lunedì 15 luglio 2019


IO LI AIUTO A CASA MIA (E FUNZIONA)

L’impegno esemplare di Daniel Sillah in Sierra Leone
di RODOLFO CASADEI 
tratto da TEMPI
Daniel Sillah


Fuggire da una guerra che stava per ucciderti, essere accolto come rifugiato in Italia, formarti professionalmente, crearti una rete di amicizie e rapporti sociali, ottenere la cittadinanza italiana. Poi tornare al paese d’origine, sposare una donna del posto, riprendere la residenza, scontrarti con mentalità molto diverse da quella che nel frattempo è diventata la tua, avviare l’attività no profit che da sempre avevi nel cuore, fare la spola fra l’Africa e l’Italia per tenere i contatti coi donatori che si fidano di te perché ti conoscono e hanno partecipato alla tua formazione.

Difficilmente Gian Carlo Blangiardo pensava a colpi di scena così drammatici quando ha formulato il suo concetto di «emigrazione circolare», che dovrebbe essere la risposta virtuosa e mediana
fra gli estremi delle porte chiuse all’immigrazione e del lassismo immigrazionista, ma indubbiamente il caso di Daniel Sillah, 45enne presidente dell’Ong sierraleonese St. Mary’s Home of Charity  (Smhc) che nel 1997 arrivò giovane profugo di guerra in Italia, esemplifica quel che il demografo piemontese oggi presidente dell’Istat intendeva.

Dopo che è rientrato in Sierra Leone nel 2008 Daniel si è dedicato a progetti di cooperazione internazionale che riguardavano cooperative di pescatori, sicurezza alimentare, miglioramento delle tecniche agricole, piscicoltura, alfabetizzazione degli adulti, ma soprattutto creazione
di case famiglia.
Prima una per bambini poliomielitici ed epilettici (Grafton Polio Home), poi più recentemente una per gli orfani di ebola, dell’Aids e di altre calamità locali, che si chiama appunto St. Mary’s Home ed è stata ufficialmente inaugurata il 28 dicembre scorso, con tanto di benedizione del vescovo e realizzazione, opera di un artista locale, di un affresco gigante della Vergine Maria su una delle pareti esterne.
Ma attenzione: non ci troviamo di fronte a un professionista della carità.
Insieme a sua moglie Lucy, con la quale non ha avuto figli, Daniel Sillah da quasi dieci anni accoglie in casa propria sette ospiti: un ex bambino soldato dell’odiosa guerra civile sierraleonese degli anni Novanta, due gemelli abbandonati quando avevano un anno di età e quattro bambini di famiglie povere.
Daniel e Lucy l’accoglienza ce l’hanno nel Dna: si sono conosciuti presso la prima e oggi non più operativa casa famiglia istituita in Sierra Leone dall’Associazione Comunità Papa giovanni XXIII (quella di don oreste Benzi), e Daniel ha trascorso circa una quindicina di anni della sua vita in case famiglia, prima in Africa e poi in italia, prima come ospite e poi come educatore.

«Sono originario di un villaggio nei pressi della cittadina di Bumbuna nel nord del paese», racconta. «Sono il secondogenito di una famiglia di cinque fra figli e figlie di tradizione musulmana. Quando avevo 10 anni mio padre è morto improvvisamente, e mia madre non era
in grado di mantenere da sola noi cinque.
Non lontano da noi c’era una delle case famiglia create dal missionario saveriano padre giuseppe Berton, l’iniziatore del movimento delle case famiglia in Sierra leone. Sono stato accolto lì, e lì ho
trascorso la parte finale dell’infanzia e l’adolescenza, in compagnia di 50 bambini, e ho cominciato ad andare a scuola.
Spesso mi chiedono: “Perché una casa famiglia, in Africa gli orfani non vengono accolti dalla famiglia allargata?”. Rispondo che nelle regioni rurali dell’interno le famiglie sono talmente povere che nonriescono ad accogliere permanentemente i figli di qualcun altro, nemmeno dei parenti stretti».

