IO
LI AIUTO A CASA MIA (E FUNZIONA)
L’impegno esemplare di Daniel Sillah in Sierra Leone
di RODOLFO CASADEI
tratto da TEMPI
Daniel Sillah |
Fuggire da una guerra che
stava per ucciderti, essere accolto come rifugiato in Italia, formarti
professionalmente, crearti una rete di amicizie e rapporti sociali, ottenere la
cittadinanza italiana. Poi tornare al paese d’origine, sposare una donna del
posto, riprendere la residenza, scontrarti con mentalità molto diverse da quella
che nel frattempo è diventata la tua, avviare l’attività no profit che da sempre
avevi nel cuore, fare la spola fra l’Africa e l’Italia per tenere i contatti
coi donatori che si fidano di te perché ti conoscono e hanno partecipato alla
tua formazione.
Difficilmente Gian Carlo Blangiardo
pensava a colpi di scena così drammatici quando ha formulato il suo concetto di
«emigrazione circolare», che dovrebbe
essere la risposta virtuosa e mediana
fra gli estremi delle porte
chiuse all’immigrazione e del lassismo immigrazionista, ma indubbiamente il
caso di Daniel Sillah, 45enne presidente
dell’Ong sierraleonese St. Mary’s Home of Charity (Smhc) che nel 1997 arrivò giovane
profugo di guerra in Italia,
esemplifica quel che il demografo
piemontese oggi presidente dell’Istat
intendeva.
Dopo che è rientrato in
Sierra Leone nel 2008 Daniel si è dedicato a progetti di cooperazione
internazionale che riguardavano cooperative di pescatori, sicurezza alimentare,
miglioramento delle tecniche agricole, piscicoltura, alfabetizzazione degli
adulti, ma soprattutto creazione
di case famiglia.
Prima una per bambini poliomielitici
ed epilettici (Grafton Polio Home), poi più recentemente una per gli orfani di
ebola, dell’Aids e di altre calamità locali, che si chiama appunto St. Mary’s
Home ed è stata ufficialmente inaugurata il 28 dicembre scorso, con tanto di
benedizione del vescovo e realizzazione, opera di un artista locale, di un affresco
gigante della Vergine Maria su una delle pareti esterne.
Ma attenzione: non ci
troviamo di fronte a un professionista della carità.
Insieme a sua moglie Lucy,
con la quale non ha avuto figli, Daniel Sillah da quasi dieci anni accoglie in casa
propria sette ospiti: un ex bambino soldato dell’odiosa guerra civile
sierraleonese degli anni Novanta, due gemelli abbandonati quando avevano un
anno di età e quattro bambini di famiglie povere.
Daniel e Lucy l’accoglienza
ce l’hanno nel Dna: si sono conosciuti presso la prima e oggi non più operativa
casa famiglia istituita in Sierra Leone dall’Associazione Comunità Papa
giovanni XXIII (quella di don oreste Benzi), e Daniel ha trascorso circa una
quindicina di anni della sua vita in case famiglia, prima in Africa e poi in
italia, prima come ospite e poi come educatore.
«Sono originario di un
villaggio nei pressi della cittadina di Bumbuna nel nord del paese», racconta.
«Sono il secondogenito di una famiglia di cinque fra figli e figlie di
tradizione musulmana. Quando avevo 10 anni mio padre è morto improvvisamente, e
mia madre non era
in grado di mantenere da
sola noi cinque.
Non lontano da noi c’era una
delle case famiglia create dal missionario saveriano padre giuseppe Berton, l’iniziatore
del movimento delle case famiglia in Sierra leone. Sono stato accolto lì, e lì
ho
trascorso la parte finale
dell’infanzia e l’adolescenza, in compagnia di 50 bambini, e ho cominciato ad
andare a scuola.
