LA DECISIONE DELLA CONSULTA SUL SUICIDIO
ASSISTITO SEGNA LA VITTORIA DI UNA CULTURA LIBERTARIA E RELATIVISTA PENETRATA
DA DECENNI NELLA NOSTRA SOCIETÀ. IL COMPITO DEL PARLAMENTO, ORA, SARÀ ANCORA
PIÙ COMPLICATO
ALFREDO
MANTOVANO
Provo a
ragionare in prospettiva, muovendomi sulla traccia della nota stampa diffusa
dalla Corte costituzionale l’altra sera – in uno con l’ordinanza n. 207 di
dieci mesi fa -, e immaginando vari lievi di intervento.
Prima domanda: la sentenza della Consulta avrà
effetti concreti e immediati? Se sì, quali? Non è una quesito capzioso, perché
la Corte non dichiara illegittimo l’art. 580 del cod. pen.: demanda al giudice
del singolo caso stabilire se sussistono le condizioni per la non punibilità,
presupponendo che comunque un procedimento penale si avvii per operare la
verifica richiesta.
Fra le
condizioni, la nota stampa, e prima l’ordinanza, indicano quale pregiudiziale a
ogni trattamento di fine vita il ricorso
alle cure palliative. Cure che, entrate nell’ordinamento con la legge
n.38/2010, non hanno mai trovato attuazione: nelle facoltà di medicina manca
l’apposita disciplina, i corsi di specializzazione si contano sulle punta delle
dita di una mano, e per questo non ci sono i medici palliativisti e i relativi
reparti. Immaginiamo che il Governo voglia recuperare il gap e inserisca nella
legge di stabilità le risorse finora mancate: per la piena fruibilità delle
cure sull’intero territorio nazionale trascorrerebbe, se va bene, un decennio.
E nel frattempo? La nota precisa che “la
Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste
dalla normativa (…) sulle cure palliative”: “subordinare” vuol dire che la
punibilità opera se prima non sono attivate le cure palliative. Vi è una
logica: se l’impulso a chiedere l’assistenza al suicidio deriva
dall’intollerabilità delle sofferenze del paziente, circoscriverle può far
venir meno la richiesta. Ma se questo è il quadro, la medesima logica impone
che la sentenza della Consulta non si applichi prima che le cure palliative
vadano a pieno regime. La sentenza chiarirà quest’aspetto?
La Corte affida le “modalità di
esecuzione” a “una
struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico
territorialmente competente”. Anche qui i problemi sono tanti: non vi è
solo la medicalizzazione del suicidio
assistito, bensì pure la sua presa in carico dal servizio pubblico.
Rispetto all’ordinanza n. 207 c’è qualcosa in meno: la nota non menziona
l’obiezione di coscienza per il medico. E’ per sintesi del comunicato o, come è
già nella legge sulle “dat”-le disposizioni anticipate di trattamento,
l’omissione è voluta? E c’è qualcosa in più: il parere del Comitato etico
competente per territorio.
Si riconosca o meno il diritto
all’obiezione, il medico, come la Federazione degli Ordini ha sottolineato in
un documento di qualche mese fa, viene chiamato a compiere un atto vietato dal
proprio codice deontologico; il problema, prima ancora della valvola di sfogo dell’obiezione (il cui
eventuale mancato riconoscimento violerebbe, esso sì, più nome costituzionali),
è il rapporto fra legge dello Stato, o sentenza della Consulta, e norme di
deontologia: quale prevale? Non è così semplice, se ne dibatte da decenni:
diventa cruciale a fronte di scelte di morte. Quanto al Comitato etico, in
Belgio e in Olanda – nei quali eutanasia e suicidio assistito sono legali da
tempo – c’è qualcosa di simile, ma svolge una verifica ex post sulla
correttezza della procedura. La sentenza dirà qualcosa su profili così
rilevanti?
Vi è un livello successivo: quello
della legge che dovrà seguire alla sentenza: legge dalla Consulta definita
“indispensabile”. L’impressione
è che larga parte del Parlamento – qualche gruppo politico lo ha pure detto in
esplicito – non avesse voglia di impegnarsi in una materia così difficile, e
preferisse lasciare il “lavoro sporco” ai giudici costituzionali. Lo stesso
Governo mostra di aver condiviso questo tratto, allorché non ha fatto chiedere
dall’Avvocatura dello Stato nel giudizio di costituzionalità il rinvio, che ci
sarebbe stato tutto, per dare più tempo alle Camere.
Il risultato
è che oggi il compito del Parlamento è, se possibile, ancora più complicato,
dovendo fare i conti con le contraddizioni della sentenza e con la necessità di
sciogliere i nodi che essa presenta. Non è immaginabile di uscirsene con
qualche slogan da social.
Vi è un ulteriore livello: quello in
senso lato culturale. Di una
“cultura” libertaria e relativista che ha trasformato un giudizio di
legittimità, che per Costituzione avrebbe a oggetto una norma, in un giudizio
sulla punibilità dell’on. Cappato e di chi fa come lui; e che ha impostato il
dibattito mediatico in una disputa (quando c’è stata) fra cantori
dell’autodeterminazione e vescovi, lasciando fuori le prioritarie e non
confessionali ragioni di ordine antropologico.
Quanto accaduto in Italia a
partire dal caso Englaro, poi con la legge sulle “dat”, e quindi con le
decisioni della Consulta, è l’esito della prevalenza di orientamenti penetrati
nel corso dei decenni nella comunità scientifica, nelle università, nelle aule
di giustizia, e quindi nei media e nella politica. Chi non condivide questi
esiti sappia che la strada da percorrere non può limitarsi al pur necessario
intervento legislativo: deve approfondire l’elaborazione di una cultura delle vita e della cura della sofferenza rispettosa della dignità e dell’unicità di ogni persona.
CERCARE SCORCIATOIE SIGNIFICA RASSEGNARSI A UNA SCONFITTA DI
CIVILTÀ.
TRATTO DA "CENTRO STUDI LIVATINO"
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