dentro le vene
passi, e ti spandi, e si gran sete plachi.
So che annunci l’inverno: che fra breve
quella foglia cadrà, fatta colore
della ruggine, e al fango andrà commista,
ma le radici nutrirà del tronco
per rispuntar dai rami a primavera.
Vorrei, pioggia d’autunno, esser foglia,
abbandonarmi al tuo scrosciare, certa
che non morrò, che non morrò, che solo
muterò volto sin che avrà la terra
le sue stagioni, e un albero avrà fronde. 


L’osservazione della natura è quella di sempre, dalla pioggia al cadere delle foglie. Ciò che muta è lo sguardo, fissato non sulla morte ma sulla speranza della rinascita. Domina in esso l’attaccamento a ciò che permane, la certezza della vittoria della vita al di là delle apparenze, sia nei ritmi immutabili del creato, sia nel cuore volubile dell’uomo.
In tempi in cui si parla in modo troppo preoccupato di ecologia è bello che una voce femminile richiami alla positività inscritta in tutto ciò che vive. Questa voce non descrive solo l’autunno, ma già guarda alla primavera. Così chi si affida al nucleo profondo del suo essere, anche nei giorni di pioggia battente.

LAURA CIONI

sabato 21 settembre 2019

LA VOCE DI UN PROFETA SULL’EUTANASIA


di Gianfranco Amato

Duole molto in questi tempi di grande confusione constatare l’assenza di un giudizio chiaro, netto e soprattutto capace di andare controcorrente rispetto alla mentalità dominante, sui grandi temi della vita come quello dell’eutanasia, che una parte del mondo cristiano ha preferito declassare a questione di secondo piano rispetto ad asserite «nuove emergenze sociali», come quella relativa alle migrazioni. Fino al punto di fare scelte politiche che implichino addirittura il suo sacrificio a vantaggio delle citate emergenze.
Per ritrovare la bussola in questa notte senza stelle, occorre andare a riscoprire, ripercorrendo i decenni, la voce di qualche profeta. Uno di questi è certamente Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, che io ho avuto la grazia di incontrare personalmente quarantaquattro anni fa.
Ricordo che agli Esercizi Spirituali di Comunione e Liberazione del 1986 – sono passati più di trent’anni -, Giussani spiegava come nella società moderna «L’amore tende ad essere identificato con alcune reazioni biologiche e la vita tende ad essere ridotta ad un oggetto che si può guardare con cinismo non solo rispetto al tema dell’aborto». In quell’occasione, pose, infatti, una domanda illuminante: «Chi di noi può impedire al potere di dire che per conseguire una umanità giovane l’eutanasia si debba applicare a trentacinque anni? Chi potrà impedirlo al potere? Ciò accade quando la vita si guarda con cinismo, che è frutto dell’egoismo con il quale si educa la classe operaia, visto che oramai quella borghese ne è già da tempo affetta».
In un ragionamento più articolato affermava che questa prospettiva nasce, in realtà, dalla concezione giustamente condannata dal Sillabo nella proposizione XXXIX: «Lo Stato, in quanto origine e fonte di tutti i diritti, gode del privilegio di un diritto senza confini». A questo proposito Giussani chiariva che il principio condannato dal Sillabo, in realtà, altro non è se non «la definizione dello stato moderno, di tutti gli stati moderni, di qualunque natura», come «esito dell’Illuminismo, cioè dell’uomo che diviene misura delle cose». E a questo punto aggiungeva una riflessione: «Ma se lo Stato ha un diritto senza confini, ha anche il diritto di determinare quanti figli devi avere e come debbano essere; e può anche stabilire fino a quando tu puoi vivere. Perché non ci sarebbe ragione, se un potere è potere, che esso non possa stabilire come legge l’eutanasia, per avere una generazione di umanità fresca, “creativa”, e perché nessuno viva oltre i trent’anni. Perché non lo dovrebbe fare? Perché?». (…)
Per questo invitava i giovani ad opporsi veementemente (usava addirittura il termine “ira”) contro la menzogna: «Ho parlato di ira contro la menzogna. Il rapporto uomo-donna non è il sesso, questa è una riduzione, e tutto il mondo di oggi esalta il rapporto uomo-donna in senso biologico o biopsichico e basta. Oppure, dire che occorre che lo Stato sia guidato dalla scienza applicata nella tecnica è una riduzione, perché l’uomo non è un robot. Perciò, la lotta contro questa menzogna può giustamente far dire che sarebbe meglio per l’uomo essere assassinato che perdere la propria umanità. E noi siamo in un’epoca in cui il potere, cioè lo Stato, tenta di abolire l’umanità. E se lo Stato decide di usare la biogenetica in grande stile, benissimo, lo Stato ha il diritto di usare la biogenetica in grande stile; se, come vi ho già detto, decide che l’eutanasia avvenga a trent’anni per mantenere vivace e fresca l’umanità – ragazzi, voi vi salvereste ancora, ma per poco – non vi sarebbe nessun altro tribunale di riferimento! Occorre porre la lotta contro il tiranno che impone il proprio progetto, l’ira contro la menzogna che, per servire il progetto del tiranno, riduce il desiderio, esalta talune esigenze e ne elimina altre. Cosa vuole dire questo discorso su certi valori sociali da tutti condivisibili?
“Questo è lo sforzo che dobbiamo fare tutti, anche la Chiesa”, disse qualche porporato: “Il compito della Chiesa è quello di sostenere valori morali condivisibili da tutti”. Ma questo anche un pagano lo fa, non è necessario essere cristiani! Questa è la riduzione del desiderio: alcuni desideri ed esigenze sono sottolineati, altri censurati o ridotti. Per questo dico che è tirannica, menzognera, la mentalità dominante».  (…)
Dio solo sa quanto oggi avremmo bisogno di ascoltare maestri capaci di giudicare la realtà con i criteri della fede, capaci di opporre la verità alla menzogna senza tentennamenti o scorciatoie sociologiche, capaci di correre il rischio di “essere fatti fuori” dal mondo perché scomodi.
Preghiamo perché il Signore mandi altri autentici profeti in mezzo a noi. E ci liberi da quelli falsi.
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TUTTI A SCUOLA DELL’ANTICRISTO


