Con il post n. 2000 riprendiamo un intervento
del 2012 del Card. Angelo Scola, sul tema del BENE COMUNE, argomento che il
Crocevia ha ripreso più volte nel corso degli ultimi anni
1. Il “bene comune”: un
valore non più ovvio
Sarebbe
del tutto illusorio pensare che il mero ricorso alla categoria di “bene comune”
possa fungere oggi da punto di riferimento per l’edificazione della vita
sociale. Basti riflettere sul dato che questa categoria teorica è propria di
una “etica sostantiva”, un’etica che veicola, quindi, una determinata
concezione del bene umano. Etiche sostantive non possono di fatto essere poste
alla base di società pluralistiche come quelle attuali. Il significato della
categoria di “bene comune” è infatti assai problematica nell’odierna condizione
sociale pluralistica che, con Maritain, possiamo definire di babélisme: «La
voce che ciascuno proferisce non è che un puro rumore per i suoi compagni di
viaggio». In questo senso potremmo dire che viviamo una crisi comunicativa. Non
riusciamo a raggiungere una concezione universale dell’uomo come orizzonte di
una comune intesa. In assenza di questo codice, la pluralità fa problema, tanto
più che l’aumento e l’accelerazione dei flussi migratori (processo di
meticciato di civiltà) hanno decisamente cambiato l’assetto del mondo: i
“diversi” che noi siamo si trovano – volenti o nolenti – a dover progettare una
convivenza, senza poter più contare sui grandi racconti del passato, su quelle
potenti narrazioni che suggerivano d’emblée le coordinate del bene comune.
Sembra che oggi non sia più possibile raccontare in modo credibile la verità
circa l’esperienza umana.
Giussani, Balthasar e Scola (dal sito di CL) |
Viviamo
ormai nella convinzione più o meno esplicita che la ragione umana sia uno
strumento debole, incapace di portare a termine il compito di conoscere la
realtà e di stabilire valori da tutti condivisibili. Considerata l’atmosfera
che respiriamo, si capisce quanto sia divenuto difficile comunicare tra persone
e soggetti associati che hanno concezioni del mondo così diverse e
contrastanti. Non è un caso che le democrazie siano oggi per lo più in crisi.
Dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose o è invece possibile trovare strade
percorribili per il recupero del valore sostanziale del “bene comune” in vista
dell’edificazione di una società che renda possibile la “vita buona”? La
difficoltà a comunicare a questo livello costitutivo della vita civile va
considerata come un grave sintomo da non sottovalutare, se vogliamo difendere
lo spazio politico di una convivenza democratica. Habermas è sempre stato
particolarmente attento a questo indicatore: «La condizione in cui si trova una
democrazia si può accertare solo sentendo il polso del suo spazio pubblico
politico».
2. Bene comune e
comunicazione
Per
un tale ricupero è imprescindibile partire da quella che possiamo chiamare
l’esperienza elementare ed integrale, comune all’uomo di ogni epoca. Essa parla
una lingua che è come una sorgente perenne: niente e nessuno la può spegnere.
Attraverso le grandi ed universali parole della vita e della morte, dell’amore,
della giustizia e della pace, il fiume carsico della questione non posta
improvvisamente riaffiora: «Ed io che sono?»; «Alla fine chi mi assicura?».
Così l’io e l’altro, nell’unità duale insuperabile di individuo e comunità, che
caratterizza l’uomo in quanto creatura, tornano alla ribalta. A livello dei
rapporti interpersonali, che possiedono un obiettivo primato nell’umana convivenza,
la comunicazione riconosce l’unicità di ogni singolo uomo e nella maggioranza
degli uomini giunge ad affermare il Fattore personale e trascendente che ne
custodisce gelosamente l’assoluta dignità. Tuttavia non è possibile fermarsi a
questo livello del problema. Infatti il terzo compare sempre e tra i tre (la
società) è necessario che si stabilisca un ordine (istituzioni, politica,
Stato), per impedire che la possibile assolutezza della gratuità nel rapporto
io-tu diventi ingiustizia rispetto al terzo: «L’io appunto in quanto
responsabile verso l’altro e verso il terzo, non può restare indifferente alle
loro interazioni e, nella sua carità per l’uno, non può liberarsi dal suo amore
per l’altro (…) Ecco l’ora della giustizia inevitabile che la stessa carità
esige». È importante sottolineare quindi che l’apparire del terzo è un dato
costitutivo dell’umana esperienza. Basta pensare al rapporto del bambino con il
padre in relazione a quello con la madre. È il padre a porre originariamente la
questione del terzo. La libertà del figlio, che incontra nel rapporto con la
madre la sua prima identificazione, è dolorosamente condotta dalla presenza del
padre a quel salutare scambio col reale che gli evita la chiusura autistica.
