Emilio Carelli ha fatto il canarino. Come quegli uccellini che i minatori portavano con sé in galleria, e quando smettevano di cantare voleva dire che l’aria sistava facendo irrespirabile ed era ora di scappare, l’addio dell’ex anchorman al M5S è stato il segnale che il populismo di governo stava finendo. Anch’esso di asfissia, peraltro.
Il governo dei Cinque Stelle non è morto nelle piazze per difendere il reddito di cittadinanza, ma nel Palazzo per difendere la Catalfo, nel viluppo di un corpo a corpo per le poltrone con Renzi, cintura nera di questa arte marziale. La linea «Conte o morte» è ben presto diventata «Bonafede o morte», poi«Azzolina o morte», e perfino «Arcuri o morte», che cosa c’entri poi il manager di Invitalia col populismo Dio solo lo sa. Così, a furia di evocare la morte,essa è sopraggiunta per carenza di politica. Crudeltà della storia, o del mandato esplorativo, a certificarla un medico legale di nome Roberto Fico.
Il
MoVimento, nato in nome del «vaffa», ha dunque avuto il suo 8 settembre mentre
urlava «resta» ai ministri, finendo così per obbedire a quella «legge ferrea
delle oligarchie» che prima o poi imborghesisce tutti i partiti rivoluzionari.
Finisce così non il populismo, ma il suo
governo.
E forse anche la possibilità stessa, almeno per questa legislatura, di un
populismo di governo. È l’esito sorprendente dell’ennesima «rivoluzione»
politica all’italiana, cominciata nelle elezioni del 2013, e portata a
compimento con la presa di Palazzo Chigi il primo di giugno del 2018.
Quel giorno, in uno splendido pomeriggio romano, nei giardini del Quirinale dove si celebrava la Festa della Repubblica, irruppero decine di homines novi , non descamisados ma in giacca, cravatta e pochette, convinti di poter fare in Italia una «primavera araba», che avrebbe mandato a casa un’intera classe dirigente.
Si
trattava di un esperimento unico nel Continente. Andava al potere un partito
che non apparteneva a nessuna famiglia politica europea; che teorizzava di non
doversi alleare mai con nessuno, e poi di potersi alleare con chiunque, con la
destra o la sinistra indifferentemente. Un partito eterodiretto, visto che
chi lo comandava era fuori dal Parlamento; e virtuale, visto che chi lo
controllava era un algoritmo (o presunto tale).
Ciò
che più conta, un partito convinto di potersi liberare anche dei vincoli della
realtà.
Questa ebbrezza raggiunse il suo acme pochi mesi dopo, nella notte del 28 settembre del 2018, quando dal balcone di Palazzo Chigi, davanti a una folla festante composta di soli parlamentari Cinque Stelle, Di Maio annunciò solennemente l’«Abolizione della Povertà» grazie a uno sforamento unilaterale del2,4% di deficit. Settanta giorni dopo, il governo gialloverde aveva raggiunto un accordo con Bruxelles per riportare il deficit dove voleva l’Europa, il 2,4%diventò un pudico 2,04%, e forse cominciò allora la virata europeista dei grillini, la cosa migliore che abbiano fatto in questi tre anni. La svolta culminò nell’estate del Papeete: abbandonati dal «sovranista», i «populisti» trovarono conforto nell’alleanza con l’ex odiato Pd, detto anche «il partito di Bibbiano». Fu Renzi, incredibile a dirsi, a celebrare il matrimonio.
Forse
l’anomalia era troppo grande perché potesse durare. Forse il vizio d’origine di
un MoVimento nato contro ogni potere che volle farsi potere condannava al
fallimento fin dall’inizio l’esperimento del populismo di governo. Oppure
magari non era detto che finisse così, e anzi non è neanche ancora finita la
loro storia d’amore col potere.
Nelle elezioni del 2018 il M5S cambiò anche antropologicamente. Agli eletti garantiti nel proporzionale, militanti appassionati dei Meet up ma anche lunatici e No vax, si affiancò una nuova leva di candidati nei collegi, di estrazione e ambizione borghesi, in cerca di un ascensore sociale: associati mai diventati ordinari, assistenti non promossi primari, vice capi di gabinetto rimasti troppo a lungo tali. In fin dei conti, una possibile classe dirigente; di seconda fila, certo, ma potenzialmente in grado di maturare. Alle prese con il governo della Repubblica e con le sue istituzioni, giovani come Di Maio e Fico, o come Patuanelli e Sileri, facevano il loro apprendistato, provavano il salto evolutivo che conduce da un agitatore a un amministratore. Non ce l’hanno fatta. Il loro governo è naufragato, manco a farlo apposta, per difendere il più governativo di tutti, quel Conte che, con un elegante giro di valzer, era passato dal Capitano a Zingaretti senza battere ciglio.
Nel 1796 un giovane repubblicano francese, Benjamin Constant, scrisse
un libretto con questo sottotitolo: «Sulla necessità di uscire da una
rivoluzione». Era un ardente pamphlet, sosteneva che la prospettiva migliore,
dopo gli eccessi del Terrore, fosse quella «del ritorno alla politica, della
moderazione, dello sviluppo in senso liberale delle istituzioni». In fin dei
conti anche i Cinque Stelle avrebbero oggi bisogno di un Termidoro, per mettere
fine alla loro fase giacobina. Per alcuni di loro, che sono riusciti a
governare sia con Salvini che con Renzi, non dovrebbe essere poi così difficile
governare con Draghi.
A DiMaio, quando l’aveva incontrato, l’ex presidente della Bce aveva
fatto pure «una buona impressione». Ma vorrebbe dire riconoscere che ha ragione
Carelli.Non so se ne avranno il coraggio.
ANTONIO POLITO
CORRIERE DELLA SERA, 4 febbraio 2012
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