MA UN CARDINALE SI RIBELLA

Papa Francesco ha pubblicato il 12 settembre un documento:  Ricostruire il patto educativo globale”,  aperto a “tutte le personalità pubbliche” che “si impegnano a livello mondiale” nel campo della scuola, a qualsiasi religione appartengano. Per il 14 maggio 2020 in Vaticano è stato convocato un summit su questo tema.
Nel videomessaggio con cui Francesco lancia l’iniziativa non c’è la minima traccia né di Dio, né di Gesù, né della Chiesa. La formula dominante è “nuovo umanesimo, con il suo corredo di “casa comune”, “solidarietà universale”, “fraternità”, “convergenza”, “accoglienza”…

E le religioni? Anch’esse accomunate e neutralizzate in un “dialogo” indistinto. Per “bonificare il terreno dalle discriminazioni” il papa rimanda al documento “sulla fratellanza umana” da lui sottoscritto il 4 febbraio 2019 con il Grande Imam di Al-Azhar, un documento nel quale anche “il pluralismo e le diversità di religione” sono ricondotti alla “sapiente volontà divina con la quale Dio ha creato gli esseri umani”.

Ma un “nuovo umanesimo” senza Cristo non è una novità, ma una costante nel pensiero dell’Occidente degli ultimi due secoli.
Dal Grande Inquisitore di Fedor Dostoevskij, al Vangelo secondo Lev Tolstoj, all’Anticristo di Vladimir Solovev, al “nuovo umanesimo”, di Edgar Morin, sono molte le forme con cui viene dissolta la persona unica e inconfrontabile di Cristo, sostituita da un generico amore per l’umanità.
Dentro questo progetto anche Dio è ben accolto, purché si sieda tra gli invitati al convito di questa nuova umanità solidale e non pretenda di essere lo Sposo che chiama alle nozze e che addirittura decide di lasciar fuori chi non ha l’abito nuziale.

