mercoledì 31 agosto 2022

GORBACIOV E LA MATRJOSKA DELLA STORIA

 IL 30 AGOSTO, ALL'ETA' DI 91 ANNI, E' MORTO A MOSCA 

MICHAIL GORBACIOV 

ULTIMO PRESIDENTE DELL'URSS

George H. W. Bush, Ronald Reagan, Michail Gorbaciov
New York 1988
Gorbaciov arrivò che l’impero sovietico stava già tirando le cuoia e la storia apparecchiava il tavolo per celebrare gli ultimi grandi leader del Novecento, Helmut Kohl, Ronald Reagan, Michail Gorbaciov, Margaret Thatcher, François Mitterrand , Deng Xiaoping e Karol Wojtyla. Furono queste figure a chiudere la Guerra Fredda, avviare l'era del Pacifico e spalancare il cancello del nostro presente senza mappe. Gorbaciov fu il protagonista e testimone dell’ultima era dei grandi incontri. Oggi viaggiano bollettini di missili, stragi, minacce nucleari. Presidenti che posano su Vogue, zar in cachemire a caccia di imperi immaginari da conquistare con i cannoni, un'élite europea senza logos, sonnambula. Intorno, un arsenale nucleare pronto all'uso e troppi soggetti capaci di ogni crimine.

Il Cremlino è da sempre un luogo tragico. Lo fu negli anni che preparavano la guerra con le bombe, le armi automatiche, il gas nervino; nel presagio keynesiano di una pace di Versailles allevatrice di nuovi mostri; nello sterminio hitleriano, nel dopo il bunker di Berlino; tra i gelidi colpi delle spie con la Browning e la Makarov, al varco del Checkpoint Charlie, tra le vite degli altri ascoltate e spezzate. Il Cremlino fu un teatro con un suo cartellone fisso, vari impresari, programma sanguinoso. Fu Lenin a sparare il colpo di cannone a San Pietroburgo e dare il via all’opera macabra. Stalin la industrializzò eliminando tutti i nemici (in ‘The Cold War’ di John Lewis Gaddis il numero dei cittadini sovietici uccisi per mano staliniana è di oltre 10 milioni). Con Krusciov cercarono di dimenticare l’assassinio in casa per dedicarsi a sfiorare nel 1962 il conflitto nucleare con i missili di Cuba, poi arrivò il tempo della ‘dottrina Breznev’ in un’era di stagnazione e ombre, assassinio e ‘raffreddori sovietici’. Gli anni Ottanta furono il gioco pirotecnico dell’implosione lenta e inesorabile, al Cremlino sfiammavano i presidenti come zolfanelli,  nel 1982 arrivò al potere un ex capo del Kgb (un altro, non quello), Jurij Andropov, un segretario-lampo che dopo due anni lasciò il comando a Konstantin Černenko, altra sagoma che finì regolarmente nella botola della storia, figuranti stanchi di un tramonto sul letto della Moscova. Il Pcus tirò fuori dal cilindro la carta disperata nel 1985, Michail Gorbaciov. Aveva solo 54 anni, un giovane nella storia della nomenklatura sovietica, era nella manica di Andropov, ma non lo conosceva nessuno, i Cremlinologi non possedevano un dossier informato su di lui, l’intelligence non sapeva neppure che esistesse. Era il nome del pre-destinato, l’ultimo presidente dell’Urss, la parola ‘fine’ galoppava come i cosacchi nella taiga siberiana. Sembrava lontanissimo, quel giorno, il 9 novembre del 1989, la caduta del Muro di Berlino. Poi arrivò. 

 

Gorbaciov al suo esordio fece la riforma più grande, la sua vera e unica rivoluzione, la spinta che mancava per mandare giù tutto: la riforma della parola. Il segretario del Pcus cambiò il linguaggio del regime, cominciò a emettere strani suoni che facevano emergere terre mai viste  prima: 

Glasnost (trasparenza)e Perestrojka (ristrutturazione), Demokratisatsiya (democrazia, ma sempre nel partito unico) e Uskoreniye (accelerazione). 

