martedì 23 agosto 2022

COSTRUIRE SEMPRE. DON EMILIO DE ROJA, STORIA DI UNA VITA COSTANTEMENTE ALL’OPERA

LE MOSTRE DEL MEETING

DON EMILIO DE ROJA

«Cosa c'è in comune fra don Emilio De Roja e Pier Paolo Pasolini? Anzitutto il Friuli. Don Emilio è morto trent' anni fa e a lui è dedicata una bella mostra attualmente ospitata dal Meeting di Rimini. Pasolini è nato cento anni fa e a lui - e a suo fratello Guido - è dedicato un libro, appena uscito, di Andrea Zannini, "L'altro Pasolini" (Marsilio). 

Il fratello partigiano di Pier Paolo conosceva don Emilio perché il sacerdote udinese faceva parte, come lui, della brigata partigiana Osoppo. Sono due grandi storie purtroppo dimenticate che si intrecciano. 

La morte di Guido - generoso e idealista - è stata il grande dolore della vita di Pier Paolo che, sebbene più grande, aveva scelto di non andare con lui in montagna. In una sua poesia del 1966 scriverà: "Piango ancora, ogni volta che ci penso / su mio fratello Guido, / un partigiano ucciso da altri partigiani, comunisti". Fu ucciso infatti nel febbraio 1945, con altri della Osoppo, nel massacro di Porzûs (dove venne ammazzato anche Francesco De Gregori, ufficiale degli alpini e zio del cantautore). Una tragedia da cui emerge bene che vi furono due Resistenze, molto diverse. La nascita della formazione partigiana Osoppo era stata ispirata anche dal vescovo di Udine, mons. Nogara il quale - in contatto con il Vaticano - si rendeva conto che in Friuli era necessario, oltre a combattere i nazifascisti, opporsi all'avanzata dei partigiani comunisti titini in territorio italiano. I gruppi partigiani legati al Pci non erano certo un argine. Così nacque la Osoppo, i cui membri erano in gran parte orientati verso la Dc, una parte minore era azionista e poi c'erano degli alpini, comunque tutti anticomunisti. Don Emilio teneva i contatti fra i partigiani e il vescovo. 

SCHELETRI NELL’ARMADIO : GLI ANTIFASCISTI SCOMODI PER I COMPAGNI

OMBRE BOLSCEVICHE. Guido era di idee azioniste e - dal rapporto con le formazioni partigiane comuniste (garibaldine) - ricavò una pessima impressione, come si evince dalla famosa lettera che scrive il 27 novembre 1944 al fratello Pier Paolo: «I comunisti garibaldini hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell'Italia!!!I presidi garibaldini (incontrati per strada) fanno di tutto per demoralizzarci e indurci a togliere le mostrine tricolori. A Mernicco un commissario garibaldino mi punta sulla fronte una pistola perché gli ho gridato che non ha idea di che cosa significhi essere "Uomini liberi" e che ragionava come un federale fascista (...). A fronte alta dichiariamo di essere italiani e di combattere per la bandiera italiana, non per lo "straccio rosso"... Di"alla mamma che nel caso avesse qualcosa da mandarmi vi aggiunga un fazzoletto tricolore e uno verde» (il fazzoletto verde e il tricolore erano i simboli della Osoppo). Tre mesi dopo si consuma il massacro, durante il quale Guido ha un comportamento eroico e subisce un martirio feroce.

La strage di Porzus, febbraio 1945

Zannini alza il velo su una tragedia che non può essere ridotta solo al fanatismo di alcuni, ma doveva suscitare una seria riflessione da parte comunista. Che invece non c'è stata. Del resto anche quando il Pci è stato costretto a cambiar nome, dal crollo del Muro di Berlino, la sua classe dirigente - che è rimasta in attività ed anzi è andata al potere - non ha mai veramente guardato in faccia la propria storia. Infatti lo stesso Walter Veltroni, che firma la presentazione del libro, parla dell'«uccisione di Guido, ammazzato per mano di gappisti appartenenti al Pci», ma non affrontala questione comunismo. Preferisce concentrarsi sull'altro problema approfondito da Zannini: come e perché Pier Paolo, così provato dall'assassinio del fratello, dal 1947 diventa comunista e resterà fedele al Pci. Veltroni, che da giovane della Fgci, ebbe modo di incontrare più volte Pasolini, la definisce un'«apparente contraddizione».
Ma perché «apparente»? È una delle enormi contraddizioni di Pasolini. 