Spesso mi chiedono: “Perché
una casa famiglia, in Africa gli orfani non vengono accolti dalla famiglia
allargata?”. Rispondo che nelle regioni rurali dell’interno le famiglie sono
talmente povere che nonriescono ad accogliere permanentemente i figli di
qualcun altro, nemmeno dei parenti stretti».
L’aiuto di don
Oreste Benzi
Poi arriva la guerra civile
del 1991, una delle più crudeli e devastanti di tutta l’Africa: i ribelli
terrorizzano la popolazione uccidendo indiscriminatamente, stuprando, mutilando
delle mani o delle braccia oltre 4 mila persone; il governo collassa, viene
preso in mano dai militari, chiede aiuto ai paesi vicini che mandano le loro
truppe (tranne la Liberia, che stava dalla parte dei ribelli). Padre
Berton è costretto a
chiudere le sue case e trasferirsi con bambini e ragazzi nella capitale
Freetown, unica zona relativamente sicura del paese. Chiede aiuto a un altro
sacerdote grande esperto di case
famiglia: don oreste Benzi.
Nasce la casa della Papa giovanni XXIII nelle vicinanze di Freetown, e Daniel
che ora ha 19 anni viene scelto come educatore e custode di 15 bambini fra i 2
e i 10 anni di età, nonostante debba ancora concludere gli studi alla scuola
media superiore. Il precario status quo collassa nel 1995, quando i riorganizzati
guerriglieri danno l’assalto alle località alle porte della capitale e Daniel è
costretto alla fuga nella selva insieme ai bambini di cui era custode, due dei
quali restano uccisi nei primi momenti dell’attacco.
Sono mesi terribili, nei
quali il giovane educatore vede e vive le cose più orribili della sua vita:
più volte i ribelli (spesso
bambini soldato trasformati in macchine da guerra e giovani sotto l’effetto di
stupefacenti) sequestrano lui e gli orfani e li usano come scudi umani, puntano
le armi contro di loro per intimidirli, uccidono o mutilano civili davanti ai
loro occhi.
Daniel riesce a mettersi in
contatto con padre Berton e con don Benzi, che dopo infinite traversie riesce a
farli evacuare dalla Sierra Leone in elicottero.
In un campo profughi della
Guinea Conakry trascorrono sei mesi molto difficili, isolati e trattati in modo
ostile dalle autorità locali, fino a quando l’Italia decide finalmente di
accoglierli come profughi.
Addetto al
montaggio
«Siamo partiti da Conakry il
15 agosto 1997», ricorda Daniel. «Eravamo 13 bambini e ragazzi e due educatori.
Giunti in Italia, siamo stati inseriti in una casa famiglia a Rimini
appositamente creata
per noi da don Benzi, poi io
sono stato mandato a formarmi in due diverse case della provincia di Vicenza,
una per portatori di handicap fisici e un’altra per persone con problemi
psichiatrici. Ho
chiesto di poter continuare
gli studi, perché a 25 anni avevo solo la licenza delle medie superiori. Mi
hanno aiutato a iscrivermi alla facoltà di Scienze delle Comunicazioni all’Università
Gregoriana,
e ho vissuto a Roma per
cinque anni.
Conclusi gli studi, mi sono trasferito a Cesena invitato da alcuni
amici in contatto con padre Berton e ho trovato un lavoro a TeleRomagna, un’emittente
locale con sede prima a Forlì poi a Cesena.
Io ero addetto alle riprese
e al montaggio.
In
quegli anni ho frequentato le comunità di Comunione e Liberazione, e sono diventato
amico di Arturo Alberti, presidente prima
di Avsi e poi di Orizzonti, due Ong della cooperazione internazionale con
sede a Cesena.
Ho fatto il volontario per
loro e ho cominciato a pensare a tornare nel mio paese di origine. Per
cinque anni, fino al 2002,
non avevo più saputo nulla di mia madre e dei miei fratelli, e avevo come
cancellato la mia vita precedente. Quando ho avuto notizia che erano ancora
tutti in vita, ho desiderato ritrovarli. Ma volevo essere sicuro di non fare
mosse sbagliate e tenermi aperte tutte
le possibilità.
