Rodolfo
Casadei
Tempi, Agosto
16, 2018
Dio non ha nulla a che fare con l’evento? Eppure nelle
nostre orecchie e nel nostro cuore risuona l’urlo di quell’uomo che per quattro
volte grida con voce sconvolta “Oh, Dio!”
Ponte Morandi (foto Ansa) |
Quando settimana
scorsa Matteo Zuppi vescovo di
Bologna ha affermato, commentando il disastroso incidente sulla tangenziale di
Borgo Panigale che aveva provocato grandi danni materiali, ma soltanto due
decessi, che a proteggere la città da danni peggiori era stata la Provvidenza di Dio, molti non hanno
gradito. A parte le ironie di agnostici e scettici vari, anche qualche
sacerdote ha manifestato disagio. «Come prete mi dichiaro ateo di questo “dio”
che a volte c’è, a volte non c’è e a volte, come in questo caso, c’è ma solo a
metà!», ha replicato per esempio don Aldo Antonelli, in passato prete
antiberlusconiano e oggi prete anti-Salvini. «Quando la smetteranno i nostri
vescovi di propagandare questo “deus ex machina” che non è altro che il parto
delle nostre ignoranze e delle nostre paure?».
Molto peggio è andata
al domenicano padre Giovanni Cavalcoli, che due anni fa definì “castigo di Dio”
il terremoto che colpì Norcia, Amatrice e le regioni circostanti, ipotizzando
un suo eventuale collegamento con l’approvazione della legge sulle unioni
civili. Il sacerdote fu ripudiato dai suoi confratelli domenicani, esecrato da
molti vescovi e privato della conduzione di una trasmissione a Radio Maria. Il messaggio è chiaro: Dio non c’entra con
le sciagure, non è la spiegazione della sopravvivenza di alcuni e del decesso
di altri; tenete Dio alla larga dagli avvenimenti catastrofici.
Con questi precedenti,
è prevedibile che nessuno si esporrà in questi giorni per indicare la mano di
Dio nella catastrofe del viadotto Morandi a Genova,
che sia per spiegare il destino di coloro che hanno incredibilmente scampato la
morte o per trovare una ragione alla perdita della vita di tanti.
Ci si limiterà ad affidare all’amore di Dio i morti e
a ricordare che la vita è dono grande e fragile, e per questo va vissuta
rendendo grazie con le parole e con le opere al suo Autore.
Dio non avrebbe nulla
a che fare con l’evento come tale. Eppure nelle nostre orecchie e nel nostro
cuore resterà per sempre il documento visivo e sonoro di quell’uomo che per
quattro volte grida con voce sconvolta “Oh, Dio!”, e la quinta “Dio santo!”
mentre l’autostrada crolla insieme ai veicoli che la percorrevano.
La reazione spontanea
di un uomo di fronte alla manifestazione terribile e incontenibile del Mistero.
Chiunque fra noi, se si fosse trovato al posto di quell’osservatore, avrebbe
quasi certamente profferito lo stesso grido. In momenti come quello, la nostra
stessa natura ci spinge a riconoscere la manifestazione dell’Oltre
nell’Aldiquà, l’irruzione del Totalmente Altro sulla scena della storia e delle
nostre biografie.
La spiegazione razionalistica, antropocentrica delle
catastrofi, quella che fa dire a politici e giornalisti «i responsabili saranno
individuati, e pagheranno la loro colpa» e che oggi esprime l’opinione comune
dominante, è una realtà recente. Per millenni gli esseri umani hanno chiamato in causa la divinità sia per
gli eventi fortunati che per quelli sfortunati. Per Greci e Romani gli dèi
erano capricciosi e imprevedibili, distribuivano benefici agli uni e malefici
agli altri; per gli ebrei Jahvè è un Dio che sceglie: ci sono gli eletti e i
non eletti, ci sono le acque del Mar Rosso che si aprono miracolosamente per
consentire la salvezza di Mosè e del suo popolo, e che si richiudono a
sterminare gli egiziani. Santuari e chiese in tutto il mondo cattolico ospitano
gli ex voto: piccoli doni (normalmente rappresentazioni pittoriche
dell’asserito avvenimento miracoloso) di ringraziamento per una grazia
ricevuta, solitamente la guarigione inspiegabile da una malattia o la
straordinaria incolumità dopo un grave incidente. Lo stesso riconoscimento
della discrezionalità dell’agire divino lo ritroviamo sul versante opposto:
quello delle afflizioni e delle disgrazie. Almeno per quanto riguarda
l’ebraismo e il cristianesimo. In tutte le religioni afflizioni e disgrazie
sono conseguenze di azioni umane che hanno offeso Dio o gli dèi o l’equilibrio
cosmico. Sono il corrispettivo del peccato originale, di tabù violati, delle
azioni colpevoli secondo la legge del karma. La malattia e la morte sono
dis-grazie conseguenza della perdita dello stato di grazia a causa della
trasgressione del comandamento di Dio di non mangiare il frutto dell’albero
della conoscenza nel giardino dell’Eden.
Ma nell’ebraismo e nel
cristianesimo abbiamo qualcosa di più: abbiamo le afflizioni intese come prova.
