LA CORTE NON E’ UNA ENTITA’ METAFISICA, MA UN ORGANO DI
INDIRIZZO POLITICO
Ieri la Corte costituzionale ha emesso una sentenza con la quale legittima,
a determinate condizioni, l'aiuto al suicidio. (Non il “suicidio assistito” o
“l'assistenza al suicidio”, come pur si sente dire, con una piccola truffa
linguistica basata sull'ambiguità del verbo “assistere”. L'art. 580 del Codice
penale, puniva chi «agevola in qualsiasi modo l'esecuzione» di un
suicidio).
Lo ha fatto dopo una camera di consiglio durata due giorni: segno inequivocabile di un dibattito molto
tormentato e indizio quasi certo di una decisione presa a maggioranza. Del
resto, anche il testo dell'ordinanza di rinvio emessa undici mesi fa dalla
stessa Corte, – nella quale peraltro, del tutto irritualmente, veniva già
prefigurato il contenuto della sentenza di ieri – portava il segno di forti
contrasti tra dottrine e orientamenti diversi in seno al collegio giudicante.
MARTA CARTABIA, Vicepresidente della Corte |
So che l'ordinamento italiano non prevede, a differenza di altri, la
possibilità che i membri di un collegio giudicante rendano pubblica la
loro dissenting opinion, cioè il proprio motivato dissenso
dalla decizione presa dalla maggioranza del collegio. Quello che ignoro – e
pregherei chi tra gli eventuali lettori fosse in grado di illuminarmi su questo
di spiegarmelo – è se per i giudici della Corte costituzionale esista una norma
di legge che esplicitamente lo vieta e come sia punita la violazione di tale
divieto.
Lo chiedo perché, se non vi fosse una proibizione esplicita e diretta, io
credo che almeno in un caso come questo, in cui è in gioco un bene di tale
importanza, i giudici dissenzienti
avrebbero il dovere morale di far conoscere al popolo italiano (nel cui nome
giudicano!) il loro diverso giudizio. Anche a costo di una forzatura rispetto
alla prassi consolidata e rispetto ad un “principio generale”. (Le forzature,
quando si voglion fare, si fanno: del resto, anche anticipare la sentenza in
un'ordinanza di rinvio non è una “sgrammaticatura”, e non da poco,
rispetto al principio che un giudice decide solo con la sentenza e nella
sentenza, e non prima?)
Me lo aspetterei, in particolare, dal giudice Marta Cartabia,
vicepresidente della Corte, cattolica, che presumo sia stata in prima fila nel
sostenere ragioni diverse e contrarie a quelle che hanno portato alla sentenza
di ieri.
Perché penso che sarebbe doveroso compiere un gesto di rottura di questo
genere? Perché servirebbe a togliere di
mezzo un inganno: quell'alone di “falsa sacralità” con cui ancora si avvolge
l'operato della “Suprema Corte”, come se essa pronunciasse verdetti
“divini” che scendono direttamente dall'Olimpo del Diritto e non fosse invece
un organo di indirizzo politico. Sapere che non “La Corte” come entità
metafisica, ma poniamo otto o nove giudici su quindici hanno fatto un certo
ragionamento, mentre sette o otto ne hanno fatto un altro; poter mettere a
confronto le diverse logiche culturali-politiche-giuridiche che hanno condotto
a conclusioni opposte, eccetera eccetera, significherebbe restituire ai
cittadini la possibilità di sapere come stanno le cose. Che è la base di ogni
libertà.
LEONARDO LUGARESI
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