La tesi di un saggio di Olivier Rey: perso il suo riferimento al sacro, l’esistenza trova la propria giustificazione solo in se stessa. Ma così non basta
Vincent Van Gogh; Vecchio che soffre
(alle soglie dell'eternità)
Per chi come noi si senta un po’ “costretto” nelle litanie dei numeri del
virus e abbia abbastanza a noia i battibecchi tra scienziati e politici, esiste
un libro che aiuta a sollevare un po’ lo sguardo. Il Covid-19 pone grandi
domande all’uomo contemporaneo, eppure è così raro trovare qualcuno che sappia
metterle in luce: ci si perde nella frenesia di trovare soluzioni immediate e
definitive per qualcosa di cui, ancora oggi, si sa ben poco. Tutto
comprensibile, certo: vi è in ballo la vita di molti, l’economia, la scuola e
tutto quel che si vuole. Ma come spesso capita – almeno questa è la nostra
impressione di imbrattacarte e studenti fuori corso – ci si concentra spesso
sui dettagli, formulando ipotesi di intervento che non vanno alla radice del
problema.
Forse è solo una nostra reazione epidermica, ma per noi – da inizio
pandemia – c’è da sempre qualcosa che non torna nel modo con cui si parla del
coronavirus. Solo che, fino a ieri, nemmeno noi riuscivamo bene a inquadrare la
questione, avvertendo solo sommariamente un disagio, fino a quando ci è
capitato di leggere L’idolatria della vita di Olivier Rey. Il nostro è un ricercatore del Cnrs, membro
dell’Istituto di storia della scienza e della tecnica, un matematico che ha
scritto diversi e interessanti saggi a cavallo tra il pensiero filosofico e
quello scientifico. Il nostro Rodolfo Casadei lo ha già intervistato per Tempi e sul Foglio Giulio Meotti ne ha proposto un colloquio ricchissimo di spunti.
Idee forti e radicali
L’idolatria della vita è un saggio apparso in Francia nel luglio 2020 e ora è stato ripubblicato da Società editrice fiorentina col contributo del Centro culturale di Milano (traduzione di Flora Crescini). È un testo con idee forti e radicali, ben argomentate, mai banali e ci piacerebbe che tutti i lettori di Tempi spendessero un po’ del loro tempo a leggerlo e poi, se vogliono, a farci sapere cosa ne pensano. Se osiamo dare questo consiglio è solo perché ci pare che ponga le questioni che agitano il nostro tempo presente secondo una prospettiva ignorata da tutti o comunque solo lambita da molti. Invece Rey è molto netto nel suo giudizio e questo ci piace: «Quando non si può più donare la propria vita, non resta altro che conservarla», scrive a un certo punto.
Quindi il tema è il coronavirus, ma non solo. Il tema vero del saggio di
Rey è il “senso” di questa cosa che chiamiamo vita, cioè perché vale la pena
difenderla e – soprattutto – per cosa valga la pena spenderla. Capite anche
voi, si vola un po’ più alto rispetto ai battibecchi tra Bassetti e Galli o le
polemiche sui colori delle regioni. Si parla di vita e di morte e di quale sia
il loro significato, oggi. Come scrive Rey, «il problema non è negare il
carattere tragico della morte, cercare di riassorbirla nell’ordine delle cose.
È invece come abitare insieme questa tragedia». In altre parole, cercare di
capire «su quali libertà le popolazioni sono disposte a transigere e quali
schiavitù sono disposte ad accettare, per fuggire da questo terrore, che nessun
rito permette di comporre».
Non saper fare più i conti con la morte
Il primo punto del ragionamento di Rey è che l’uomo contemporaneo non sa
più fare i conti con la morte. Fino a un certo punto della sua storia l’umanità
concepiva la morte all’interno dell’ordine naturale delle cose. Poi le “cose”
cambiarono e cambiarono quando gli uomini – migliorando le condizioni sanitarie
ed economiche generali – riuscirono a trovare dei rimedi alle pandemie e alle
carestie. E man mano che gli Stati aiutavano a far progredire le condizioni
della popolazione, avveniva anche un’altra mutazione: nella concezione delle
persone si iniziava a far strada l’idea che la causa della morte non fosse la
malattia, ma lo Stato che non aveva fatto tutto ciò che era nelle sue facoltà
per arginare la diffusione del male.
Scrive Rey:
«Mentre la terribile carestia del 1693-94, o anche
quella del 1709, decimò per davvero la popolazione senza provocare rivolte, per
la fame di cui veniva a soffrire il popolo nel 1789, ne fu reso responsabile il
cattivo governo».