Come nel racconto di Giobbe. Dio non
toglie i beni per infliggere una punizione, ma per offrire all’uomo la possibilità di un rapporto più profondo e più
vero con Lui. Il rapporto più autentico col divino richiede la fatica e il
dolore di un’ascesi che è fatta di perdita, negatività, morte. Perché Dio è
l’Altro rispetto a tutto ciò che siamo e che pensiamo. E infatti quando l’uomo
si ribella all’incomprensibile, Dio risponde a Giobbe: «Dov’eri tu quand’io
ponevo le fondamenta della terra?». Che significa: la mia logica non coincide
con la tua. Come si legge in Isaia 55, 8-9: «I miei pensieri non sono i vostri
pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore. Quanto il
cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei
pensieri sovrastano i vostri pensieri». Giobbe afferra perfettamente il
concetto: «Ecco, meschino son io: che cosa potrei replicare? Mi pongo la mano
sulla bocca! (…) Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il Tuo
consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me,
che io non comprendo». Così come afferra perfettamente il concetto Abramo, che
ha poca esitazione nell’obbedire al comando di Dio di sacrificare Isacco,
perché, come scrive Kierkegaard, «l’individuo si rapporta con l’Assoluto in
modo assoluto»: la fede è paradosso, proprio nel momento in cui più si
allontana dalle logiche umane permette l’incontro con Dio.
Noi uomini
contemporanei ci facciamo beffe dei nostri antenati che vedevano l’azione
diretta di Dio negli eventi calamitosi sotto la forma dei miracoli, o del
mettere alla prova la fede, o di atti misteriosi di giustizia. Li giudichiamo superstiziosi e irrazionali.
Pensiamo di essere nel giusto noi, che spieghiamo la casualità degli incidenti
cercando i rapporti di causa ed effetto fra le cose secondo le leggi fisiche e
investigando le responsabilità morali/penali degli esseri umani coinvolti.
Eppure avevano ragione loro e abbiamo torto noi. Perché, come scriveva Giacomo
Biffi, citato dal suo successore Matteo Zuppi in un’intervista, «la casualità è soltanto il travestimento
assunto da un Dio che vuole passeggiare in incognito per le strade del mondo».
Enti naturali ed esseri umani, con le loro leggi fisiche e, nel caso dei
secondi, anche con la loro soggettività morale, partecipano di quell’atto puro
che è l’Essere, che coincide con Dio. Lo scientismo e l’antropocentrismo che
vorrebbero spiegare i fatti senza lasciare nessuno spazio al mistero e
all’imponderabile peccano di presunzione e di miopia: l’esigenza del rapporto
col Totalmente Altro è iscritto nella natura dell’uomo, perché senza alterità
non c’è soggettività, non c’è identità, non c’è esperienza del sé.
Nell’incomprensibile
del miracolo come in quello della disgrazia Dio si comunica direttamente a noi
nella sua Alterità. Nella disgrazia si comunica più pienamente che nel
miracolo, perché il dolore che proviamo implica la non riducibilità dell’Altro
a noi, la non assimilabilità: l’Altro resta altro, ed è proprio questo che
permette a noi di essere enti distinti, unici e irripetibili. Il limitare fra
la vita e la morte, dove la condizione dell’uomo è quella della debolezza e
dell’impotenza, è il luogo e il tempo più propizio per la contemporanea
rivelazione di noi a noi stessi e dell’Altro a noi. Lo hanno capito anche i
pensatori agnostici, da Martin Heidegger a Byung-Chul Han, che scrive: «Di
fronte all’Altro, io sono debole, sono debole per l’Altro. Ed è proprio in
questa debolezza metafisica del non-poter-potere che si risveglia il desiderio
dell’Altro. Soltanto attraverso una fenditura nell’essere in quanto essere-sé,
soltanto attraverso una debolezza dell’essere l’Altro si rende presente. Anche
qualora il soggetto abbia soddisfatto tutti i suoi bisogni, resta comunque
sempre in cerca dell’Altro». (L’espulsione dell’Altro, p. 88).
Chi afferma che, di
fronte a una calamità, la presenza di Dio va cercata principalmente o
esclusivamente nell’azione altruista dei soccorritori e nel desiderio di
giustizia di chi investiga le responsabilità umane della catastrofe, è già un
ateo anonimo, anche se si professa cristiano o comunque credente religioso. Non
si può antropomorfizzare integralmente Dio senza alla fine perderlo.
La posizione cristiana è quella che per esempio don
Luigi Giussani riassume in un testo
scritto a commento della festa dell’Assunzione, che quest’anno è caduta il
giorno dopo la tragedia di Genova: «Con il mistero dell’Assunzione il Signore
dice: “Vedete, io non vi farò perdere niente di quello che vi ho dato, di
quello che avete usato, di quello che avete gustato, persino di quello che
avete usato male, se voi sarete umili di fronte a me. Beati i poveri di
spirito, cioè: se voi riconoscete che tutto è grazia, che tutto è misericordia,
perché i vostri criteri sono niente, il mio criterio è tutto”».
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