Fin da questo livello elementare la presenza del terzo introduce, per così
dire, al principio di realtà. La relazione familiare (padre, madre, figlio)
rappresenta in nuce l’avvenimento della communitas, cioè della società e, in
questo modo, ci permette di prendere coscienza dell'originaria socialità
dell'uomo. A questo punto è possibile, proprio a partire dalla considerazione
di questa esperienza comune ad ogni uomo, affermare che la relazione
costituisce un bene condiviso che, se viene assunto consapevolmente, può essere
riconosciuto come il bene comune, il bene dell’essere insieme all’interno delle
odierne società pluralistiche. L’identità umana infatti documenta che
costitutivamente la persona è un io-in-relazione. Il bene sociale primario
dell’essere insieme, che trova nella relazione e, pertanto, nella comunicazione
la sua punta espressiva, deve essere scelto da tutti i soggetti che abitano la
società civile, come bene politico.
3. Per una riformulazione
del “bene comune”
Occorre,
tuttavia, proporre un passaggio ulteriore. Quali espressioni concrete possiede
questo bene pratico comune dell’essere insieme? Importanti espressioni sono
legate alle “pratiche solidali”. Infatti perché abbia senso parlare di pratiche
solidali - volontariato, organizzazioni non profit - occorre riconoscere il
bene comune sociale primario dell’essere insieme. Le pratiche di solidarietà
esprimono la compartecipazione sia nei beni che nei carichi (pesi) sociali.
D’altra parte, se vogliamo godere di questo bene comune in un modo non lesivo della
dignità umana non possiamo mortificare (paternalisticamente) l’agire degli
attori sociali: la sussidiarietà serve proprio a questo scopo, cioè esprime
l’iniziativa (singola o collettiva), altrettanto fondamentale e non riducibile
al tutto sociale stesso. Per esprimere questo quadro complesso, Benedetto XVI
ha fatto riferimento a quello che possiamo chiamare un vero e proprio schizzo
architettonico della vita sociale. Dice, infatti, il Papa: «possiamo
tratteggiare le interconnessioni fra … quattro principi – dignità umana,
solidarietà, sussidiarietà e bene comune - ponendo la dignità della persona nel
punto di intersezione di due assi, uno orizzontale, che rappresenta la
"solidarietà" e la "sussidiarietà", e uno verticale, che
rappresenta il "bene comune"». In questo “schizzo” ci sono dunque due
assi fondamentali che dobbiamo trattenere, se vogliamo ripensare attentamente
il significato del bene comune e delle pratiche solidali che lo esprimono:
(a)
Sull’asse orizzontale: non è possibile rispettare la dignità umana senza aver
cura solidale di chi è in difficoltà; ma non è possibile una solidarietà
autentica senza garantire alle persone una fondamentale libertà di iniziativa.
Così, se la sussidiarietà corrisponde alla dimensione di singolarità
irriducibile della persona come protagonista e non oggetto della società, la
solidarietà corrisponde alla dimensione della appartenenza sociale: duplice
dimensione, la cui espressione e il cui rispetto sono indispensabili per una
socialità a misura della dignità di ogni persona umana.
