La
morte di Cristo, la morte dell’uomo
Angelo
card. Scola
Lecco, Basilica di San
Nicolò, 13 aprile 2022
1. 1. Nel
1965, a Castelgandolfo, Paolo VI scrisse il celebre Pensiero alla morte pubblicato
su L’Osservatore Romano del 9 agosto 1979: «L’ovvia considerazione sulla
precarietà della vita temporale e sull’avvicinarsi inevitabile e sempre più
prossimo della sua fine si impone. … non più guardare indietro, ma fare
volentieri, semplicemente, umilmente, fortemente il dovere risultante dalle
circostanze in cui mi trovo. Fare tutto, fare bene. Fare finalmente ciò che tu
ora vuoi da me, anche se supera immensamente le mie forze e se mi chiede la
vita… È così che la morte sigilla la meta del pellegrinaggio terreno e fa da
ponte per il grande incontro con Cristo nella vita eterna».
Andrea Mantegna, Le Marie al sepolcro
Londra National Gallery
2. Il dramma della morte, che si radica
nell’esperienza singolare di ogni persona, non può però prescindere dal legame
costitutivo con tutti i fratelli uomini. Per questo, senza perdere nulla della
intrinseca esperienza personale della morte, essa è segnata dalle concrete
circostanze e rapporti che fanno la realtà storica.
L’eco della morte nelle nostre opulente società
occidentali viene normalmente coperta da chiassose distrazioni. Oggi però nelle
terre martoriate dell’Ucraina, a due passi da noi, torna a farsi minacciosa
imponendo il suo suono sinistro. Per non parlare del rimbombo provocato dal
Covid da più di due anni.
Non v’è tempo in questa sede per analizzare le cause e
le conseguenze di queste due pesanti prove. Sarà sufficiente tentare di
coglierne il nucleo centrale.
La guerra rappresenta sempre un processo degenerativo
della convivenza, semina morte e suscita divisioni tra gli stati ed i popoli.
Favorisce l’homo, homini lupus rompendo la fratellanza universale.
È pertanto strutturalmente contro un ordine mondiale giusto fondato sulla
libertà e sul diritto.
Quanto alla pandemia essa mette in evidenza lo stretto
vincolo che ci lega, rendendoci potenziali, anche se involontari, portatori di
male e persino di morte gli uni per gli altri.
Paura ed angoscia segnano i nostri giorni. Inoltre lo
scontro ideologico provocato da questi due flagelli genera dialettiche spesso
tortuose ed insostenibili. Mette in discussione quelli che negli ultimi decenni
abbiamo spesso sbandierato come i “nuovi valori” dell’umanesimo occidentale.
Di fronte ai due fenomeni della pandemia e della
guerra resiste, è il caso di dirlo, il moto popolare di compassione documentato
dalla massiccia mobilitazione per accogliere i profughi e prendersene cura. Il
gratuito fare spazio a chi è nel bisogno, espressione di un’esigenza universale
inestirpabile, finisce per battere i violenti contrasti che minano ora le
nostre vite e per dare sapore umano alle nostre esistenze.
3. La
situazione descritta, che come una tenaglia stringe da ogni parte la drammatica
dell’io, ci porta ad identificare nell’esperienza
dell’angoscia (stato estremo di ansia: angustia)
con il suo carico di dolore, sofferenza e morte (le potenze oscure che
inevitabilmente segnano ogni umana esistenza), una cifra dominante della nostra
vita.
Senza poter citare in questa sede gli studiosi che si
sono occupati dell’angoscia – un nome per tutti: Kierkegaard (1813-1855) il
primo nel suo genere a proporre un approccio teologico a questo tema – possiamo
con Balthasar ritenere, anche dopo Freud e Heidegger, che i poteri tenebrosi
siano, almeno per il cristianesimo ma non solo, in un certo senso naturali.
E il Figlio di Dio non è venuto al mondo per risparmiare all’uomo l’angoscia legata
strutturalmente alla sua contingenza.