Nella sua
intervista al Foglio, fa un
altro esempio:
«Nel corso del XIX secolo fu promulgata una legge
secondo la quale un decesso doveva essere constatato da un medico che, sul
certificato che compilava, doveva indicare la causa della morte. Tra quelle
elencate figurava la vecchiaia per le persone che avevano superato una certa
età. Nel corso del XX secolo la speranza di vita è aumentata sensibilmente, ma
la morte per vecchiaia è scomparsa dalle nomenclature mediche. In altre parole,
nel momento in cui uomini e donne non hanno mai vissuto così a lungo, nessuno
più muore di vecchiaia. La morte deve sempre avere una causa precisa, il non
funzionamento dell’uno o dell’altro organo – il che lascia intendere che essa
non è una manifestazione del nostro carattere mortale, bensì la conseguenza di
una disfunzione specifica, che si sarebbe potuta prevenire o che in futuro si
saprà trattare. Ciò fa sì che la morte appaia sempre meno come il termine
necessario della vita terrestre e sempre più come un fallimento del “sistema
sanitario”, che non ha saputo fare quel che occorreva per prolungare la vita».
È tutta colpa del sistema
Il problema dunque è solo e soltanto il miglioramento del sistema:
«L’orfico “conosci te stesso” si traduce ormai: “Verifica come il tuo sistema
riesce a farcela”», scrive a un certo punto l’autore.
Semplificando: da un lato, vi sono i cittadini che si attendono dal sistema
– lo Stato, i suoi governanti, i medici e gli ospedali, a seconda del caso – la
soluzione ai loro problemi; dall’altro, questi stessi rappresentanti del
sistema che promettono ai cittadini di essere in grado di esaudire le loro
richieste. In mezzo, nota Rey, monta la delusione perché, prima o poi, ci si
accorge che le promesse saranno inevitabilmente non esaudite. Di qui la rabbia,
la frustrazione, l’indignazione. Che è esattamente ciò di cui non abbiamo
bisogno («il nostro mondo ha bisogno di tutto, tranne che di un aumento
dell’indignazione», i continui appelli a indignarsi per cambiare le cose hanno
lo stesso effetto di chi «raccomanda il whiskey a un alcolista»).
Qui ci sono già molti temi che poi ritornano nel saggio del matematico francese,
in particolare l’idea che oggi le persone tendano ad affidarsi «per ogni
aspetto dell’esistenza, a un sistema che li supera»; un sistema che è composto
da coloro che «aspirano a guidarli» con «un messaggio di onnipotenza».
«Parlare di
salute, là dove in verità è essenzialmente questione di malattia, è
significativo per lo slittamento di riferimenti che si è operato: nella misura
in cui il sistema aumenta in dimensione e potenza, ci si dispone verso di esso
in attesa che divenga un guaritore universale. Detto in altri termini, anche in
questo caso, più il sistema cresce, più delude – perché le attese si gonfiano
all’infinito, mentre le capacità di colmarle, anche moltiplicate, restano
limitate. Un tempo la morte era il termine necessario della vita terrestre, che
la medicina poteva in certi casi ritardare. Oggi la morte è un fallimento del
sistema sanitario».
Dizionari e definizione di vita
Perché è cambiata la nostra concezione di morte? Perché è cambiata la
nostra concezione di vita, dice il nostro autore. O meglio ancora: perché è
cambiato il “senso” della vita. Che non è più il tempo che ci è dato per
meritarci la salvezza, ma un tempo senza un fine, senza una prospettiva, un
traguardo. Dunque, l’unica cosa da fare è prolungarlo il più possibile:
«Anticamente il sacro, in quanto esige un rispetto
assoluto, si trovava posto al di sopra della vita – per questo poteva,
eventualmente, richiederne il suo sacrificio. Come la vita è giunta a prendere
proprio il posto del sacro?».
Rey fa numerosi esempi tratti dalle definizioni che, nel corso degli anni, si trovano sui vocabolari a proposito della parola “vita”:
«Nelle sue prime quattro edizioni (1694, 1718, 1740,
1762), il dizionario dell’Accademia francese dava come primo significato della
parola vita: “L’unione dell’anima col corpo”, o “lo stato in cui si trova
l’uomo quando la sua anima è unita al corpo”. Con la quinta edizione, nel 1798,
le cose cambiarono: la vita divenne “lo stato degli esseri animati finché hanno
in sé il principio delle sensazioni e del movimento”. Nell’ottava e ultima
edizione del 1935, la vita è definita come “l’attività spontanea propria degli
esseri organizzati” – o “l’insieme dei fenomeni e delle funzioni essenziali che
si manifestano dalla nascita alla morte e che caratterizzano gli esseri
viventi”».