Ho fatto domanda per la cittadinanza
italiana, e l’8 giugno 2008 mi è stata concessa. Due settimane dopo ero già in
Sierra Leone, dove sono entrato mostrando il passaporto italiano. Alla
seconda visita, alla fine
del successivo mese di settembre, avevo già deciso di rientrare per dedicarmi
alla creazione di una casa famiglia e di sposare Lucy.
I primi tempi dopo il
rientro sono stati difficili: mi scontravo con una mentalità di passività e
personalismi che lontano dall’Africa avevo dimenticato. Dall’Italia Arturo mi
ha aiutato mettendomi in contatto coi coniugi Coccia, imprenditori attivi in
Sierra Leone, e attraverso di loro
con Coopermondo, la Ong internazionale di Confcooperative».
Daniel diventa il
rappresentante di Coopermondo in Sierra Leone, ed è con loro che promuove i
progetti relativi alla pesca, all’agricoltura e all’alfabetizzazione.
Poi nel 2011 grazie al
sostegno di Orizzonti si fa carico della Grafton Polio Home, iniziata da un
missionario che era rientrato in Italia: la casa, che ha ospitato fino a 29
bambini, esiste fino ad oggi e riceve aiuti anche da altre Ong.
Quindi viene creata la St. Mary’s Home of Charity, Ong di
diritto sierraleonese che avrà il suo battesimo del fuoco nel 2014, quando si
coinvolge negli sforzi internazionali per debellare l’epidemia di ebola nel
paese. Ottocento orfani sopravvissuti alla malattia che ha ucciso i
loro genitori vengono
ospitati per alcuni mesi in due case della St. Mary’s prima di essere riuniti
alle famiglie allargate di appartenenza.
«Sono l’unico
rientrato»
La Smhc è anche partner
locale di Avsi in progetti rivolti al settore dell’educazione per incrementare
la frequenza scolastica nelle zone rurali. Dopo molti sforzi, nel dicembre
scorso apre i battenti la St. Mary’s Home, dove attualmente 13 bambini fra i 4
e i 12 anni sono assistiti da quattro educatori (fra i quali un ex preside):
frequentano tutti le scuole e hanno un campo giochi che fa invidia a un
giardino d’infanzia italiano.
Tutto
grazie alle “connection” di Daniel Sillah: in Italia Orizzonti, che
sponsorizza la casa e parteciperà all’allestimento di un orto della medesima;
in Sierra Leone i coniugi Coccia, che a Lumley Beach, pochi chilometri fuori
dalla capitale, hanno creato uno stabilimento balneare
con annesse gelateria e
pizzeria gestite da amici della Papa Giovanni XXIII: parte dei profitti
finanziano i progetti della Smhc e alcuni degli ex ragazzi delle case famiglia
ci trovano un posto di lavoro.
«I sierraleonesi che sono
fuggiti con me dalla guerra oggi vivono ancora in Italia oppure lavorano per
agenzie Onu in giro per il mondo», racconta Daniel.
«Io sono l’unico che è
rientrato. Quando riflettevo sul da
farsi, mi ha aiutato a decidere l’amico Arturo Alberti: “Vai tranquillo, ti
aiuteremo a realizzare progetti di sviluppo sul posto”.
Sono
rientrato perché ero sicuro che i rapporti che erano nati in Italia sarebbero
durati, e sarebbero stati la nostra forza».
Ogni annoDaniel viene in
Italia due-tre volte per incontrare Orizzonti o la Papa Giovanni XXIII. Da quel
giorno di giugno in cui ha rimesso piede nella terra natia con in mano un
passaporto italiano sono passati quasi 11 anni, ma della scelta fatta non si è
mai pentito.
Un
uomo sa sempre dove appartiene, e a cosa appartiene
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