lunedì 24 settembre 2018

L'OPZIONE BENEDETTO: PARTE SECONDA


INTERVENTO DI MONS. MASSIMO CAMISASCA, MILANO 17 SETTEMBRE

"ASPETTARE DA DIO LA RISPOSTA"

Monsignor Massimo Camisasca ha esordito dicendo che il successo editoriale dell’Opzione Benedetto è per lui «motivo di gioia e di pena allo stesso tempo», e che il principale merito del libro è di porre «la questione della forma che la testimonianza della Chiesa deve avere nella realtà attuale»


Ma se è giusto e necessario riproporre sempre la domanda su tale forma, «è necessario aspettarsi da Dio la risposta, che non può mai essere interamente preventivata dall’uomo»

È «un impulso, un suggerimento di Dio alla libertà dei battezzati che il Signore rivolge a loro attraverso gli avvenimenti della storia, ma infine attraverso l’avventura della santità, che non è mai interamente a disposizione dell’uomo, anche se non è indifferente all’avvenimento della libertà. In fondo la risposta nasce dall’incontro di due infiniti: l’infinito di Dio e l’infinito dell’uomo, le loro rispettive libertà».

«Benedetto non è preventabile né programmabile, così come gli altri grandi santi. La riforma permanente della comunità ecclesiale, la nascita di una nuova forma, parte dalla riforma del cuore, il quale cambia forma nel momento in cui non è più centrato su se stesso, ma su un altro. La vera riforma è il dislocamento in Dio del nostro essere personale. 

Non penso si debba parlare di una forma storica uguale per ogni continente ed epoca. Fin dal suo sorgere la Chiesa ha vissuto una forte pluralità, è sempre stata poliforme: le comunità originarie sono state più di una (petrina, paolina, giovannea), i Vangeli sono quattro e non uno solo, ecc. Ma questa pluralità va intesa come sfaccettature dell’unico volto di Cristo. La persona di Gesù è infinitamente conoscibile, e ciascuno non può cogliere che una parte del suo mistero. Ma nessuno di noi può fare a meno dell’altro, perché il tutto dell’Uno precede il plurale. 

Nel dibattito teologico fra Ratzinger e Kasper sul rapporto fra Chiesa locale e Chiesa universale ha ragione Ratzinger. Ogni comunità cristiana è tutta la Chiesa così come ogni frammento dell’Eucarestia è tutto il corpo di Cristo, nella misura in cui tale comunità si concepisce nell’unità con tutta la Chiesa».

«Per quanto riguarda il nostro tempo, dobbiamo avvicinarci con sentimenti di simpatia o di rigetto? Ritengo che l’atteggiamento più fecondo oggi, davanti alle problematiche drammatiche e nuove nelle quali siamo immersi, debba essere un atteggiamento positivo e costruttivo. La nostra principale attenzione non deve soffermarsi sulla condanna, ma sulla positiva attrazione che esercita la vita di coloro che vivono la fede. È la positività della proposta che permette di scoprire la caducità diabolica di ciò che è condannato da Dio. La modernità non è una storia tutta negativa. 

Il magistero di Benedetto XVI ha ampiamente mostrato quanto la modernità contenga, insieme a una profonda negazione dell’identità cristiana, un richiamo all’autenticità della fede. Dalla modernità abbiamo ricevuto per esempio un richiamo alla riscoperta della libertà, che non dobbiamo dimenticare. Ogni pensiero reazionario, nella misura in cui vede il bene soltanto nel passato, dimentica quella proiezione in avanti che, assieme al radicamento nell’origine, costituisce il necessario cammino della vita cristiana».

«L’origine di una comunità cristiana è sempre la liturgia, lode alla Trinità dal sangue e dagli escrementi della terra, ma anche dalla luce dei mari, dei monti, dei fiori, dei cuori che si aprono a Dio, al perdono, all’accoglienza, alla fraternità. La Chiesa nasce da un incontro con il Mistero che traluce nell’umano e che lo trapassa, un incontro reso possibile dal fatto che qualcuno ci aiuta a vedere con occhi nuovi. Un altro – che si rivela così come autorità, padre che genera, fratello che ha pietà di noi – ci apre lo sguardo su ciò che avevamo sempre visto, ma in realtà non avevamo visto mai».

