Suor Marcella Catozza racconta la via crucis dei sopravvissuti al sisma di
Haiti, isolati dalle alluvioni e dalle bande armate. «Ma il popolo soffre
sciagure, violenze e miseria ogni giorno. Aiutateci ad aiutarlo»
Caterina Gioielli tempi 19 Agosto 2021
Ad Haiti
le macerie continuano a restituire cadaveri e disperati. 1.941 le vittime contate fino a ieri, 10.000 i feriti, decine
di migliaia gli sfollati del sisma |
Bambini di Haiti |
di magnitudo 7.2 che il
14 agosto ha sbriciolato in pochi minuti il sud-ovest del paese. Tra Les Cayes
e Jérémie si scruta il cielo in tempesta, si implorano appena possibile aiuti e
soccorsi via elicottero o aereo, perché a separare i sopravvissuti delle città
(e quelli isolati sull’altipiano) dalle cure di
pompieri, medici, dall’arrivo
di farmaci, acqua, tende, viveri non ci sono di mezzo le strade smottate dal
terremoto e dalle piogge torrenziali di Grace, ma le spietate bande armate che
ammazzano come il terremoto.
Le bande armate bloccano gli aiuti
«Stanno
impedendo agli aiuti di arrivare nelle zone più colpite: da mesi i
banditi di Martissant hanno il controllo della strada che collega il traffico
dalla capitale Port-au-Prince alle località squassate dal sisma. Pare
stiano trattando con il governo: dopo aver negoziato una tregua con l’Onu per
le prime squadre di emergenza si parla di una richiesta di centomila dollari
per far passare i convogli umanitari. È gente spietata che opera nell’assoluta
impunità da mesi in un crescendo di rapimenti, sparatorie, estorsioni,
vendette, violenze culminate a giugno nei colpi di arma da fuoco
contro l’ospedale nella baraccopoli di Medici senza frontiere, presenti da
decenni nel paese. L’unico davvero funzionale e gratuito, costretto dalle gang alla chiusura», racconta suor Marcella
Catozza, in missione ad Haiti dal 2000. «E ora il sisma, la
lotta contro il tempo per trovare qualcuno ancora vivo sotto le macerie, le
bidonville allagate, i villaggi di montagna completamente isolati, i
collegamenti idrici interrotti, i presidi sanitari già stremati dal Covid che
traboccano di feriti».
La mattina del sisma
Haiti è
in balia del caos, delle piogge della tempesta Grace, dei mercenari e presto lo
sarà degli sciacalli: tutti ricordiamo le sparatorie tra marines e
saccheggiatori che brulicavano tra le rovine di Port-au-Prince e i
corpi di centinaia di migliaia di vittime undici anni fa.Questa
volta il sisma ha risparmiato la capitale, a 150 chilometri dall’epicentro,
eppure la scossa, nell’immensa baraccopoli di Waf Jeremie, nella missione Vilaj
Italien e nella casa d’accoglienza Kay Pé Giuss tirate su da suor Marcella in
seguito al terremoto del 2010 «l’abbiamo avvertita, fortissima. Le piscinette
dei bambini si sono svuotate, l’acqua sbalzata via: grazie a Dio era mattina
presto e i piccoli non erano in giro. Sono esplosi i pavimenti, il
rumore delle piastrelle che scoppiavano faceva pensare a un attacco armato,
sono caduti alcuni muri di cinta e delle tettoie. Non sappiamo ancora,
in un momento così difficile e in cui scarseggiano i materiali, come e quando
potremo riparare i danni».
Portare Cristo ad Haiti |
Suor Marcella Catozza |
Quanto
alla paura, se è vero che il popolo di Haiti è abituato a soffrire, è anche
vero che la scossa non ha tolto ai bambini di suor Marcella un briciolo di
entusiasmo e voglia solo di tornare a scuola, «sperando che il 6 settembre
possa davvero riaprire: l’anno scolastico ad Haiti va da sempre a singhiozzo
tra sciagure e scontri armati». Perché i bambini di suor Marcella (Tempi vi
aveva raccontato la loro storia qui)
sono certi che l’unica cosa che resta in piedi quando tutto crolla è qualcuno
che ti vuole bene.
Quando
suor Marcella chiese sconvolta «ma cosa faremo, cosa?» al
vescovo Joseph Serge Miot, che nel 2000 l’aveva inviata nella dura,
miserabile, disperata e completamente chiusa ai bianchi periferia di Waf
Jeremie, il vescovo le aveva risposto semplicemente: «Porterete
Cristo e la Chiesa». Eccola, la differenza tra il “fare” ed “essere
presenza” tra gente che allora come oggi pareva priva di storia e di una vita
futura immaginabile tra catastrofi e sciagure continue. La presenza generò in
fretta operosità, i bimbi impararono a rimettere in moto l’io: altro che
passivi destinatari di carità e aiuti umanitari. E impararono a ricominciare
dopo ogni sisma, uragano, malattia, morte, omicidio.
Machete, cadaveri e piastrelle
«Perdere
la speranza e non riuscire a ricominciare ogni volta sarebbe come andare contro
la Resurrezione di Cristo e affermare che la morte è l’ultima parola su di noi.
