Giorgia Brambilla (professore presso la Pontificia università
Lateranense)
VIAGGIO NEL PENSIERO CHE HA CONTRIBUITO A FABBRICARE QUESTA RIPUGNANTE MACCHINA
Di recente, sono stata chiamata a
svolgere delle conferenze sul legame tra gli obbrobriosi fatti di Bibbiano e
l’ideologia “gender”, un legame che non si coglie immediatamente, ma che
richiede invece un’attenzione particolare. Con questa breve riflessione,
infatti, non voglio entrare nel merito del buco
nero della spaventosa macchina degli affidi che è venuta a galla
nell’ultimo periodo, ma nel pensiero che
ha contribuito a fabbricare questa macchina. E questo perché chi decide
onorevolmente di scendere in battaglia contro “Bibbiano” possa ricordare chi è
il suo vero nemico.
Ripercorriamo brevemente i fatti. Nel
2016 si costituisce una commissione a Reggio Emilia contro gli abusi sui minori
basata sulla formazione degli assistenti sociali, che incentiva il ricorso agli
affidi, al posto delle comunità. Il tutto
in una cornice di contrasto all’idea della famiglia “patriarcale” – termine
comparso sui giornali – covo di violenza. Nel 2019 emerge il vero volto di
quel “modello”: un’associazione a delinquere istituzionalizzata che individua
le famiglie in difficoltà (e su questo non ci sarebbe nulla da dire), calcando
la mano per togliere o sospendere la patria potestà ai genitori e affidando i
figli a nuclei “famigliari” che ruotano attorno al sistema.
Si scopre, infatti, che lo stesso
sistema ne incentiva un altro che alcuni sostengono non esista o perlomeno non
abbia nulla a che fare con queste faccende: la visione, chiamata ideologia gender, che “naturalizza” ciò che non è
naturale cioè le unioni tra persone dello stesso sesso. E così la coppia affidataria, impersonando
la figura di “salvatrice dell’infanzia offesa”, rincara l’idea che chiunque può
crescere un bambino, anzi che la “famiglia omogenitoriale” lo sa fare pure
meglio, creando contemporaneamente una casistica a riguardo.
A un certo punto, però, i nodi vengono
al pettine: assistenti sociali che confessano, giudici che ammettono di aver
ricevuto pressioni, psicologi laureati in altro, segnalazione di metodi
impropri fino alla manipolazione mentale dei bambini. Escono altri casi in
altre parti d’Italia. La politica glissa sulle “fake news” e non ferma la
macchina, tanto che nella notte del 27 luglio con una seduta record di 40 ore,
proprio la regione Emilia Romagna fa
passare la “Legge contro l’omotransnegatività”, rinominata in modo più asettico
“Legge regionale contro le discriminazioni e le violenze determinate
dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere”. Parallelamente,
anche il progetto scolastico di “educazione alla parità e al rispetto delle
differenze di genere allo scopo di superare gli stereotipi” va avanti; del resto,
in un sistema in cui la famiglia naturale viene neutralizzata e
le altre unioni naturalizzate, la scuola, così come il sistema
Bibbiano, non può che fungere da riprogrammatrice di cervelli. Il tutto dietro
al paravento delle “pari opportunità”.
È infatti proprio la retorica femminista
ad aver gradualmente disinnescato il gender riassorbendolo da un lato nella
violenza di genere, dall’altro in una versione melensa di “tolleranza”. Le “teorie del genere” e
l’omosessualismo – dove con questo termine intendiamo i gruppi di militanti gay
che cercano di ottenere il riconoscimento di taluni diritti – ancorano le loro argomentazioni a una sorta
di egualitarismo che mostra la differenza, nella fattispecie quella sessuale,
come motivo di discriminazione. Questo approccio diventa muro, se non
addirittura strategia, che impedisce di entrare in merito alla questione
omosessuale e alle sue innumerevoli implicazioni individuali, culturali e
sociali. Tutto il discorso è riportato
continuamente all’aspetto dei diritti, alla lotta contro le discriminazioni,
alla ricerca dell’uguaglianza.
I
movimenti LGBT affermano che la differenza tra uomo e donna presuppone
un’ingiustizia e lo fanno attuando una specie sillogismo: la differenza dei
sessi è una disuguaglianza, la diseguaglianza è un’ingiustizia; dunque, la
differenza sessuale è un’ingiustizia.