Nel 2005 ci fu un grande teologo e cardinale, di nome Giacomo Biffi (1928-2015), che richiamò con forza l’attenzione sulla “grande crisi che ha colpito il cristianesimo negli ultimi decenni del Novecento”, svuotandone la sostanza in nome di una fraternità universale.
Biffi, in un capitolo di un suo libro, riprese il racconto dell’Anticristo scritto nel 1900 dal teologo e filosofo russo Solovev, e lo applicò alla Chiesa d’oggi.
Eccone qui di seguito alcuni passaggi folgoranti. E attualissimi.
*
VERRANNO GIORNI, E ANZI SONO GIÀ VENUTI…
di Giacomo Biffi

L’Anticristo, dice Solovev, […] credeva nel bene e perfino in Dio. […] Dava “altissime dimostrazioni di moderazione, di disinteresse e di attiva beneficenza”. […] Il libro che gli aveva procurato fama e consenso universali porta il titolo: “La via aperta verso la pace e la prosperità universale”. […]
È vero che alcuni uomini di fede si domandavano perché non vi fosse nominato nemmeno una volta il nome di Cristo. Ma altri ribattevano: “Dal momento che il contenuto del libro è permeato dal vero spirito cristiano, dall’amore attivo e dalla benevolenza universale, che volete di più?”. […]
Dove l’esposizione di Solovev si dimostra particolarmente originale e sorprendente – e merita la più approfondita riflessione – è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di pacifista, di ecologista, di ecumenista. [...]
In questa descrizione dell’Anticristo, Solovev […] allude soprattutto al “nuovo cristianesimo” di cui in quegli anni si faceva efficace banditore Lev Tolstoj. [...]
Nel suo “Vangelo” Tolstoj riduce tutto il cristianesimo alle cinque regole di comportamento che egli desume dal Discorso della Montagna:
1. Non solo non devi uccidere, ma non devi neanche adirarti contro il tuo fratello.
2. Non devi cedere alla sensualità, al punto che non devi desiderare neanche la tua propria moglie.
3. Non devi mai vincolarti con giuramento.
4. Non devi resistere al male, ma devi applicare fino in fondo e in ogni caso il principio della non-violenza.
5. Ama, aiuta, servi il tuo nemico.
Questi precetti, secondo Tolstoj, vengono bensì da Cristo, ma per essere validi non hanno affatto bisogno dell’esistenza attuale del Figlio del Dio vivente. [...]
Certo, Solovev non identifica materialmente il grande romanziere con la figura dell’Anticristo. Ma ha intuito con straordinaria chiaroveggenza che proprio il tolstojsmo sarebbe diventato lungo il secolo XX il veicolo dello svuotamento sostanziale del messaggio evangelico, sotto la formale esaltazione di un’etica e di un amore per l’umanità che si presentano come “valori” cristiani. [...]
Verranno giorni, ci dice Solovev – e anzi sono già venuti, diciamo noi – quando nella cristianità si tenderà a dissolvere il fatto salvifico, che non può essere accolto se non nell’atto difficile, coraggioso, concreto e razionale della fede, in una serie di “valori” facilmente smerciabili sui mercati mondani.
Da questo pericolo – ci avvisa il più grande dei filosofi russi – noi dobbiamo guardarci. Anche se un cristianesimo tolstojano ci rendesse infinitamente più accettabili nei salotti, nelle aggregazioni sociali e politiche, nelle trasmissioni televisive, non possiamo e non dobbiamo rinunciare al cristianesimo di Gesù Cristo, il cristianesimo che ha al suo centro lo scandalo della croce e la realtà sconvolgente della risurrezione del Signore.
Gesù Cristo, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, unico salvatore dell’uomo, non è traducibile in una serie di buoni progetti e di buone ispirazioni, omologabili con la mentalità mondana dominante. Gesù Cristo è una “pietra”, come egli ha detto di sé. Su questa “pietra” o si costruisce (affidandosi) o ci si va a inzuccare (contrapponendosi): “Chi cadrà su questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà” (Mt 21, 44). [...]
È stato dunque, quello di Solovev, un magistero profetico e al tempo stesso un magistero largamente inascoltato. Noi però vogliamo riproporlo, nella speranza che la cristianità finalmente si senta interpellata e vi presti un po’ di attenzione.
Tratto dal blog di Sandro Magister


mercoledì 18 settembre 2019

VOI NON AVETE PATRIA


Mentre amici raziocinanti, laici e cattolici, non san bene a che santo votarsi per la politica (ma c'è sempre San Tommaso Moro, vivaddio) m'è tornata alla mente la frase che nel 1982 Giovanni Paolo II disse a Giussani e quelli di CL
"Voi non avete patria".

MEETING RIMINI 1982

Non era un giudizio congiunturale, indotto da un momento storico. Ma strutturale, definitivo
Non possiamo quindi, ad esempio, appiattirci su nessun partito o forma di potere o nazione o uomo politico (non va dato a Cesare quel che non è di Cesare) dando ugualmente con passione il nostro contributo umano alla casa degli uomini, alle patrie umane, con gli strumenti della realtà politica esistenti (date a Cesare...).

