Domenico Quirico sulla Stampa: il presidente dell’Ucraina rischia oggi di incarnare un ruolo superato, inadatto. Deve interpretare il “secondo atto” e non l’ha compreso.
«Uno dei ruoli più
spiacevoli e dannosi che possano capitare a un uomo politico è quello di finire
per rappresentare la propria figura del passato. I suoi gesti diventano allora
simili a smorfie. Per un Paese impegnato in una sfida mortale, come è l’Ucraina,
che ha bisogno di soluzioni per il futuro poiché la geografia la condanna ad
avere come vicino la Russia, chiunque sia colui che comanda al Cremlino, tutto
ancor più si complica. È letale esser guidati da qualcuno segnato dal passato. Anche se questo passato è positivo, perfino
eroico. La guerra richiede, nella prassi, metodi diversi e a volte uomini
differenti. Colui che era formidabile e necessario nella resistenza e nella
prima fase della lotta diventa, con il procedere dei fatti, sempre implacabili,
superato, inadatto. Talvolta perfino dannoso.
Soprattutto se quel capo comincia a credere lui stesso agli
slogan che pronunciava in una fase diversa, inizia a credere al proprio
personaggio.
A Zelensky, forse, questo non è ancora accaduto e vorremmo che non accadesse.
Forse ha meritato di meglio. Ho sempre pensato, fino dalla prima fase della
guerra, che Zelensky, l’ex attore Zelensky ma anche il presidente Zelensky,
fosse un personaggio, potentemente o pateticamente, pirandelliano. Così se a
Kiev, dove coraggiosamente e ostinatamente si continua, anche tra i sibili
delle sirene e i resoconti di battaglie infernali, a tener viva la vita
culturale, si dovessero allestire due spettacoli teatrali che siano specchio
tragico e riflesso sulla realtà, (questo è il teatro) sarebbero I sei
personaggi e l’Enrico IV.
Zelensky di prima del 24 febbraio, prima della invasione russa, era un attore, e soprattutto un leader, scialbo, alla ricerca di un copione giusto, di una maschera di cartone che lo sollevasse dalla mediocrità di una recita senza profumo. Sillabava, povera animuccia prigioniera di questo secolo di ferro, in un luogo d’Europa dove geografia e Storia sono in pericolosa contraddizione perpetua, la parte del microscopico oligarca periferico: una comparsa, in fondo. Dopo le pagine alte del dramma di Maidan, le barricate di ghiaccio, il misticismo e la rivoluzione, a lui toccavano le battute della politica bassa, una guerra ignorata e marcia, la corruzione di sempre, il restare a galla tra il vicino sempre più minaccioso e l’Europa capace solo di promettere meraviglie, ma a parole. Rischiava di soccombere al mal di mare dell’invisibile.
È Putin che ha scritto
sciaguratamente, con l’aggressione, la parte perfetta per lui, quella che non
avrebbe mai immaginato da solo: il leader che guida la resistenza eroica di un
popolo intero contro una prepotenza condotta con metodo stalinista e brutale,
spregiudicato, combattivo, una forza della natura nel suo vitalismo di piccola
belva. Tanto da far
sembrare, al confronto, il nemico, lo zar, un mediocre addetto impiegatizio del
Male.
Zelensky ha recitato la parte con efficacia in
questo imbrogliato scorcio del terzo millennio che sembra recedere alla più
selvaggia preistoria: le passeggiate nella Kiev deserta e spettrale dei primi
mesi a fianco dei leader occidentali, o al fronte tra le macerie riconquistate,
i discorsi serali alla nazione, in perenne costume guerresco, la maglietta
verdognola che allude a iconologie mistico consumistiche alla Guevara, gli
interventi continui, incalzanti, assertivi via video per non dar scampo ad
alleati tiepidi o riluttanti.
Zelensky sa che nel nostro
Occidente stanco, esausto, un discorso all’Onu, ormai ingombrante retrovia
burocratica della impotenza, non conta quasi nulla. Molto più efficace
irrompere al festival di Sanremo o sulla Croisette di Cannes.
Zelensky è consapevole che la sua persona, ovvero quello che era, è qualcosa di indistinto, informe, probabilmente mediocre e banale. Molti dei suoi connazionali, e non solo i filorussi, lo detestavano. L’importante dunque è ruotare attorno a un perno fissato nel gioco delle parti della vita e della politica, e ripetere sempre lo stesso dramma. Nel ruolo di eroica guida suprema degli ucraini Zelensky ha trovato l’inconfondibile, l’indistruttibile, forse l’eterno. Non a caso il suo anno terribile e memorabile non è un composto di atti, di decisioni: in realtà non ha fatto nulla di politicamente o militarmente memorabile. I russi aggressori e gli americani hanno deciso tutto per lui.
Vive, teatralmente, tutto
nelle parole che ha pronunciato sul palcoscenico tragico della guerra. È come
se scandisse un interminabile monologo quasi astratto, quasi parlasse a se
stesso o a un interlocutore inesistente: vinceremo... La Russia è criminale…
Abbiamo bisogno di armi... Tutto, appunto, molto pirandelliano. In realtà sa
che l’unico spettatore in prima fila che conta è Biden.
Perché è dagli
Stati Uniti che dipende la sopravvivenza del suo Paese e il suo personaggio;
dalla volontà americana di preservare la centralità della onnipotenza americana
in campo internazionale contro qualsiasi tentazione anti egemonica. Il tutto senza l’uso
diretto della forza che comporti anche minime perdite americane. Questo
finora.
Il rischio per Zelensky è
di cominciare a credere al copione che finora ha recitato, di persistere, come
accade al protagonista dell’Enrico IV, nella parte che ha recitato, anche se sa
che è finzione, non corrisponde più alla realtà. Costringendo gli altri a
uniformarsi. Ciò significa credere che la vittoria totale contro la Russia, la
eliminazione diretta o indiretta di Putin, sia l’unica opzione possibile.
E che invece non sia
arrivato il tempo del secondo atto. Non cedere al prepotente, che con quanto è accaduto
in questi mesi, ovvero la efficace resistenza di Kiev e il consolidarsi quasi
inesauribile della forza ucraina grazie all’aiuto occidentale, è una ipotesi
superata dai fatti; ma, sfruttando le evidenti debolezze russe, saper trattare
i margini della vittoria. Altrimenti il sapore del finale rischia di essere di
cenere».
24 GENNAIO 2023 ripreso da :”La
versione di Banfi”
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