«In realtà tutto è generato dallo Spirito e dall’attualità dei misteri della vita di Cristo. Egli prende le cose e le fa suoi sacramenti. È lui che agisce, aggregando così una comunità di persone, prima sconosciute le une alle altre e ora familiari perché Dio è divenuto loro familiare. La Chiesa è una comunità universale, un unico popolo. Ma come il corpo ha molte membra, allo stesso modo, per analogia, la Chiesa si compone di molte comunità. Questo perché occorre che la fede sia vissuta in relazioni di prossimità in cui si sperimenti il caldo della fraternità e il sale del cambiamento, la luce del perdono e il peso della diversità».

«Una comunità cristiana è una comunità guidata. Nasce dall’alto, da Dio, per radicarsi sulla terra, penetrando nella particolarità della vita degli uomini. La guida ultima è perciò sempre un presbitero in rapporto con il vescovo, e che deve concepirsi come suo inviato. La guida educativa potrà essere un prete o un laico, un uomo o una donna, un giovane o un vecchio. Ma non esiste vita cristiana senza connessione con l’alterità di Dio. Certo, ogni autorità può corrompersi nell’autoritarismo, nell’arbitrio, nel puro esercizio del potere. Questo non toglie nulla alla sua necessità».


«La Chiesa non ha in sé la sua ragione, come la luna non ha da sé la sua luce notturna. Oggi questo è sottolineato, e giustamente. La luce è Cristo. Ma la Chiesa pure è necessaria. Senza la luna la notte buia resterebbe impenetrabile. Cristo, luce delle genti, ha detto “Voi siete la luce del mondo”. La Chiesa non è altro da Cristo, di cui è il corpo, altro dal regno, di cui è l’inizio. Si può anche dire che non è altro dal mondo? Sì e no. Preferisco pensare che la Chiesa è il mondo che si converte a Cristo. Per questo la Chiesa esiste in un duplice movimento di giudizio sul mondo (“Il principe di questo mondo è già condannato”), di contestazione dei suoi criteri, dei suoi obiettivi, dei suoi programmi (“Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo”) e in un movimento di salvezza, che mostra Cristo e la Chiesa come ciò a cui gli uomini aspirano dal profondo (“Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo”)».

«In duemila anni questo cammino si è articolato attorno a due esperienze, centrali nella vita di Gesù: la verginità e il martirio. Verginità e martirio vogliono dire un nuovo percorso di integrazione fra silenzio, studio, lettura, meditazione, lavoro e uso delle tecnologie. Rod Dreher negli ultimi due capitoli del suo libro offre delle riflessioni su sessualità e uso delle tecnologie, tentando di individuare delle strade per vivere l’eros in modo più umano e il rapporto con le macchine in modo più libero. Le sue riflessioni sono preziose e condivisibili. Ma queste tematiche, a motivo della loro estrema complessità, non possono che restare aperte, in attesa di ulteriori e sempre più precise considerazioni».

«Verginità e martirio sono la difesa della vita nascente dall’aborto, della vita fragile dall’eutanasia, la difesa del povero, di chi è dimenticato. La carità mostra la mostruosità delle ideologie e dell’economia quando è finalizzata all’arricchimento di pochi. Le nostre comunità cristiane, per custodire e vivere appieno la fede nel tempo in cui viviamo, necessitano di un’ossatura monastica, le cui coordinate fondamentali ho delineato sopra. Ossatura monastica non significa vita claustrale e distacco totale dal mondo circostante. 

Una comunità con ossatura monastica non è un luogo chiuso, che si ritira dal mondo. Se rifiuta alcune forme di vita mondana, lo fa proprio per una maggiore solidarietà e vicinanza agli uomini e alle donne di tutto il mondo. Se sceglie il silenzio, non è per disprezzo della parola, ma per farsi discepolo delle parole autentiche. Se sceglie la vita comune, è perché crede che abbiamo bisogno di sanare le nostre divisioni. Se sceglie una certa distanza, una certa verginità, dalla frenesia dei social e della chiacchiera di oggi, è perché vuole occuparsi di cose che non passano. Se sceglie la comunione dei beni, è perché sa che nulla ci è dato come nostro e tutto è per l’edificazione reciproca e per i poveri”.

Non dobbiamo chiuderci, ma aprirci con slancio missionario verso tutti, pur consapevoli del fatto che molto spesso tale slancio significa l’incontro con persone che non hanno fede o che addirittura combattono la Chiesa. Ma è indispensabile donarsi con quella libertà dall’esito e quel distacco che si chiama verginità, fino all’eventualità del martirio. Una fede che non contempla tra le sue possibilità anche quella del sacrificio supremo, com’è accaduto a Gesù, non è una fede matura».