Il punto è la fede: crediamo veramente di essere amati anche nel susseguirsi
delle tragedie?». Ad Haiti Marcella ha affrontato capibanda, suturato
ferite da machete, cercato nella melma bambini dispersi durante un tifone,
salvato dalle piaghe e dalle formiche neonati avvinghiati al cadavere
putrefatto della mamma abbandonata nelle tendopoli dei terremotati.
«Ma qui
si è sudato anche per ogni singola piastrella posata: ho sudato per
trovare soldi, materiali, manodopera, io stessa ho piastrellato interi
corridoi, ma allora avevo 40 anni e mi tremano le gambe all’idea di
ricominciare a quasi 60. Eppure è questo che ci aspetta: ci aspetta di
diventare più fermi nella fede, nella speranza e portare a chi ci è attorno
questa fermezza. Ce lo ricorda ogni singola piastrella scoppiata».
Il ricatto del capobanda
Marcella
è rientrata ad Haiti a maggio, insieme ai bambini “rimpatriati” dall’Italia
dopo due anni di studi e di “rinascita” straordinaria a Casa Lelia a Cannara,
Assisi. E non è stato un rientro facile: «La sera stessa siamo stati
“visitati” dal capobanda che ci ha chiesto 25 mila dollari al mese per
“lasciare in pace” la missione (più volte i gangster armati fino ai
denti e brutali fino a compiere orrendi atti di cannibalismo avevano
saccheggiato la Kay Pe’ Giuss, ndr)».
Insieme
alla folle richiesta del pizzo suor Marcella racconta di aver trovato «ancora
più miseria, solitudine, devastazione, un paese che annaspa e non sa dove
andare. La gente ha fame, è sola, non ha accesso alle cure mediche,
i bambini non hanno accesso all’educazione, non abbiamo accesso all’acqua
potabile. Non c’è corrente, carburante, non c’è sicurezza. La mattina gli
educatori arrivano in lacrime raccontando che durante la notte le bande
armate hanno fatto irruzione nelle loro case e nei loro villaggi per prendere i
figli maschi, le madri si prostrano a terra implorando di risparmiare
i propri bambini. Ci sono attacchi, scontri a fuoco, cadaveri in continuazione.
Ma a sconvolgerci è che ad eccezione del Papa, Haiti non interessi a
nessuno. Fa notizia quando il terremoto divora la sua terra, ma le vittime
di Haiti si contano a migliaia, ogni singolo giorno, in un paese dove quasi
sette milioni di persone, sopravvivono ammassate come bestie in condizioni
disumane. E la situazione degenera ad ogni ora».
Quando tutto crolla
Non è
stato nemmeno facile spiegare ai bambini perché interrompere la scuola in
Italia. Il ministero degli Esteri non accetta il progetto iniziato ad
Assisi e non concede ai bambini i visti di studio. La legge dice
infatti che sotto i 14 anni non si può venire in Italia a studiare; non si osa
creare “un precedente” e nemmeno aprire la strada a qualcosa di nuovo (qualcosa
che per due anni ha radunato a Cannara famiglie, insegnanti, volontari,
autorità locali, tutti al seguito dell’allegra brigata di Haiti. Fino
all’intervento del Tribunale di Perugia e al “rimpatrio” dei
bambini). Qualcosa che i bambini hanno portato con sé e che resta in piedi
quando tutto crolla.
Aiutare chi aiuta Haiti
Quando cioè noi altri ci ricordiamo
dell’esistenza di Haiti e vogliamo fare qualcosa: «Ora i prezzi lieviteranno
come pane al sole, quello che si può fare è campagne di raccolta per aiutare
chi sta aiutando. Non ci sono solo le grandi organizzazioni, con relativi
grandi apparati da mantenere, ma tanti missionari in prima linea che
impegnano ogni offerta direttamente in loco. Le vie sono tante, ognuno trovi la
sua per aiutare Haiti a ricominciare».
A Kay Pé Giuss c’è un
giardino fiorito
I bambini
di Kay Pé Giuss stanno bene, il terremoto ha solo spaccato
pavimenti e fatto danni minori nella casa di accoglienza che è la missione di
Suor Marcella Catozza. Lì sono ospitati 14o bimbi che vivono in casette
colorate, alle spalle hanno storie di abbandono o disabilità. Molti sono
orfani. Trovano una porta aperta e un letto in cui dormire, ma anche molto di
più. L’ipotesi è quella di offrire loro un cammino educativo che
li accompagni a riconoscere innanzitutto chi sono, la dignità che hanno e i
desideri che li accendono.
La speranza
che porta la presenza cristiana è una casa che regge in mezzo ai
terromoti, vale ad Haiti e vale a ogni latitudine. E alla Kay Pé Giuss c’è
un giardino che trabocca di piante e fiori, paradossale. Suor Marcella dice che
è il segno evidente che non siamo noi a tenere le redini del mondo. Dio
fa fiorire anche la terra più dilaniata dalle catastrofi. Rivendica come
Sua predilezione anche ciò che sembra solo un quadro disperato di morte. E
questo è tutt’uno col chiedere all’uomo che non se ne lavi le mani.
«Affidiamo
alla Madonna il popolo haitiano, i nostri amici, i nostri bambini perché li
protegga e gli dia la forza di ricominciare una volta ancora».