(b)
Sull’asse verticale: il bene comune è il bene condiviso nella stessa socialità,
che come bene umano non ha automatica attuazione ma va voluto e praticamente
perseguito (la società è maxime opus rationis). Esso sta a fondamento della
società, come un bene di persone il cui valore dà sostanza e insieme eccede il
bene comune. Per questo il bene comune compiutamente inteso non si conclude con
quello storico sociale, ma è aperto al bene comune delle persone come tali. In
questo senso non è possibile rispettare fino in fondo la dignità umana senza
adombrare una prospettiva escatologica di compimento della persona e di tutte
le persone. Diventa comprensibile quello che già Maritain aveva indicato nel
1947: c’è un bene comune – come San Tommaso insegna – che vale di più del bene
dei singoli consociati; ma questo bene comune, che Maritain chiama «bene comune
immanente», vale meno (è infatti “infravalente”) di quel bene cui la comunità
umana è ultimamente ordinata e che per Maritain (come per Tommaso) è il «Bene
comune increato delle tre Persone divine». Si capisce allora perché Benedetto
XVI affermi che la vera solidarietà compie se stessa quando diviene carità e
che la vera sussidiarietà compie se stessa lasciando spazio all’amore: perché è
qui, nella carità e nell’amore, che Dio “accade” come risposta inaudita alla
promessa inscritta nel bene comune immanente. Questo schizzo architettonico
diventa allora un riferimento essenziale per tutte quelle dinamiche
contemporanee che puntano a un’ipotesi di vita buona umanamente sostenibile. In
particolare, le due coordinate (orizzontale e verticale) disegnano un framework
che sembra diventare irrinunciabile per interpretare lo spazio sociale in senso
autenticamente democratico:
a)
l’asse orizzontale (sussidiarietà – solidarietà) è infatti compatibile solo con
un’adeguata valorizzazione del protagonismo tipico nella società civile:
l’idea, verso cui si stanno orientando le più acute interpretazioni
sociologiche contemporanee, è proprio che c’è un capitale di solidarietà che
solo gli attori della società civile sono in grado di generare e di cui nessuno
Stato democratico può fare a meno. Da qui l’accento posto in maniera decisa su
assetti istituzionali in grado di garantire, attraverso il principio di
sussidiarietà, la libertà e le forme civili dell’essere insieme.
b)
l’asse verticale (bene comune immanente – Bene comune increato) esige invece
quella libertà che, da più parti ormai, viene riconosciuta sempre più
consapevolmente come irrinunciabile: la libertà religiosa. Si tratta infatti di
giungere a riconoscere che la dimensione socio-politica non può essere
l’orizzonte esclusivo della persona umana. Rinasce qui la questione: come
proporre questo schizzo architettonico emergente dall’insegnamento sociale
della Chiesa in una società pluralistica?
4. Un “pensiero comune
pratico” in favore del “bene comune”
Per
rispondere vorrei riferirmi ad un’intelligente proposta di Maritain, nel suo
discorso all’Unesco del 1947 (La voie de la paix). In quell’occasione, Maritain
affermò che, stante la pluralità irriducibile degli attori sociali, l'ambito
politico deve puntare a convergere verso un «pensiero comune pratico», cioè uno
«stesso insieme di convinzioni volte all’azione». Il che implica accettare
l’inevitabile divergenza delle visioni del mondo, scommettendo al contempo
sulla possibilità di intendersi concretamente sul da farsi. Questo non vuol
dire rinunciare al piano della giustificazione teorica dell’agire pratico:
sarebbe una scelta nullista. Significa piuttosto riconoscere che l’ambito
politico non necessita, per essere in buona salute, del consenso totale (assai
improbabile) intorno a visioni sostantive della vita. Accettando questa
delimitazione si può realizzare quel bene comune essenziale che Maritain
suggeriva, quando parlava della società umana come “corps de communications
sociales”. Come s’è detto, il bene comune secondo la visione cristiana abbraccia
l’intera vita dell’uomo e non solo quella storica, ma questo, a livello di
convivenza civile, non produce una pretesa di condivisione totale da parte
degli altri soggetti. Piuttosto l’ampiezza di visione sostiene l’impegno a
contribuire al bene pratico dell’essere insieme formulando proposte circa tutti
gli aspetti antropologici, sociali ed economici della vita associata. In due
ambiti almeno, a mio parere, questa visione può essere recepita con grande
giovamento della società civile. Mi limito a qualche considerazione. Il primo
si riferisce a quella che altrove ho chiamato nuova laicità. La visione che
abbiamo brevemente tratteggiato ci domanda di abbandonare significati
secolaristi e meramente oppositivi di laicità: se l’obiettivo del politico è un
pensiero pratico comune, anche i cittadini credenti debbono poter dire la loro.