Temo tuttavia che ci sia stato, per alcuni e per un non breve tratto, il rischio di credere d'avere avuto una patria politica, un regno in terra. Forse eccedo ma comunque sia, quella frase del Papa, che tanti colpì, m'è tornata in mente oggi, dove non c'è più una casa, anzi neanche uno straccio di capanna plausibile nella quale i moderati raziocinanti, non meri opportunisti, possano soggiornare almeno di passaggio per dare un contributo fattivo alla casa comune. 

I nostri cuori, appassionati al bene comune, non hanno manco una capanna... oggi.  Dovremo votare per elevata approssimazione... e tentare di ricostruire noi con altri, assieme, la casa (aperta). O almeno una capanna.

Gianni Varani
11/9/2019


lunedì 16 settembre 2019

ANDARE «OLTRE LA PURA TESTIMONIANZA».



CARDINALE BASSETTI:  DARE RAGIONE DI QUELLO CHE SOSTENIAMO”
Questa  parole chiare ci invitano a non tacere davanti all’apertura all’eutanasia

PEPPINO ZOLA 

Caro direttore, ora i cattolici italiani non hanno più scuse.

Dopo il discorso pronunciato («a nome della Chiesa italiana») dal presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, di fronte a 76 associazioni cattoliche impegnate nella difesa della vita e della famiglia e dalla Cei convocate a Roma, ripeto che i cattolici italiani non hanno più scuse. Nell’ultima parte del suo intervento, il cardinal Bassetti, nel paragrafo intitolato “Il compito ecclesiale della testimonianza nelle opere e nelle parole”, delinea quale sia il «compito della Chiesa» di fronte all’attacco che viene portato, da una certa cultura, alla vita con l’apertura all’eutanasia, attraverso la legge già approvata relativa alle Dat e attraverso la possibile abrogazione dell’articolo 580 del codice penale (“Istigazione o aiuto al suicidio”). 

Il presidente della Cei usa parole molto chiare, di fronte alle quali i cattolici non possono più avere dubbi.

Infatti, egli si esprime così: «La Chiesa è chiamata a rendere testimonianza ai valori evangelici della dignità di ogni persona e della solidarietà fraterna. Nel quadro della nostra società, spesso smarrita e in cerca di un senso e di un orientamento, la Chiesa questi valori deve viverli, facendo anche sentire la propria voce senza timore, soprattutto quando in gioco ci sono le vite di tante persone deboli e indifese». Bando, quindi, a un incomprensibile senso di inferiorità vissuto da molti cattolici, che spesso non osano porsi chiaramente di fronte alla società con la bellezza delle proprie esperienze e delle proprie idee. Basta con questo “timore”, contrario, peraltro, a quanto ci invitano a fare Gesù nel Vangelo, san Paolo nelle sue lettere e i grandi documenti papali relativi alla dottrina sociale della Chiesa.

Il cardinale aggiunge: «Su temi che riguardano tutti, il contributo culturale dei cattolici è non solo doveroso, ma anche atteso da una società che cerca punti di riferimento. Ci è chiesto infatti, come Chiesa, di andare oltre la pura testimonianza, per saper dare ragione di quello che sosteniamo». 

Bando, dunque, ad un interpretazione riduttiva della “testimonianza”, che non è solo quella muta e nascosta. Quando occorre, dobbiamo proclamare le “ragioni” anche pubbliche della nostra presenza. E quando si tratta di formulare una legge, il silenzio non basta. Anche una certa lotta, condotta cristianamente, costituisce una testimonianza a Cristo. Tutto è testimonianza se operiamo per Cristo. Talvolta occorre il silenzio ed il puro ascolto, ma talvolta occorre  la parola chiara e forte, anche correndo il rischio di una dialettica. Senza questa dialettica, sant’Ambrogio e sant’Eusebio e tanti altri non avrebbero sconfitto la terribile e mortifera eresia di Ario. Di fronte alle demoniache (il demonio esiste e oggi più che mai lo si vede) affermazioni di oggi contro la vita da parte di chi si crede diventato Dio non possiamo solo stare zitti. Ringraziamo il cardinal Bassetti per avercelo ricordato.

