Domenica 13
ottobre, papa Francesco ha celebrato in piazza San Pietro la canonizzazione
del cardinale John Henry Newman, grande difensore
della coscienza nel suo senso più pieno.
Così nel 1991 il futuro papa Benedetto
XVI spiegò la concezione del cardinale inglese del rapporto tra coscienza,
verità, libertà e potere in uno scritto “Elogio della Coscienza”, pubblicato da
Il Sabato; eccone alcuni stralci.
Cardinale
Joseph Ratzinger
(…) Vorrei solo cercare di
indicare il posto dell’idea di coscienza
nell’insieme della vita e del pensiero di Newman. Comprendere ciò è difficile
per l’uomo moderno, che pensa a partire
dalla contrapposizione di autorità e soggettività. Per lui la coscienza
sta dalla parte della soggettività ed è espressione della libertà del soggetto,
mentre l’autorità sembra restringere, minacciare o addirittura negare tale
libertà. Per Newman il termine medio che assicura la connessione tra i due elementi
della coscienza e dell’autorità è la verità. Non esito ad affermare che quella di
verità è l’idea centrale della concezione intellettuale di Newman; la coscienza
occupa un posto centrale nel suo pensiero proprio perché al centro c’è la
verità. (…)
La coscienza non significa per Newman che il soggetto è il criterio
decisivo di fronte alle pretese dell’autorità, in un mondo in cui la verità è
assente e che si sostiene mediante il compromesso tra esigenze del soggetto ed
esigenze dell’ordine sociale. Essa significa piuttosto la presenza percepibile ed
imperiosa della voce della verità all’interno del soggetto stesso; la coscienza è
il superamento della mera soggettività nell’incontro tra l’interiorità
dell’uomo e la verità che proviene da Dio.
È significativo il
verso, che Newman compose in Sicilia nel 1833:
«Amavo scegliere e capire la mia strada.
Ora invece prego: Signore, guidami tu!».
Ciò che per Newman era importante era il dovere di obbedire più alla verità
riconosciuta che al proprio gusto, addirittura anche in contrasto con i propri
sentimenti e con i legami dell’amicizia e di una comune formazione.
Mi sembra significativo che Newman, nella
gerarchia delle virtù sottolinei il primato della verità sulla bontà o, per
esprimerci più chiaramente: egli mette in risalto il primato della verità sul
consenso, sulla capacità di accomodazione di gruppo. Direi quindi: quando
parliamo di un uomo di coscienza, intendiamo qualcuno dotato di tali
disposizioni interiori. Un uomo di
coscienza è uno che non compra mai, a prezzo della rinuncia alla verità,
l’andar d’accordo, il benessere, il successo, la considerazione sociale e
l’approvazione da parte dell’opinione dominante.
In questo Newman si ricollega all’altro grande testimone britannico della coscienza: Tommaso Moro, per il quale la coscienza non fu in alcun modo
espressione di una sua testardaggine soggettiva o di eroismo caparbio. Egli
stesso si pose nel numero di quei martiri angosciati, che solo dopo esitazioni
e molte domande hanno costretto se stessi ad obbedire alla
coscienza: ad obbedire a quella verità, che deve stare più in alto di qualsiasi
istanza sociale e di qualsiasi forma di gusto personale.
Si evidenziano così due criteri
per discernere la presenza di un’autentica voce della coscienza: essa non coincide con i propri desideri
e coi propri gusti; essa non si identifica
con ciò che è socialmente più vantaggioso, col consenso di gruppo o con le esigenze
del potere politico o sociale.
L’individuo non può pagare il suo avanzamento, il suo benessere, a prezzo
di un tradimento della verità riconosciuta.
Tocchiamo qui il punto veramente critico della modernità: l’idea di verità è stata nella pratica
eliminata e sostituita con quella di progresso. Il progresso stesso
"è" la verità. La teoria della relatività formulata da Einstein concerne, come tale, il
mondo fisico. A me sembra però che possa descrivere adeguatamente anche la
situazione del mondo spirituale del nostro tempo. La teoria della relatività afferma che all’interno dell’universo non si
dà nessun sistema fisso di riferimento. Quanto è stato detto a proposito
del mondo fisico, riflette anche la seconda svolta "copernicana"
verificatasi nel nostro atteggiamento fondamentale verso la realtà: la verità
come tale, l’assoluto, il vero punto di riferimento del pensiero non è più
visibile.
A questo punto diventa chiara l’estrema
radicalità dell’odierna disputa sull’etica e sul suo centro, la coscienza.
In essa viene messa alla prova la decisione
cruciale tra due atteggiamenti fondamentali: la fiducia nella possibilità per
l’uomo di conoscere la verità, da una parte, e d’altra parte una visione del
mondo in cui l’uomo da se stesso crea i criteri per la sua vita. La rinuncia ad
ammettere la possibilità per l’uomo di conoscere la verità conduce dapprima ad
un uso puramente formalistico delle parole e dei concetti.
A sua volta la perdita dei contenuti porta ad un mero formalismo dei
giudizi, ieri come oggi. Lo specifico
dell’uomo in quanto uomo consiste nel
suo interrogarsi non sul "potere", ma sul "dovere", nel suo
aprirsi alla voce della verità e delle sue esigenze.
Questo fu, a mio parere, il contenuto ultimo della ricerca socratica e
questo è anche il senso più profondo della testimonianza
di tutti i martiri: essi attestano la
capacità di verità dell’uomo quale limite di ogni potere e garanzia
della sua somiglianza divina.
È proprio in questo senso che i martiri sono i grandi testimoni della
coscienza, della capacità concessa all’uomo di percepire, oltre al potere,
anche il dovere e quindi di aprire la via al vero progresso, alla vera ascesa.
(…)
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