Ciò significa che il politico deve essere l’ambito in cui tutti i “diversi”
debbono avere la possibilità di contribuire responsabilmente al bene comune
della relazione-comunicazione, cercando di spiegare ciò che per loro vale in un
linguaggio che sia accessibile a tutti. Si può allora essere giustamente
perplessi di fronte alla presunta laicità di scelte politiche che mirano a
eliminare ogni riferimento religioso nello spazio pubblico: quel che si
ottiene, infatti, non è un pensiero pratico comune, bensì un minimo comune
denominatore, rispetto al quale le diversità culturali subiscono di fatto una
privatizzazione estraniante. È veramente pubblico, e perciò sanamente laico,
solo quello spazio che scommette sulla libertà dei cittadini, credenti e non
credenti, di mettersi in gioco attraverso una “narrazione reciproca”, intesa
come l’opera comune di raccontare il significato della propria esperienza,
secondo una logica - come insegna Ricoeur – di reciproco, seppur faticoso,
riconoscimento. Il che ci fa capire un altro elemento importante: l’impegno a
tradurre la propria visione del mondo in un linguaggio comprensibile anche da
chi non la condivide non deve gravare solo sui cittadini credenti, ma
dev’essere inteso - ricorda giustamente Habermas - come «un [comune] impegno
collaborativo». Il secondo tema si rifà, per qualche aspetto, al titolo
dell’odierna giornata. Le vicende del Terzo settore nell’attuale frangente di
crisi economico-finanziaria, rivelano chiaramente quanto a lungo si siano
adottati solo degli aggiustamenti pragmatici, che non hanno intaccato ancora il
nocciolo dell’ordinamento giuridico e, a dire di non pochi, la miopia che lo ha
caratterizzato. Per limitarci al momento attuale dobbiamo riconoscere che una
società impoverita non può fare a lungo da parafulmine ad uno Stato povero e
inefficiente. Se una risposta statalista pervasiva, oltre a non suscitare alcun
fascino, non risulta praticabile per ragioni finanziarie, il ritorno a un
liberalismo minimalista, nel quale lo Stato si spogliasse semplicemente dei
suoi compiti perché non è in grado di perseguirli in proprio, non aprirebbe
spazi per la società civile. Si allargherebbe semplicemente la forbice tra chi si
trova in condizioni di bisogno e chi riesce in proprio a far fronte alla crisi.
Va inoltre considerato che una grave crisi economica ed occupazionale, se non
governata, ha delle implicazioni sociali assai gravi per società come le
nostre. Facciamo solo un esempio. La crisi del mercato del lavoro dovrebbe
teoricamente obbligare gli immigrati a rientrare nel giro di pochi mesi nella
propria Patria. Tuttavia, i contesti da cui provengono molti di essi – penso
soprattutto ai paesi africani – soffrono di un’instabilità politica endemica,
quando non siano già vittime di una guerra civile o di uno stato di estrema
carestia. Tutto ciò rende più probabile che gli immigrati decidano di rimanere
nel Paese ospitante pur nell’illegalità, con i problemi che ne conseguono.
5. Relazioni buone e bene
comune
Le
rapsodiche notazioni che vi ho proposto circa il bene comune mostrando la
necessità di un articolato ripensamento di questa necessaria categoria, possono
trovare nella comunicazione quel carattere pratico che favorisca la crescita
del tasso di relazioni buone. Esse sono alla base dell’ethos, fattore
imprescindibile per la riorganizzazione complessiva della nostra società in
questa travagliata fase di transizione.
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