E poi altre sue parole. «Ecco allora il valore insostituibile delle comunità cristiane e delle associazioni: vi saluto davvero tutte con grande cordialità e affetto! Siete contesti vitali nei quali sperimentare fraternità e condividere intenti e progettualità». 

Il metodo comunitario è “insostituibile” e costituisce la via migliore e più efficace per contrastare l’attuale trend individualista che porta ad affermare, al contrario, il metodo della “autodeterminazione” (come se l’uomo si fosse fatto da sé!), la quale porta alla conseguenza estrema di scegliere non la vita, ma la morte.

Così il cardinale termina il suo intervento: «Ringrazio tutti voi per essere qui oggi e per l’impegno con il quale contribuite al dibattito pubblico sulle tematiche relative alla vita. Che questa passione per la tutela e la promozione della vita e dell’autentica libertà delle persone, possa diffondersi a tutti i cristiani (…) La Madre di Gesù, che ha portato la croce insieme al suo figlio, ci insegni a lottare».  

Caro direttore, ecco perché, in apertura, ti ho detto che ora i cattolici italiani non hanno più scuse per sottrarsi agli impegni pubblici che la situazione culturale e sociale di oggi richiede. Al di là dei risultati che si riusciranno ad ottenere. L’impegno con tutta la realtà fa parte dell’essere globale e indiviso del cristiano.