L’aiuto di don Oreste Benzi
Poi arriva la guerra civile del 1991, una delle più crudeli e devastanti di tutta l’Africa: i ribelli terrorizzano la popolazione uccidendo indiscriminatamente, stuprando, mutilando delle mani o delle braccia oltre 4 mila persone; il governo collassa, viene preso in mano dai militari, chiede aiuto ai paesi vicini che mandano le loro truppe (tranne la Liberia, che stava dalla parte dei ribelli). Padre
Berton è costretto a chiudere le sue case e trasferirsi con bambini e ragazzi nella capitale Freetown, unica zona relativamente sicura del paese. Chiede aiuto a un altro sacerdote grande esperto di case
famiglia: don oreste Benzi. Nasce la casa della Papa giovanni XXIII nelle vicinanze di Freetown, e Daniel che ora ha 19 anni viene scelto come educatore e custode di 15 bambini fra i 2 e i 10 anni di età, nonostante debba ancora concludere gli studi alla scuola media superiore. Il precario status quo collassa nel 1995, quando i riorganizzati guerriglieri danno l’assalto alle località alle porte della capitale e Daniel è costretto alla fuga nella selva insieme ai bambini di cui era custode, due dei quali restano uccisi nei primi momenti dell’attacco.


Sono mesi terribili, nei quali il giovane educatore vede e vive le cose più orribili della sua vita:
più volte i ribelli (spesso bambini soldato trasformati in macchine da guerra e giovani sotto l’effetto di stupefacenti) sequestrano lui e gli orfani e li usano come scudi umani, puntano le armi contro di loro per intimidirli, uccidono o mutilano civili davanti ai loro occhi.
Daniel riesce a mettersi in contatto con padre Berton e con don Benzi, che dopo infinite traversie riesce a farli evacuare dalla Sierra Leone in elicottero.

In un campo profughi della Guinea Conakry trascorrono sei mesi molto difficili, isolati e trattati in modo ostile dalle autorità locali, fino a quando l’Italia decide finalmente di accoglierli come profughi.

Addetto al montaggio
«Siamo partiti da Conakry il 15 agosto 1997», ricorda Daniel. «Eravamo 13 bambini e ragazzi e due educatori. Giunti in Italia, siamo stati inseriti in una casa famiglia a Rimini appositamente creata
per noi da don Benzi, poi io sono stato mandato a formarmi in due diverse case della provincia di Vicenza, una per portatori di handicap fisici e un’altra per persone con problemi psichiatrici. Ho
chiesto di poter continuare gli studi, perché a 25 anni avevo solo la licenza delle medie superiori. Mi hanno aiutato a iscrivermi alla facoltà di Scienze delle Comunicazioni all’Università Gregoriana,
e ho vissuto a Roma per cinque anni.
Conclusi gli studi, mi sono trasferito a Cesena invitato da alcuni amici in contatto con padre Berton e ho trovato un lavoro a TeleRomagna, un’emittente locale con sede prima a Forlì poi a Cesena.
Io ero addetto alle riprese e al montaggio.
In quegli anni ho frequentato le comunità di Comunione e Liberazione, e sono diventato amico di Arturo Alberti, presidente prima di Avsi e poi di Orizzonti, due Ong della cooperazione internazionale con sede a Cesena.

Ho fatto il volontario per loro e ho cominciato a pensare a tornare nel mio paese di origine. Per
cinque anni, fino al 2002, non avevo più saputo nulla di mia madre e dei miei fratelli, e avevo come cancellato la mia vita precedente. Quando ho avuto notizia che erano ancora tutti in vita, ho desiderato ritrovarli. Ma volevo essere sicuro di non fare mosse sbagliate e tenermi aperte tutte
le possibilità.
Ho fatto domanda per la cittadinanza italiana, e l’8 giugno 2008 mi è stata concessa. Due settimane dopo ero già in Sierra Leone, dove sono entrato mostrando il passaporto italiano. Alla
seconda visita, alla fine del successivo mese di settembre, avevo già deciso di rientrare per dedicarmi alla creazione di una casa famiglia e di sposare Lucy.
I primi tempi dopo il rientro sono stati difficili: mi scontravo con una mentalità di passività e personalismi che lontano dall’Africa avevo dimenticato. Dall’Italia Arturo mi ha aiutato mettendomi in contatto coi coniugi Coccia, imprenditori attivi in Sierra Leone, e attraverso di loro
con Coopermondo, la Ong internazionale di Confcooperative».

