lunedì 19 dicembre 2011

A REBIBBIA INCONTRO A GESU'

BENEDETTO XVI A COLLOQUIO CON I DETENUTI

Quelle che seguono sono le ultime due domande e risposte del colloquio che Benedetto XVI ha avuto con i detenuti del carcere romano di Rebibbia, la mattina del 18 dicembre, quarta domenica di Avvento.



PERCHÉ PARLAR BENE ANCHE DI CHI HA FATTO DEL MALE

D. – Santità, sono Federico, parlo a nome dei persone detenute del G14, che è il reparto infermeria. Cosa possono chiedere degli uomini detenuti, malati e sieropositivi al papa? Al nostro papa, già gravato dal peso di tutte le sofferenze del mondo, chiedono che preghi per loro? Che li perdoni? Che li tenga presente nel suo grande cuore? Sì, noi questo vorremmo chiedere, ma soprattutto che portasse la nostra voce dove non viene sentita. Siamo assenti dalle nostre famiglie, ma non nella vita, siamo caduti e nelle nostre cadute abbiamo fatto del male ad altri, ma ci stiamo rialzando. Troppo poco si parla di noi, spesso in modo così feroce come a volerci eliminare dalla società. Questo ci fa sentire sub-umani. Lei è il papa di tutti e noi la preghiamo di fare in modo che non ci venga strappata la dignità, insieme alla libertà. Perché non sia più dato per scontato che recluso voglia dire escluso per sempre. La sua presenza è per noi un onore grandissimo! I nostri più cari auguri per il Santo Natale, a tutti.

BENEDETTO XVI – Si, mi ha detto parole veramente memorabili, siamo caduti, ma siamo qui per rialzarci.
Questo è importante, questo coraggio di rialzarsi, di andare avanti con l’aiuto del Signore e con l’aiuto di tutti gli amici. Lei ha anche detto che si parla in modo feroce di voi, purtroppo è vero, ma vorrei dire non solo questo, ci sono anche altri che parlano bene di voi e pensano di voi. Io penso alla mia piccola famiglia papale, sono circondato da quattro suore laiche e parliamo spesso di questo problema, loro hanno amici in diverse carceri, riceviamo anche doni da loro e diamo da parte nostra il nostro dono, quindi questa realtà è in modo molto positivo presente nella mia famiglia e penso in tante altre. Dobbiamo sopportare che alcuni parlano in modo feroce, parlano in modo feroce anche contro il papa e tuttavia andiamo avanti. Mi sembra importante incoraggiare tutti che pensino bene, che abbiano il senso delle vostre sofferenze, abbiano il senso di aiutare nel processo di rialzamento e diciamo che io farò il mio per invitare tutti a pensare in questo modo giusto, non in modo dispregiativo, ma in modo umano, pensando che ognuno può cadere, ma Dio vuole che tutti arrivino da lui, e noi dobbiamo cooperare con lo Spirito di fraternità e di riconoscimento anche della propria fragilità, perché possano realmente rialzarsi e andare avanti con dignità e trovare sempre rispettata la propria dignità, perché cresca, e possano così anche trovare gioia nella vita, perché la vita ci è donata dal Signore e con una sua idea. E se riconosciamo questa idea di Dio che è con noi, anche i passi oscuri hanno il loro senso per darci più la riconoscenza di noi stessi, per aiutare e diventare più noi stessi, più figli di Dio e così e realmente essere felici di essere uomini, perché creati da Dio anche in diverse condizioni difficili. Il Signore vi aiuterà e noi siamo vicini a voi.

IL PERDONO DI DIO E QUELLO DELLA CHIESA

D. – Mi chiamo Gianni, del Reparto G8. Santità, mi è stato insegnato che il Signore vede e legge dentro di noi, mi chiedo perché l’assoluzione è stata delegata ai preti? Se io la chiedessi in ginocchio, da solo, dentro una stanza, rivolgendomi al Signore, mi assolverebbe? Oppure sarebbe un’assoluzione di diverso valore? Quale sarebbe la differenza?

BENEDETTO XVI – Sì: è una grande e vera questione quella che lei porta a me. Direi due cose. La prima: naturalmente, se lei si mette in ginocchio e con vero amore di Dio prega che Dio perdoni, perdona. È sempre la dottrina della Chiesa che se uno, con vero pentimento, cioè non solo per evitare pene, difficoltà, ma per amore del bene, per amore di Dio chiede perdono, riceve il perdono da Dio. Questa è la prima parte. Se io realmente conosco che ho fatto male, e se in me è rinato l’amore del bene, la volontà del bene, il pentimento che non ho risposto a questo amore, e chiedo da Dio che è il bene, il perdono lo dona. Ma c’è un secondo elemento: il peccato non è solamente una cosa “personale”, individuale, tra me e Dio; il peccato ha sempre anche una dimensione sociale, orizzontale. Con il mio peccato personale, tuttavia, anche se forse nessuno lo sa, ho danneggiato anche la comunione della Chiesa, sporcato la comunione della Chiesa, sporcato l’umanità. E perciò questa dimensione sociale, orizzontale del peccato esige che sia assolto anche a livello della comunità umana, della comunità della Chiesa, quasi corporalmente. Quindi, questa seconda dimensione del peccato che non è solo contro Dio ma concerne anche la comunità, esige il sacramento, che è il grande dono nel quale posso, nella confessione, liberarmi di questa cosa e posso realmente ricevere il perdono nel senso anche di una piena riammissione nella comunità della Chiesa viva, del Corpo di Cristo. E così, in questo senso, l’assoluzione necessaria da parte del sacerdote, il sacramento, non è una imposizione che limita la bontà di Dio ma, al contrario, è un’espressione della bontà di Dio perché mi dimostra che anche concretamente, nella comunione della Chiesa, ho ricevuto il perdono e posso ricominciare di nuovo. Quindi, io direi di tenere presenti queste due dimensioni: quella verticale, con Dio, e quella orizzontale, con la comunità della Chiesa e dell’umanità. L’assoluzione del prete, l’assoluzione sacramentale è necessaria per realmente risolvermi, assolvermi da questo legame del male e ri-integrarmi nella volontà di Dio, nell’ottica di Dio, completamente nella sua Chiesa, e darmi la certezza, anche quasi corporale, sacramentale: Dio mi perdona, mi riceve nella comunità dei suoi figli. Penso che dobbiamo imparare a capire il sacramento della penitenza in questo senso: una possibilità di trovare, quasi corporalmente, la bontà del Signore, la certezza della riconciliazione.

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