Il passaggio da un significato all’altro è lampante, ma, fa notare Rey, è
rimasto un certo fattore d’ambiguità perché «l’uscita della religione non ha
abolito il religioso, ma ha lasciato dietro di sé una gran quantità di
religiosità errante in cerca di punti fermi».
Polli senza testa
Qui nasce l’idolatria per la vita. Dobbiamo salvare questa “vita” di cui
conosciamo e ri-conosciamo solo l’aspetto biologico, perché per un retaggio
sempre più oscuro con il passato, essa è un “valore” (ma, appunto, dipende: si
pensi all’eutanasia o all’aborto). Eliminato ogni riferimento al sacro, l’unica
cosa che ci rimane è la vita intesa come hic et nunc. Solo che così sembriamo
tanti polli senza testa che scorrazzano per l’aia, come spiega nel libro e
ribadisce al Foglio:
«Cosa è successo? Il sacro non è scomparso, è stato
trasferito dalla vita di cui parlava Cristo a quello che Walter Benjamin ha
chiamato, in tedesco, “das bloße Leben”, il semplice fatto di essere in vita. È
questo transfert che mi ha indotto a parlare di idolatria della vita: la vita
che oggi viene sacralizzata non è quella che merita di esserlo. Da qui
l’immagine che mi è sorta spontanea, per caratterizzare la nostra situazione:
quella dei polli che possono continuare per un momento a correre, quando si è
tagliata loro la testa».
La vita è diventata dunque oggetto di idolatria e questo deriva in parte,
ma solo in parte, «da un transfert che ha poste in gioco di carattere
religioso. In parte soltanto, però: il fenomeno è, ugualmente, il rovescio di
un panico – il panico di fronte alla sofferenza e alla morte. Per proteggerci
da questo spavento, occorre a tutti i costi non uscire dall’idea che, qualsiasi
siano le circostanze, si può ancora e sempre fare qualcosa, che un rimedio sia
disponibile… Non c’è morte, ci sono cause di morte, e ognuna è suscettibile di
essere combattuta con le unghie e con i denti. In questo ci troviamo sempre più
dipendenti dal “sistema sanitario”, come il drogato dipende dalla sua droga. E
perciò l’Organizzazione generale, in quanto dispensatrice del detto sistema, ci
tiene in pugno».
Prima della battaglia
L’uomo moderno è una mosca in una ragnatela. Eliminato o soffocato il
riferimento trascendente, ha cercato di sostituirlo con altri dèi minori, cui
non ha chiesto risposte alle sue domande ancestrali, ma solo di garantire
funzionalità biologica al guscio corporale. Il risultato, nota Rey, è che ci
troviamo, paradossalmente, nella situazione descritta da Hobbes, «nella quale
l’individuo accetta di sottomettersi al potere assoluto del Leviatano in cambio
della protezione che dovrebbe assicurargli contro la morte».
E poiché tale protezione non può essergli garantita fino al punto di
soddisfare le sue più profonde ansie esistenziali, l’uomo moderno si trova solo
con i propri crucci irrisolti. Situazione vertiginosa persino più problematica
della condizione in cui si trovavano i suoi avi quando erano pagani, che,
almeno, non idolatravano il dato biologico fine a se stesso.
Meglio che nel libro, Rey lo spiega al Foglio con quest’ultimo esempio:
Nell’Iliade, Sarpedonte confida a un compagno, prima
della battaglia: “Caro mio, se scampati che fossimo a questa guerra dovessimo
vivere sempre, senza vecchiaia e senza morte, io stesso non sarei tra i primi a
combattere né te spingerei, tanto meno, alla battaglia gloriosa; ma siccome in
realtà ci sovrastano casi di morte innumerevoli, che un uomo non può evitare o
fuggire, andiamo all’assalto, daremo a qualcuno o qualcuno a noi darà gloria!”.
Questo passaggio mostra che il sapere, ancorato al corpo della nostra
finitudine terrestre, ci rende coraggiosi: è perché sappiamo che in ogni caso
si muore (san Francesco parlava di “nostra sorella morte corporale”), che si
diventa capaci, quando le circostanze lo esigono, di dare la propria vita.
E viceversa, l’idea che con le giuste misure la morte
potrebbe essere differita indefinitamente renderebbe infinitamente codardi».
EMANUELE
BOFFI, TEMPI DICEMBRE 2020
NOTA:Olivier Rey (Nantes, 1964) è uno scrittore, filosofo e matematico francese. Dopo aver insegnato matematica all’École polytechnique, insegna oggi filosofia nel master di filosofia dell’Università Pantheon-Sorbona e nella facoltà di diritto alla Sorbona. Frequentemente viene invitato da Alain
Finkielkraut a Répliques, trasmissione radiofonica di France Culture.
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