Daniel diventa il rappresentante di Coopermondo in Sierra Leone, ed è con loro che promuove i progetti relativi alla pesca, all’agricoltura e all’alfabetizzazione.
Poi nel 2011 grazie al sostegno di Orizzonti si fa carico della Grafton Polio Home, iniziata da un missionario che era rientrato in Italia: la casa, che ha ospitato fino a 29 bambini, esiste fino ad oggi e riceve aiuti anche da altre Ong.
Quindi viene creata la St. Mary’s Home of Charity, Ong di diritto sierraleonese che avrà il suo battesimo del fuoco nel 2014, quando si coinvolge negli sforzi internazionali per debellare l’epidemia di ebola nel paese. Ottocento orfani sopravvissuti alla malattia che ha ucciso i
loro genitori vengono ospitati per alcuni mesi in due case della St. Mary’s prima di essere riuniti alle famiglie allargate di appartenenza.


«Sono l’unico rientrato»
La Smhc è anche partner locale di Avsi in progetti rivolti al settore dell’educazione per incrementare la frequenza scolastica nelle zone rurali. Dopo molti sforzi, nel dicembre scorso apre i battenti la St. Mary’s Home, dove attualmente 13 bambini fra i 4 e i 12 anni sono assistiti da quattro educatori (fra i quali un ex preside): frequentano tutti le scuole e hanno un campo giochi che fa invidia a un giardino d’infanzia italiano.

Tutto grazie alle “connection” di Daniel Sillah: in Italia Orizzonti, che sponsorizza la casa e parteciperà all’allestimento di un orto della medesima; in Sierra Leone i coniugi Coccia, che a Lumley Beach, pochi chilometri fuori dalla capitale, hanno creato uno stabilimento balneare
con annesse gelateria e pizzeria gestite da amici della Papa Giovanni XXIII: parte dei profitti finanziano i progetti della Smhc e alcuni degli ex ragazzi delle case famiglia ci trovano un posto di lavoro.
«I sierraleonesi che sono fuggiti con me dalla guerra oggi vivono ancora in Italia oppure lavorano per agenzie Onu in giro per il mondo», racconta Daniel.
«Io sono l’unico che è rientrato. Quando riflettevo sul da farsi, mi ha aiutato a decidere l’amico Arturo Alberti: “Vai tranquillo, ti aiuteremo a realizzare progetti di sviluppo sul posto”.
Sono rientrato perché ero sicuro che i rapporti che erano nati in Italia sarebbero durati, e sarebbero stati la nostra forza».

Ogni annoDaniel viene in Italia due-tre volte per incontrare Orizzonti o la Papa Giovanni XXIII. Da quel giorno di giugno in cui ha rimesso piede nella terra natia con in mano un passaporto italiano sono passati quasi 11 anni, ma della scelta fatta non si è mai pentito.
Un uomo sa sempre dove appartiene, e a cosa appartiene

venerdì 12 luglio 2019

«LAMBERT È STATO UCCISO DALLO STATO FRANCESE PER SOLDI»



Vincent
E così lo Stato francese è riuscito a imporre ciò che perseguivano con accanimento, e da diversi anni, numerosi familiari: la morte di Vincent Lambert.

Devo confessare che quando la ministra «della Solidarietà e della Salute» (apprezzo molto, in questo caso, la solidarietà) ha fatto ricorso in Cassazione, sono rimasto sbalordito. Ero convinto che il governo sarebbe rimasto neutrale in questa vicenda. Dopo tutto, Emmanuel Macron aveva dichiarato, poco tempo prima, di non avere nessuna intenzione di lasciarsi coinvolgere. Ho pensato, scioccamente, che i suoi ministri avrebbero seguito la stessa linea.

