martedì 17 settembre 2013

FONDAZIONE TEMPI


Nasce Fondazione Tempi

Un settimanale e i suoi lettori per alimentare un’inquietudine culturale

In mezzo al conformismo e alle campagne moraliste che seminano solo paura del futuro, uno strumento a disposizione degli amici di Tempi per promuovere incontri e iniziative


«Un giornale ha un ruolo decisivo. Può infatti essere l’equivalente di uno scriba di israeliana memoria, cioè il feroce propugnatore del pensiero del potere, quello che affonda il tacco sul pensiero dell’opposizione (…); oppure può diventare la comunicazione di quel principio per cui la fede può essere veramente vivibile, cioè un fatto di umanità significativamente rinnovato, un fatto di appartenenza». Bisogna ripescare uno dei passaggi dell’intervento di Giancarlo Cesana durante la presentazione ufficiale della Fondazione Tempi per spiegare le motivazioni identitarie profonde che hanno spinto un giornale come il nostro a fare un passo in più. Il passo è quello della costituzione di una Fondazione che attraverso diverse attività di carattere culturale si propone come punto di dibattito e raccolta di idee, utili per l’attività editoriale del settimanale, ma non solo.

La Fondazione si occupa infatti di affrontare attraverso iniziative pubbliche le tematiche culturali più urgenti nel nostro paese, grazie a una rete di aderenti (lettori e “amici” del settimanale) presenti in tutta Italia. In questo senso la sua natura vuole essere ampiamente aperta. Non è un mistero, infatti, che dal momento della sua nascita, nel 1995, il nostro settimanale ha potuto contare su un gruppo di lettori crescente e soprattutto fedele. Spesso e volentieri sono i lettori che segnalano eventi, storie, iniziative che giudicano utili alla “libera circolazione di idee” che Tempi è nato per favorire. La Fondazione vuole essere dunque uno strumento che facilita questa preziosa collaborazione per fare in modo che non se ne disperdano il valore e la memoria e per aumentarne l’efficacia. Ma quali sono le battaglie, le urgenze di quelli che nel luglio scorso, durante l’evento di presentazione della Fondazione, tutti i relatori (dal direttore Amicone, al vescovo di Carpi, al ministro Quagliariello fino a Giancarlo Cesana) hanno definito tempi duri? Perché parlare di tempi duri e che tipo di atteggiamento questa considerazione detta sul modo di agire nella realtà?

«Viviamo nella paura»
«Non credo di dire una cosa sconvolgente – ha detto monisgnor Cavina – affermando che tutti viviamo nella paura e nell’ansia. Abbiamo paura dei pericoli che abbiamo fabbricato con le nostre mani (disastro ecologico, energia nucleare, modificazione genetica), della situazione economica mondiale, del futuro nostro e delle generazioni che ci seguono. Ma la paura genera angoscia, tristezza, immobilismo…». Oggi, ha detto Cesana citando alcuni passaggi dell’enciclica Lumen Fidei, è come se mancasse l’aria. «Perché la fede è completamente separata dalla modalità attraverso cui l’uomo si mette a cercare quello che vuole».

Come scrive papa Francesco nell’enciclica: «Si è pensato di poterla conservare (la fede) di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio della ragione si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva avere certezze. La fede è stata intesa come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce ad illuminare abbastanza il futuro; alla fine esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. (…) Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla meta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione».

«La proposta dentro la società moderna – ha proseguito Cesana – è questa: un comportamento – quello che corrisponde al politicamente corretto –, sostenuto dal potere, deve dominare su tutti gli altri. Basti pensare alle nozze gay, a certo giustizialismo, alla cultura del grillismo: gli atteggiamenti così moralistici di tanta politica di oggi non bastano, perché in essi non ci si può impegnare tutto se stessi e, alla fine, sono vissuti da tutti come una specie di inevitabile imposizione. Infatti, è proprio impressionante la velocità con cui si cambiano le bandiere». «Tra di noi che siamo qui, invece, mi pare ci sia il tentativo, di cui non potremo essere mai abbastanza grati, di fare qualcosa di diverso, ovvero di ribadire il principio di un’appartenenza. Non è un mistero per nessuno che dietro l’esperienza di Tempi c’è Comunione e Liberazione: noi non dobbiamo essere un fattore di rappresentanza, nel senso che non è che siamo rappresentanti di ciò a cui apparteniamo, ma siamo responsabili di ciò a cui apparteniamo e, certamente, in questa responsabilità verremo giudicati dagli altri anche come rappresentanti. La preoccupazione non è di essere rappresentante di, ma di essere fino in fondo responsabile di quello che definisce, che ha costruito, la nostra umanità. E credo che l’iniziativa di oggi voglia proprio invitare a fare dell’appartenenza di ciascuno, in modo assolutamente laico, popolare, una possibilità di proposta, di incontro e di approfondimento su un piano che è decisamente prepolitico, non perché si disprezzi la politica, ma perché si vuole dare forza ideale alla decisione politica. Credo che la nascita di questa Fondazione sia proprio una decisione d’ingaggio nelle scelte culturali e politiche del mondo di oggi. Si tratta sicuramente di una posizione minoritaria, ma d’altra parte sono sempre state le minoranze a cambiare il mondo, mentre sono le maggioranze che lo conservano. Ci deve essere, inoltre, una possibilità d’aiuto reciproco e, secondo me, sistematico (comunicazione delle notizie, sostegno al giornale, etc). Bisogna alimentare una inquietudine culturale».

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