In ottemperanza al principio secondo il
quale diversità equivale a disuguaglianza, e dunque a un’inaccettabile fonte di
discriminazione e oppressione, è necessario fare in modo che tutti gli esseri
umani non siano più identificabili in intollerabili classi in base al
comportamento sessuale, ma nella nuova categoria del genere come promessa per
un futuro di felicità e pace per tutti nel momento in cui saranno cadute tutte
le barriere e le discriminazioni. Un po’
sullo stile di “Imagine” di John Lennon. Tutti uguali, tutti indistinti, tutti
felici. Eliminiamo ogni differenza: da quelle economiche, a quelle di
merito; da quelle religiose a quelle morali (non c’è Paradiso né Inferno); da quelle
sessuali a quelle di salute (tutti sani, quindi eliminiamo il malato con
l’eutanasia).
Il problema è che, dal punto di vista
antropologico, eliminare la “classe”, cioè il sesso di appartenenza, è
innanzitutto “rimpicciolire” il proprio corpo in favore di una visione quasi
“spiritualista” della persona; poi, è eliminare la natura, che in ambito
sessuale significa raggiungere quell’aspirato “genere neutro” a cui deve
aspirare l’intera umanità per poter giungere al miraggio della pacifica
convivenza sulla terra. In questo pensiero, le differenze – anche quelle
biologiche – considerate pericolose, devono essere sacrificate all’uniformità
culturale, il che non è affermazione di sé o del proprio agire, ma semmai
già di per sé privazione. È facile cogliere che le stesse rivendicazioni che
scaturiscono dai cosiddetti “gender studies” si rifanno ad una aspirazione di
giustizia “correttiva”, quasi che la naturale differenza sessuale costituisse
di per sé una mancanza e quindi un’ingiustizia. Di fatto, quindi, l’uguaglianza
si ottiene al negativo, cioè togliendo qualcosa – in questo caso l’identità
sessuata – e non piuttosto affermando, o semplicemente riconoscendo, la persona
per quello che è. Capiamo, allora che la teoria del gender ha un
aspetto politico, anzi biopolitico, in due sensi apparentemente opposti. Da un lato, poiché il concetto di
“differenza” è affiancato al concetto di “autorità” e letto come un sistema di
potere, “decostruire” il sesso e quindi la natura è una forma di liberazione –
una libertà che degenera, però, in un ulteriore potere sul proprio corpo
oggettivizzato. Dall’altro, la ricerca ossessiva di uniformità è essa stessa
una forma di “controllo”, che
diventa crescente pervasività del politico nel biologico.
Ogni qual volta si propone una sorta di
“standardizzazione” va da sé che ci si deve rifare a uno “stampo”. Chi decide
quale modello sia quello giusto? In un precedente
articolo, si è dimostrato che,
in un ambito più strettamente medico, un’eugenetica di stampo liberale potrebbe
coerentemente arrivare a far diventare il genitore un designer del
figlio attraverso la manipolazione genetica. Andando più indietro nel tempo,
alla prima utopia eugenetica, ricordiamo che a farsi garante del
“miglioramento” – chiamata anche “rigenerazione” – era lo Stato che, entrando
nella vita dei cittadini, imponeva linee di condotta relative alla sessualità e
alla riproduzione (stabilendo chi fosse idoneo per sposarsi e avere figli e chi
no), chiamando in causa già allora la scuola, affinché passasse un’educazione
“scientifica” presentata come “igiene sessuale” o “medicina sociale”.
Lo scandalo di Bibbiano, mostra che
anche oggi, tra l’altro in una realtà socio-culturale ossessionata dalla
“privacy”, si assiste a un massiccio
intervento dello Stato di stampo collettivista sulla sfera privata e in
particolare sulla famiglia. Questa politicizzazione della vita che sembra
cercare di “proteggere”, di immunizzare la collettività attraverso
l’uniformità dei suoi membri non può che estendere il controllo agli
ambiti della sessualità e della procreazione soprattutto a partire dalle nuove
generazioni, attraverso la neutralizzazione
progressiva della famiglia naturale. Ed è qui che l’uniformità diventa
controllo.
Come dimenticare le parole di Aldous
Huxley che ne “Il mondo nuovo” scrive: «il complesso sociale ha maggiore
importanza e significato delle parti individuali: le differenze biologiche
innate debbono sacrificarsi all’uniformità (..) L’uomo deve
sacrificare le proprie idiosincrasie ereditarie e fingere di essere quel buon
ingrediente standardizzato che gli organizzatori dell’attività di
gruppo stimano perfetto per i loro fini. Quest’uomo ideale è colui che mostra
“conformismo dinamico”» (A.Huxley, Il mondo nuovo, Mondadori, 200013,
p.256).
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