Avrei dovuto sospettare di Agnès Buzyn. A dire il vero, non mi fidavo troppo di lei, da quando aveva dichiarato che la conclusione da trarre da simili tristi vicende è che non bisogna mai dimenticare di mettere per iscritto, e per tempo, le proprie volontà (ne ha parlato, in realtà, come quando si ricorda ai bambini di fare i compiti e non si è nemmeno preoccupata di precisare in quale senso potessero andare queste volontà, quasi fosse già dato per scontato).

Vincent Lambert non aveva lasciato nessuna disposizione scritta. Circostanza aggravante, era infermiere. Avrebbe dovuto sapere, meglio di chiunque altro, che l’ospedale pubblico ha ben altro di cui occuparsi che non mantenere in vita gli handicappati (gentilmente riqualificati come «vegetali»). La sanità pubblica è allo stremo, e se ci sono troppi Vincent Lambert si rischia di rimetterci un mucchio di soldi (a proposito, vorrei sapere perché: un sondino per l’acqua, un altro per l’alimentazione, non mi sembra che ciò richieda un intervento di alta tecnologia, si potrebbe fare a domicilio, e lo si fa nella maggioranza dei casi, ed è quanto hanno sempre reclamato, a gran voce e con grande insistenza, i suoi genitori).

Vincent Lambert viveva in uno stato mentale particolare. E no, non è stato il Centro universitario ospedaliero ad abbandonarlo al suo destino, resto sorpreso nell’apprenderlo. Vincent Lambert non era affatto tormentato da dolori insopportabili, non soffriva minimamente. Non era nemmeno in fin di vita. Viveva in uno stato mentale particolare, sul quale sarebbe molto più onesto ammettere che non si hanno finora cognizioni precise. Non era in grado di comunicare con coloro che gli stavano intorno, o lo faceva in modo quasi impercettibile (niente di strano nemmeno in questo, il suo era simile allo stato in cui sprofondiamo, ciascuno di noi, quando scende la sera). Le sue condizioni (e questo è più raro) sembravano irreversibili. Scrivo «sembravano» perché ho parlato con molti medici, per me stesso o per altre persone (alcune agonizzanti), e mai, in nessuna circostanza, un dottore è stato in grado di affermare di essere sicuro, sicuro al 100 percento, di quello che stava per accadere. Ma può anche darsi. Può capitare che tutti i medici consultati, senza eccezione, si siano trovati d’accordo nel formulare una prognosi identica: nella mia esperienza, però, non è mai successo.

In questa circostanza, era necessario uccidere Vincent Lambert? E perché proprio lui, anziché le altre migliaia di pazienti che in questo momento, in Francia, versano nelle medesime condizioni? Trovo difficile scrollarmi di dosso il sospetto sconcertante che Vincent Lambert sia morto per un’eccessiva mediatizzazione, per essere diventato, suo malgrado, un simbolo. Si trattava, per la ministra della Salute, e «della Solidarietà», di dare un esempio. Di «aprire una breccia» nella mentalità, per farla «evolvere». Detto fatto. La breccia è stata aperta, non c’è dubbio. In quanto alla mentalità, non sono così sicuro. Nessuno vuole la morte, nessuno vuole la sofferenza: in questo consiste, a quanto pare, «la mentalità», per lo meno da diversi millenni a oggi.