PEPPINO ZOLA 15 SETTEMBRE 2019 

L’INCULTURAZIONE GENDER CHE PORTA A BIBBIANO


Giorgia Brambilla (professore presso la Pontificia università Lateranense)
VIAGGIO NEL PENSIERO CHE HA CONTRIBUITO A FABBRICARE QUESTA RIPUGNANTE MACCHINA
Di recente, sono stata chiamata a svolgere delle conferenze sul legame tra gli obbrobriosi fatti di Bibbiano e l’ideologia “gender”, un legame che non si coglie immediatamente, ma che richiede invece un’attenzione particolare. Con questa breve riflessione, infatti, non voglio entrare nel merito del buco nero della spaventosa macchina degli affidi che è venuta a galla nell’ultimo periodo, ma nel pensiero che ha contribuito a fabbricare questa macchina. E questo perché chi decide onorevolmente di scendere in battaglia contro “Bibbiano” possa ricordare chi è il suo vero nemico.
Ripercorriamo brevemente i fatti. Nel 2016 si costituisce una commissione a Reggio Emilia contro gli abusi sui minori basata sulla formazione degli assistenti sociali, che incentiva il ricorso agli affidi, al posto delle comunità. Il tutto in una cornice di contrasto all’idea della famiglia “patriarcale” – termine comparso sui giornali – covo di violenza. Nel 2019 emerge il vero volto di quel “modello”: un’associazione a delinquere istituzionalizzata che individua le famiglie in difficoltà (e su questo non ci sarebbe nulla da dire), calcando la mano per togliere o sospendere la patria potestà ai genitori e affidando i figli a nuclei “famigliari” che ruotano attorno al sistema.
Si scopre, infatti, che lo stesso sistema ne incentiva un altro che alcuni sostengono non esista o perlomeno non abbia nulla a che fare con queste faccende: la visione, chiamata ideologia gender, che “naturalizza” ciò che non è naturale cioè le unioni tra persone dello stesso sesso. E così la coppia affidataria, impersonando la figura di “salvatrice dell’infanzia offesa”, rincara l’idea che chiunque può crescere un bambino, anzi che la “famiglia omogenitoriale” lo sa fare pure meglio, creando contemporaneamente una casistica a riguardo. 
A un certo punto, però, i nodi vengono al pettine: assistenti sociali che confessano, giudici che ammettono di aver ricevuto pressioni, psicologi laureati in altro, segnalazione di metodi impropri fino alla manipolazione mentale dei bambini. Escono altri casi in altre parti d’Italia. La politica glissa sulle “fake news” e non ferma la macchina, tanto che nella notte del 27 luglio con una seduta record di 40 ore, proprio la regione Emilia Romagna fa passare la “Legge contro l’omotransnegatività”, rinominata in modo più asettico “Legge regionale contro le discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere”. Parallelamente, anche il progetto scolastico di “educazione alla parità e al rispetto delle differenze di genere allo scopo di superare gli stereotipi” va avanti; del resto, in un sistema in cui la famiglia naturale viene neutralizzata e le altre unioni naturalizzate, la scuola, così come il sistema Bibbiano, non può che fungere da riprogrammatrice di cervelli. Il tutto dietro al paravento delle “pari opportunità”.
È infatti proprio la retorica femminista ad aver gradualmente disinnescato il gender riassorbendolo da un lato nella violenza di genere, dall’altro in una versione melensa di “tolleranza”. Le “teorie del genere” e l’omosessualismo – dove con questo termine intendiamo i gruppi di militanti gay che cercano di ottenere il riconoscimento di taluni diritti – ancorano le loro argomentazioni a una sorta di egualitarismo che mostra la differenza, nella fattispecie quella sessuale, come motivo di discriminazione. Questo approccio diventa muro, se non addirittura strategia, che impedisce di entrare in merito alla questione omosessuale e alle sue innumerevoli implicazioni individuali, culturali e sociali. Tutto il discorso è riportato continuamente all’aspetto dei diritti, alla lotta contro le discriminazioni, alla ricerca dell’uguaglianza.
I movimenti LGBT affermano che la differenza tra uomo e donna presuppone un’ingiustizia e lo fanno attuando una specie sillogismo: la differenza dei sessi è una disuguaglianza, la diseguaglianza è un’ingiustizia; dunque, la differenza sessuale è un’ingiustizia.
In ottemperanza al principio secondo il quale diversità equivale a disuguaglianza, e dunque a un’inaccettabile fonte di discriminazione e oppressione, è necessario fare in modo che tutti gli esseri umani non siano più identificabili in intollerabili classi in base al comportamento sessuale, ma nella nuova categoria del genere come promessa per un futuro di felicità e pace per tutti nel momento in cui saranno cadute tutte le barriere e le discriminazioni. Un po’ sullo stile di “Imagine” di John Lennon. Tutti uguali, tutti indistinti, tutti felici. Eliminiamo ogni differenza: da quelle economiche, a quelle di merito; da quelle religiose a quelle morali (non c’è Paradiso né Inferno); da quelle sessuali a quelle di salute (tutti sani, quindi eliminiamo il malato con l’eutanasia).
Il problema è che, dal punto di vista antropologico, eliminare la “classe”, cioè il sesso di appartenenza, è innanzitutto “rimpicciolire” il proprio corpo in favore di una visione quasi “spiritualista” della persona; poi, è eliminare la natura, che in ambito sessuale significa raggiungere quell’aspirato “genere neutro” a cui deve aspirare l’intera umanità per poter giungere al miraggio della pacifica convivenza sulla terra. In questo pensiero, le differenze – anche quelle biologiche – considerate pericolose, devono essere sacrificate all’uniformità culturale, il che non è affermazione di sé o del proprio agire, ma semmai già di per sé privazione. È facile cogliere che le stesse rivendicazioni che scaturiscono dai cosiddetti “gender studies” si rifanno ad una aspirazione di giustizia “correttiva”, quasi che la naturale differenza sessuale costituisse di per sé una mancanza e quindi un’ingiustizia. Di fatto, quindi, l’uguaglianza si ottiene al negativo, cioè togliendo qualcosa – in questo caso l’identità sessuata – e non piuttosto affermando, o semplicemente riconoscendo, la persona per quello che è. Capiamo, allora che la teoria del gender ha un aspetto politico, anzi biopolitico, in due sensi apparentemente opposti. Da un lato, poiché il concetto di “differenza” è affiancato al concetto di “autorità” e letto come un sistema di potere, “decostruire” il sesso e quindi la natura è una forma di liberazione – una libertà che degenera, però, in un ulteriore potere sul proprio corpo oggettivizzato. Dall’altro, la ricerca ossessiva di uniformità è essa stessa una forma di “controllo”, che diventa crescente pervasività del politico nel biologico.
Ogni qual volta si propone una sorta di “standardizzazione” va da sé che ci si deve rifare a uno “stampo”. Chi decide quale modello sia quello giusto? In un precedente articolo, si è dimostrato che, in un ambito più strettamente medico, un’eugenetica di stampo liberale potrebbe coerentemente arrivare a far diventare il genitore un designer del figlio attraverso la manipolazione genetica. Andando più indietro nel tempo, alla prima utopia eugenetica, ricordiamo che a farsi garante del “miglioramento” – chiamata anche “rigenerazione” – era lo Stato che, entrando nella vita dei cittadini, imponeva linee di condotta relative alla sessualità e alla riproduzione (stabilendo chi fosse idoneo per sposarsi e avere figli e chi no), chiamando in causa già allora la scuola, affinché passasse un’educazione “scientifica” presentata come “igiene sessuale” o “medicina sociale”.
Lo scandalo di Bibbiano, mostra che anche oggi, tra l’altro in una realtà socio-culturale ossessionata dalla “privacy”, si assiste a un massiccio intervento dello Stato di stampo collettivista sulla sfera privata e in particolare sulla famiglia. Questa politicizzazione della vita che sembra cercare di “proteggere”, di immunizzare la collettività attraverso l’uniformità dei suoi membri non può che estendere il controllo agli ambiti della sessualità e della procreazione soprattutto a partire dalle nuove generazioni, attraverso la neutralizzazione progressiva della famiglia naturale. Ed è qui che l’uniformità diventa controllo.
Come dimenticare le parole di Aldous Huxley che ne “Il mondo nuovo” scrive: «il complesso sociale ha maggiore importanza e significato delle parti individuali: le differenze biologiche innate debbono sacrificarsi all’uniformità (..) L’uomo deve sacrificare le proprie idiosincrasie ereditarie e fingere di essere quel buon ingrediente standardizzato che gli organizzatori dell’attività di gruppo stimano perfetto per i loro fini. Quest’uomo ideale è colui che mostra “conformismo dinamico”» (A.Huxley, Il mondo nuovo, Mondadori, 200013, p.256).