4. Quale via d’uscita, se esiste,
da questa situazione di stallo? Come vivere, se è possibile l’angoscia, non
certo per abolirla ma per poter convivere con essa e con i poteri tenebrosi da
cui è generata?
Scrive il discutibile ma acuto romanziere Michel
Houellebecq: «Per l’occidentale contemporaneo, anche quando gode di buona
salute, il pensiero della morte costituisce una sorta di rumore di
fondo che si insinua nel suo cervello man mano che i progetti e i
desideri vanno sfumando. Con l’andar del tempo, la presenza di tale rumore si
fa sempre più invadente; la si può paragonare ad un brusìo sordo,
talvolta accompagnato da uno schianto. In altri tempi, il rumore di fondo era
costituito dall’attesa del regno del Signore; oggi è costituito dall’attesa
della morte. Così è» (Le particelle elementari, 1998).
Per raccogliere la sfida che la morte porta a ciascuno
di noi dobbiamo risalire alla domanda delle domande, quella che le attraversa
tutte. “Da qualche parte qualcuno alla fine mi ama?”.
Solo la risposta positiva a questa domanda può as-sicurare l’io:
“Chi mi assicura? E mi assicura per sempre compiendo l’impresa di liberarmi
dall’angoscia di morte?”. Ben la descrive la Lettera agli Ebrei: «…per
timore della morte [gli uomini] erano tenuti in schiavitù per
tutta la vita» (Eb 2,15). E la Seconda Lettera di Pietro
precisa: «…l’uomo è schiavo di ciò che lo vince» (2Pt 2,19).
La morte anche nel pieno dell’umana esistenza appare radicalmente invincibile.
Essa, con le strabilianti possibilità di cura oggi disponibili, può al massimo
essere post-posta. Né è possibile cercare di liberarsi da questa schiavitù con
derive eutanasiche: la domino perché ne anticipo io il momento, dandomela da
me, magari assistito nel suicidio.
5. Eppure la storia dell’Occidente, storia
che ha ormai toccato gli estremi confini del mondo, il giorno di Pasqua
grida: resurrexit sicut dixit. Gesù di Nazareth è realmente morto, ma ha
vinto la morte che non poté ingoiarlo definitivamente riaprendo all’umanità la
strada della speranza.
Gesù ha provato l’angoscia di morte perché ha voluto
fare propria quella di ogni uomo. Si è volontariamente consegnato alla morte
per amore dell’intera umanità in ogni suo singolo. La Sua passione portata
all’estremo, fino alla sudorazione di sangue nell’Orto degli Ulivi, fino al colpo
di lancia del soldato romano con l’uscita di sangue ed acqua lo documentano.
Cristo nel Suo Corpo – veicolo di tutta la Sua singolare Persona, vero Dio e
vero uomo – ci offre la strada per affrontare le tenebrose potenze del dolore
della sofferenza e della morte, in una parola dell’angoscia, che proiettano
sulla nostra esistenza, in se stessa drammatica, un’ombra di tragedia.
Quella di essere la risposta alla domanda: “Da
altrove qualcuno mi ama?” è la pretesa che Cristo ha su
ciascuno di noi. Vale pertanto la pena soffermarsi brevemente sull’esperienza
dell’angoscia mortale di Cristo. Si potrà poi metterla in relazione con la
nostra. Tenendo in vista, anche senza esplicitarlo, l’orizzonte della persona
di Cristo e della Sua storia possiamo concentrarci sulle sue stesse parole: «Padre,
se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la
tua volontà» (Lc 22,42).
6. Il
contesto di passione in cui questa invocazione-preghiera di Gesù si situa mette
in luce due elementi specifici dell’angoscia di Cristo.