Una scoperta straordinaria, che avrebbe fornito una soluzione elegante a un problema che ci assilla sin dalle origini dell’umanità, è stata fatta nel 1804: la morfina. Qualche anno più tardi, si è cominciato a esplorare seriamente le sorprendenti possibilità dell’ipnosi. In breve, la sofferenza non è più un problema, ed è questo che bisogna ripetere, incessantemente, al 95 per cento delle persone che si dichiarano favorevoli all’eutanasia. Anch’io, in alcuni casi (fortunatamente rari) della mia vita, sono stato pronto a tutto, a implorare la morte, le iniezioni, qualunque cosa, per sottrarmi al dolore. E poi mi hanno fatto una puntura (di morfina) e la mia prospettiva è cambiata immediatamente, e radicalmente. È bastato qualche minuto, appena una manciata di secondi. Che tu sia benedetta, sorella morfina. Come si permettono, certi medici, di rifiutare la morfina? Temono forse che gli agonizzanti potrebbero cadere nella tossicodipendenza? È talmente ridicolo che faccio fatica a scriverlo. Tutto sommato è ridicolo, ma anche terribilmente schifoso. Per scrupolo di coscienza ho consultato il dizionario.

Nessuno vuole la morte, nessuno vuole la sofferenza, dicevo. Una terza esigenza è emersa da pochi anni a questa parte: la dignità. Il concetto mi è sempre parso un po’ fumoso, a dire il vero. Anch’io ho la mia dignità, certo, ci penso ogni tanto, anche se non molto spesso, ma non credo che essa possa assurgere al primo posto tra le preoccupazioni «della società». Per scrupolo di coscienza ho consultato Le Petit Robert (edizione 2017). Questa la sua semplicissima definizione di dignità: «il rispetto dovuto a qualcuno». Gli esempi che seguono, a mio avviso, ingarbugliano la questione, rivelando che Camus e Pascal, pur condividendo il concetto di «dignità umana», non lo poggiano sulle medesime basi (com’era ovvio immaginare). Ad ogni modo, pare evidente a entrambi i pensatori (e direi anche alla maggioranza degli individui) che la dignità (ovvero il rispetto che ci è dovuto), benché possa essere lesa da azioni moralmente reprensibili, non può essere minimamente scalfita attraverso il declino, per quanto catastrofico, del proprio stato di salute. Se la pensiamo diversamente, vuol dire che c’è stata, effettivamente, un’«evoluzione della mentalità». E non credo sia il caso di rallegrarsene.

tratto dal Corriere della Sera 


SATANA NON VUOLE FIGLI


LEONARDO LUGARESI
Vincent Lambert non è morto perché nessuno si è voluto prendere cura di lui. Non è morto a causa della nostra indifferenza, del nostro egoismo, della nostra pigrizia, del nostro attaccamento alle comodità e alle convenienze. Non è morto perché nessuno si è alzato a dire: a lui ci penso io.

Fosse stato appena (!) così, saremmo nell'ordine di peccati mortali sì, ma umani. Egoismo, pigrizia, attaccamento ai comodi nostri e ai vantaggi nostri sono la pasta carnale di cui siamo fatti. (E, nonostante ciò, a nostro Signore non ha fatto schifo impastarsi con la stessa carne).
Ma non è andata così. Per Vincent c'era qualcuno disposto a prendersi cura di lui e a portare con lui il peso della sua vita: i suoi genitori, tanto per cominciare. Così come c'era qualcuno per Charlie Gard, per Alfie Evans e per tanti altri di cui non conosciamo o non ricordiamo i nomi. C'era qualcuno anche per Eluana Englaro: non era suo padre, ma le suore che da anni la curavano. Qualcuno c'è sempre.
Vincent e gli altri sono stati uccisi perché si è voluto impedire, con la forza dello stato, che padri e madri (naturali o elettivi) continuassero ad amare e a far vivere i figli.
Questa non è “normale” miseria dell'egoismo umano (“farti vivere mi costa fatica, non ne ho voglia”), questo è odio satanico: “Padre non devi amare il Figlio”.
Ho messo le maiuscole perché si capisca l'origine teologica di quest'odio. La Trinità è Amore di Padre e di Figlio. Satana è tutto e solo odio di quell'Amore. Tutto il male che Satana opera nel mondo ha l'inconfondibile marchio dell'odio per la Famiglia Trinitaria. Per questo la famiglia umana, che ne è un riflesso, è al centro di tutti gli attacchi ed è il vero obiettivo delle “rivoluzioni culturali” che si sono fatte e si stanno facendo nel nostro povero mondo.
Satana è single.