mercoledì 11 settembre 2019

IL PAPA: UNO SCISMA AMERICANO?


 

NON HO PAURA MA PREGO PERCHÉ NON ACCADA

Al rientro dal viaggio in Mozambico, Madagascar e Mauritius, Francesco fa il punto della situazione della Chiesa e degli attacchi al suo pontificato: «Nella storia del cattolicesimo è già successo molte volte che un gruppo si stacchi, ma c’è di mezzo la salute spirituale di tanta gente»

 

Intervista di GIAN GUIDO VECCHI
Corriere della sera 11 settembre 2019

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SUL VOLO PAPALE - L’aereo sorvola il Kilimangiaro quando Francesco raggiunge i giornalisti che lo hanno seguito in Mozambico, Madagascar e Mauritius. All’andata, nel commentare un libro sugli attacchi contro di lui dell’ultradestra cattolica americana, aveva esclamato: per me è un onore che mi attacchino. Ora risponde sereno, ma secco: «Io prego che non ci sia uno scisma, ma non ho paura, nella Chiesa ci sono stati tanti scismi». E parla, tra l’altro, delle «xenofobie che tante volte cavalcano i cosiddetti populismi politici» («A volte sento in alcuni posti discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel ’34»), delle «guerre che non risolvono niente», di devastazioni ambientali e corruzione, della denatalità europea«per attaccamento al benessere».

Santità, negli Usa ci sono forti critiche e alcune persone a lei vicine hanno parlato di un complotto contro di lei. C’è qualcosa che questi critici non capiscono dal suo pontificato, o che lei ha imparato dalle critiche?
«Le critiche aiutano sempre, quando uno riceve una critica subito deve fare autocritica, e dire questo è vero, non è vero…Delle critiche io vedo sempre i vantaggi. A volte ti arrabbi, ma i vantaggi ci sono. Le critiche non sono soltanto degli americani ma un po’ dappertutto, anche in Curia, almeno quelli che le fanno hanno l’onestà di dirlo. E me piace questo, non mi piace quando le critiche stanno sotto il tavolo, ti fanno un sorriso che ti fanno vedere i denti e poi ti pugnalano da dietro. Questo non è leale, non è umano. La critica vera è un elemento di costruzione. Invece la critica delle pillole di arsenico è un po’ come buttare la pietra e nascondere la mano. Questo non serve, non aiuta. Aiuta i piccoli gruppetti chiusi che non vogliono sentire la risposta alla critica. Invece una critica leale, “io penso questo, questo, questo…”, è aperta alla risposta e costruisce, aiuta. Se dico “questo del Papa non mi piace”, faccio una critica e aspetto la risposta, vado da lui e parlo, scrivo un articolo e gli chiedo di rispondere. Questo è leale, questo è amare la Chiesa. Fare una critica senza voler sentire la risposta e senza fare il dialogo è non volere bene alla Chiesa, è andare dietro ad una idea fissa, cambiare Papa, cambiare stile, o fare uno scisma, questo è chiaro no? Una critica leale è sempre ben ricevuta, almeno da me».