Il primo è il Suo rapporto con il peccato degli uomini. Qui non ci interessa analizzare il
nesso tra dolore, sofferenza, morte, angoscia ed il nostro peccare. È però
necessario mettere in risalto oggettivo, come fanno i Vangeli, che l’angoscia
di Cristo si manifesta nell’esperienza e quindi nella conoscenza compiuta di
quale obbrobriosa tragedia sia il peccato di tutti noi che
Gesù porta su di sé inchiodandolo sulla croce. La prova dell’abbandono del
Padre subita dal Crocifisso fino a smarrirne il volto trova nello Spirito, che
in quell’atroce momento tiene uniti i due, la garanzia che assicura. E
l’angoscia che il peccato di ogni singolo uomo genera in Gesù va alla radice
della nostra angoscia di fronte alla morte. Noi infatti non raggiungiamo
neanche la soglia della conoscenza piena del nostro peccato.
Vi è però un
secondo elemento contenuto nella singolare angoscia di Gesù. Alla fine Egli la
vince: «…abbiate coraggio io ho vinto il mondo» (Gv 16,33).
L’Angelo dice alle donne impaurite con il volto chinato a terra: “Perché
cercate tra i morti Colui che è vivo? Non è qui. È risorto. Esse … tornate dal
sepolcro annunciarono tutto questo agli Undici e agli altri” (Lc 24,5) Questa
vittoria può diventare anche nostra, nella prospettiva del giudizio,
sotto il quale il tempo della Chiesa, il nostro tempo, già si trova. Pensiamo
ai Novissimi: morte, giudizio, inferno e Paradiso (escatologia).
Per illuminare queste considerazioni possiamo un’altra
volta ricorrere a Balthasar. Si deve distinguere bene tra l’angoscia «derivante
dal peccato che al cristiano è proibita dall’angoscia derivante dalla croce.
Nella prima si notano le proprietà caratteristiche del peccato: l’avversione,
la fuga, l’irrigidimento della vita, la sterilità, lo smarrimento, la caduta
nel precipizio, l’angustia, la reclusione, il rintanarsi, l’esilio» (H.U.
von Balthasar, Il cristiano e l’angoscia, in “Gesù e il
cristiano. Scritti minori, Jaca Book, Milano 1998, vol. 25, p 32). Invece
l’angoscia che deriva dalla croce di Cristo «non è nient’altro che l’amore
di Dio che assume in sé tutto questo mondo di angoscia per superarlo soffrendo.
Un amore che in tutto è l’opposto dell’esperienza del peccatore» (ibid.,
58).
7. Nell’esperienza della conversione
riceviamo la grazia di passare dall’angoscia del peccato a quella della croce.
La Redenzione (la Pasqua) è liberazione profonda che fa emergere l’uomo nuovo,
ne documenta la libertà perché è piena di fecondità.
Il paradigma di questa nuova vita è Maria sotto la
croce. Non per nulla la Chiesa la venera come “refugium peccatorum”.
Chiediamo alla Vergine Maria di essere infiammati
dall’amore per Suo Figlio. Per quanto riluttanti vogliamo vedere Gesù. Siamo
inquieti come gli uomini del nostro tempo. Spesso smemorati, non raramente
perduti, angosciati. Confusi e sballottati come naufraghi nel mare non di rado
tempestoso delle mille contrastanti opinioni, ma attraversati in ogni fibra
dall’insopprimibile desiderio di incontrare la risposta vitale che scioglie il
nodo, non di rado intricato della nostra persona e della nostra vita.
Permettetemi di chiudere con l’augurio pasquale
facendo mie le parole di Paolo Takashi Nagai, colpito dalla bomba atomica, uno
dei grandi artefici della rigenerazione di Nagasaki: «Ci sono persone che
non sopportano l’idea di dover morire. Provate a immaginare se un bel
giorno vi arrivasse un invito che stavate aspettando da moltissimo tempo, da
qualcuno che avevate tanto atteso di incontrare. Una persona al fianco della
quale avete tanto desiderato intrattenervi, per stare a lungo tempo vicini a
parlare. Il giorno in cui quell’invito arrivasse, quanto grande sarebbe la
vostra gioia? La morte è l’invito di Dio, è con questa gioia in cuore che lo
attendo. So bene con quanta tenerezza Egli si prenda cura di me. Per questo,
quando finalmente riceverò il suo invito, sarò felicissimo di accettarlo»
(Pensieri dal Nyokodö).
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