LA MISSIONE DI DON EMILIO

Come dicevo, la Osoppo torna d'attualità anche per la storia di don Emilio De Roja. E se da parte comunista c'è una rimozione, qui siamo di fronte invece all'inspiegabile dimenticanza della propria storia da parte dei cattolici. Infatti figure come quella di De Roja sono quasi sconosciute. Don Emilio gestì molte situazioni delicate per la brigata Osoppo. Riuscì a far liberare con uno stratagemma i comandanti della Osoppo catturati dai tedeschi e fu lui - che conosceva la lingua tedesca- a trattare con le truppe germaniche in ritirata, nell'aprile 1945, per scongiurare violenze e devastazioni. 

Nel dopoguerra don Emilio dedicò la sua missione ai poveri del villaggio San Domenico, alla periferia di Udine. Un quartiere di emarginati con problemi enormi, materiali e spirituali. Avviò la ricostruzione di case dignitose (al posto delle baracche), una scuola professionale per dare lavoro ai giovani. Fondò un convitto per chi veniva da lontano e da lì nacque la "Casa dell'Immacolata" che infine divenne una grande "casa degli ultimi" dedita a recuperare persone con gravi problemi. Dedicò la vita ai più poveri, infatti ebbe anche la visita di Madre Teresa di Calcutta. 

Morì il 3 febbraio 1992 in fama di santità. Giovanni Paolo II lo definì "generoso apostolo della Carità, esempio di Buon Samaritano"».

ANTONIO SOCCI tratto da LIBERO

LA MOSTRA

A cura di Paolo Benedetti, Giovanni Comelli, Giorgio Lorenzon, Marco Peronio, Roberto Tirelli, Roberto Volpetti

“Era un uomo felice, parlava sempre ed in ogni occasione con felicità, come se il mondo intero gli regalasse felicità e non brandelli umani, come se le miserie fossero occasione per essere felice”.

Così un suo amico descriveva don Emilio de Roja, sacerdote friulano morto nel ’92 che ha segnato in modo significativo la storia recente della sua terra. Si parla, sorprendentemente, di un uomo che avrebbe avuto tutti i motivi per non essere felice. Per essere arrabbiato e sconfortato per le difficoltà e i limiti umani incontrati nella sua stessa famiglia di origine, e poi durante la guerra e infine in un quartiere ‘difficile’ tra ragazzi ‘difficili’. Ma don Emilia aveva un motivo grande per essere felice: il riconoscimento certo dell’amore di Cristo e la fiducia in una Provvidenza che non lo ha mai abbandonato in quello che sentiva essere il suo compito: costruire sempre! Dove il costruire è facilmente visibile nelle opere generate, ma ancor più nella capacità di vedere nelle persone che incontrava il bene che avevano dentro, magari contradditorio al male di cui erano capaci.
Così raccontava:
“Una mamma mi consegnava il suo figliolo e sembrava lei l’accusatore dello stesso. Signora, ma pensa che è il suo figliolo? E che cosa potrei fare io se lei parla così di lui? Ammutolì e sottovoce cominciò: è vero ma a sentirsi lamentare i maestri, le guardie, il sindaco, il parroco, pensavo di dover parlare anch’io così, ma se lei mi dice che mi darà una mano devo sperare di salvare il mio figliolo”.

Si propone con la mostra l’incontro con quest’uomo, la sua passione per Dio e per l’uomo, attraverso la sua storia i suoi scritti, i suoi amici e chi (compresi i curatori) hanno avuto la grazia di conoscerlo.

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