Trasparenza e un programma di riforme politiche e economiche, si stava chiudendo il sipario del socialismo reale. Le catene spezzate furono quelle della parola, fuori dalla letteratura e dalla dissidenza, dagli scacchi e dall’esilio, c’era qualcos’altro che aveva un suono nuovo, era lui, Gorbaciov. Ma cosa stava cominciando? Una sinfonia confusa, senza spartito, il caos incorporato nel declino. L’Unione Sovietica era moribonda, il suo sistema economico al collasso, la sua forza militare consumata e il suo arsenale nucleare in decadimento, la presa sugli altri paesi dell’impero si era ormai allentata per insufficienza di forze, paura del collasso imminente. L'apparato pensava ai suoi agi, vedeva le crepe nel Palazzo, la guerra in Afghanistan contro i Talebani era un pantano (poi toccò a noi e dopo vent'anni abbiamo visto l'altra ritirata, spartiacque della storia). Fu questione di un attimo, un fiammifero nel buio, la detonazione a catena di quello spazio immaginato da Winston Churchill, non più premier del Regno Unito, nel suo discorso sulla Cortina di Ferro del 5 marzo del 1946, tenuto a Fulton, in Missouri: 

“Da Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico, una cortina di ferro è scesa attraverso il continente.”

Quello spazio nell'era di Gorbaciov stava esplodendo. Margaret Thatcher lo incontrò, ne rimase entusiasta e volò a Washington per dire a Ronald Reagan di aprire subito la porta della Casa Bianca a questo leader dal parlare inusuale, una ventata di calore lontano dalla sferzata di ghiaccio siberiana. Il presidente americano si auto-consegnò alla storia seguendo la Lady di Ferro, apri-pista di un mondo nuovo. George H.W. Bush, con l’esperienza di chi aveva guidato la Cia durante la Guerra Fredda, mise il sigillo allo straordinario ciclo della speranza. Missione compiuta, vittoria dell’Occidente, il comunismo è morto e la storia è finita. Applausi.

Sparita l’Unione Sovietica, rimase la Russia con i suoi immensi spazi, vuoti da riempire. E nessuno si preoccupò di capire fino in fondo cosa sarebbe nato sulle macerie dell’impero. I vincitori si impegnarono in un brindisi perenne dei loro successi, soprattutto quelli commerciali. 

Dopo quella di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, partì la seconda fase della globalizzazione, quella di Bill Clinton e Tony Blair. 

La prima era intimamente legata all’espansione della democrazia, la seconda fu lo sganciamento degli ideali (quella cosa chiamata libertà) dai valori (il fatturato altrove della Corporate America). 

Da quel momento, dal distacco tra realtà e contabilità, l’Occidente fu colto da sonnambulismo, hubrys, dalla tracotanza dei vincitori che non leggono e non ascoltano le lezioni della storia. 


La Russia di Gorbaciov non esisteva, la visione, la grande spinta di un uomo coraggioso da sola non poteva trasformare un sistema putrefatto in un regno democratico nutrito dal capitalismo impaginato nei quaderni di Harvard. 

Fu un doppio errore delle élite dell’economia (il primo di una lunga serie), consumato prima con la Russia e poi con la Cina. Mosca serviva come stazione di servizio tra Vladivostok e Berlino e così andammo a chiedere gas e petrolio, non riforme e sicurezza nello spazio dell’Europa, la libertà era una cosa che interessava solo ai nostalgici del Novecento, con i vertici in Islanda, le serate al Bolshoi e le cavalcate a Camp David. 


La fine dell’Urss fu un lampo d’utopia che rimase senza luce. Al buio, si vide anche il bagliore lontano di quello che sarebbe arrivato. 

Ora è qui, davanti a noi, l’America di Biden, la Russia di Putin, l’Europa di nessuno.


tratto da List di Mario Sechi

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