Lei ha paura di uno scisma nella chiesa americana? 
«Nella Chiesa ci sono stati tanti scismi. Dopo il Concilio Vaticano I e l’ultima votazione, quella sull’infallibilità, un bel gruppo se ne è andato, si è staccato dalla Chiesa e ha fondato i veterocattolici per essere fedeli alla tradizione della Chiesa, poi hanno trovato uno sviluppo differente e adesso fanno l’ordinazione delle donne. Ma in quel momento erano rigidi, andavano dietro ad un’ortodossia e pensavano che il Concilio avesse sbagliato. Anche il Vaticano II ha creato queste cose, forse il distacco più conosciuto è quello di Lefèbvre. Sempre c’è l’azione scismatica nella Chiesa, è una delle azioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi. Prego perché non ce ne siano, perché c’è di mezzo la salute spirituale di tanta gente, prego che ci sia il dialogo, che ci sia la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino nello scisma non è cristiano. Pensiamo all’inizio della Chiesa, a come ha incominciato la Chiesa: con tanti scismi, uno dietro l’altro, basta leggere la storia della Chiesa. Gli ariani, gli gnostici, i monofisiti, tutti questi… È stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi, gli scismatici hanno sempre una cosa in comune: si staccano dal popolo, dalla fede del popolo, dalla fede del popolo di Dio. Quando al concilio di Efeso ci fu una discussione sulla maternità di Maria, il popolo - questo è storico - era all’entrata della cattedrale e quando i vescovi entravano per fare il concilio, stavano con i bastoni e glieli facevano vedere e gridavano, “Madre di Dio, Madre di Dio”. Come dicendo: se voi non fate questo, ecco cosa vi aspetta. Il popolo di Dio sempre aggiusta e aiuta. Uno scisma è sempre una situazione elitaria, dall’ideologia staccata dalla dottrina. Per questo io prego che non ci siano gli scismi. Ma non ho paura. Io rispondo alle critiche, tutto questo lo faccio. Ma questo è uno dei risultati del Vaticano II, non è che questo Papa o l’altro Papa o l’altro Papa… Ad esempio le cose sociali che io dico sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse, io copio lui. “Ma il Papa è troppo comunista, eh ”! Entrano delle ideologie nella dottrina, e quando la dottrina scivola sulla ideologia lì c’è la possibilità di uno scisma. E c’è la ideologia, cioè la primazia di una morale asettica, sulla morale del popolo di Dio. La morale dell’ ideologia, così pelagiana, ti porta alla rigidità. E oggi abbiamo tante, tante scuole di rigidità dentro della Chiesa, che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudo-scismatiche che alla fine finiranno male. Quando voi vedrete cristiani, vescovi e sacerdoti rigidi, dietro di quello ci sono dei problemi, non c’è la sanità del Vangelo. Per questo dobbiamo essere miti con le persone che sono tentate da questi attacchi, perché stanno passando un problema, e dobbiamo accompagnarle con mitezza».

PAPA FRANCESCO DICE CHE NON HA PAURA DEGLI SCISMI.



Tintoretto, Giudizio Universale
Venezia, Chiesa della Madonna dell'Orto

Perché è a lui, più che ad ogni altro, che Dio chiederà conto dell'unità della chiesa. Il compito di Pietro non è forse innanzitutto quello di custodire l'integrità della fede e radunare intorno ad essa tutti i credenti? E tenere il più possibile unita la chiesa non è parte essenziale di questo dovere che incombe su di lui? Ogni parzialità, ogni parola “divisiva”, ogni accentuazione unilaterale di taluni aspetti del cristianesimo a scapito di altri, – anche espresse in modi che sarebbero accettabili in altri soggetti non investiti della potestà universale del papa –  possono diventare, venendo da un papa, un fattore che nuoce all'unità della chiesa. Al papa è chiesto persino di passare sopra ad ogni sua pur legittima preferenza soggettiva o tratto caratteriale, pur di giovare all'unità.
Anche senza arrivare a scismi formali – un'eventualità funesta che purtroppo non può dirsi del tutto irrealistica – che la chiesa cattolica sia già oggi profondamente divisa è sotto gli occhi di tutti. Come fa il papa a dire che non ha paura degli scismi?