L'OPZIONE BENEDETTO: PARTE PRIMA


INTERVENTO DI ROD DREHER , MILANO 17 SETTEMBRE

«Ho scritto questo libro pensando ai cristiani di destra americani convinti che il problema del cristianesimo oggi sia politico, che si debbano vincere le elezioni per salire al potere e difendere il cristianesimo: volevo spiegare loro che le cose non stanno così, che il problema è un altro», ha esordito Rod Dreher. «Il problema è che la famiglia naturale perde posizioni e l’ideologia gender cresce, e che noi non riusciamo a trasmettere la fede ai nostri figli: per affrontare questi problemi occorre mettere al primo posto Dio, e non la politica. Poi mi sono accorto che il mio messaggio poteva suscitare interesse anche fuori dagli Stati Uniti: infatti L’Opzione Benedetto è stata tradotta in 10 lingue».

«I giovani cristiani europei capiscono il messaggio dell’Opzione Benedetto perché qui in Europa il processo di secolarizzazione è più avanzato che negli Stati Uniti, ma anche negli Usa procede. 
La Chiesa sta attraversando la sua più grande crisi dai tempi della Riforma protestante e il mondo occidentale la sua più grande crisi dai tempi della caduta dell’Impero Romano. I tassi di fertilità sono crollati, i tassi di nuzialità pure: in pochi anni la percentuale di persone sposate nelle classi di età fra i 25 e i 54 anni è calata dal 51 al 19 per cento! 
L’immigrazione di massa, la crisi del liberalismo, la pervasività della tecnologia, la ristrutturazione del capitalismo, la crisi ambientale provocano instabilità. 
Cosa dobbiamo fare noi cristiani? 

A Roma, attorno all’anno 500, un giovane voltava le spalle alla città e si dirigeva verso le montagne. Si chiamava Benedetto da Norcia. Lì trascorse tre anni della sua vita in una grotta. Poi accettò di fare da guida ad altri monaci, fondò monasteri, scrisse la sua Regola. Questa non era destinata ai monaci, ma ai laici. 
La regola di san Benedetto è uno dei documenti più influenti della società occidentale, di fatto l’ha salvata. Benedetto non voleva salvare la civiltà, voleva poter cercare Dio, essere fedele a Lui e vivere in comunità dove si potesse insegnare a vivere la vita cristiana. Ma il risultato è stato anche la salvezza della civiltà».

«Benedetto è un esempio per noi oggi, come ha sottolineato Benedetto XVI quando ha detto che l’Occidente sta attraversando una crisi spirituale profonda. La gente è abituata a considerare l’Italia un paese molto religioso, il 70 per cento degli italiani si dichiara cattolico, ma solo il 13 per cento va regolarmente in chiesa; un recente studio di Franco Garelli ha appurato che solo nel 22 per cento dei casi le famiglie cristiane impegnate riescono a trasmettere ai loro figli la stessa intensità di impegno religioso. Questo assomiglia molto a un suicidio spirituale».

ABBAZIA DI SENANQUE, PROVENZA
«Noi cristiani di oggi ci troviamo nelle stesse condizioni di Benedetto 15 secoli fa: dobbiamo decidere se vogliamo Dio o il mondo. Troppo spesso i nostri leader ci dicono: “Rilassatevi, sorridete, va tutto bene: apritevi al mondo, siate moderni, siate al passo coi tempi!”. 

Ma la realtà è che sta arrivando un diluvio, e dobbiamo metterci al riparo. Di fronte al diluvio è tempo di un cambiamento radicale. Dobbiamo essere, come ha scritto Benedetto XVI, una minoranza creativa in un mondo ostile al cristianesimo, dove viviamo come degli esiliati. I cristiani sono chiamati a condurre una vita più monastica, se vogliono ritrovare la dimensione sacra della vita. Dobbiamo recuperare il senso dell’ordine delle cose non semplicemente seguendo alcune regole, ma ristabilendo il nostro rapporto con Dio

E per fare questo è necessario istituire forme di vita cristiana in comune, nessuno può sopravvivere da solo al diluvio. Per rifiutare la dittatura del relativismo ed educare alle tradizioni che hanno fatto grande la nostra civiltà è necessaria una forma di vita comunitaria. Non dobbiamo lasciarci assimilare dal mondo, anche se siamo chiamati a rendere la nostra testimonianza nel mondo e non possiamo vivere tutti in monasteri. Papa Francesco ha ragione quando dice che dobbiamo essere nel mondo, ma per essere nel mondo assolvendo la nostra vocazione dobbiamo poter dare qualcosa al mondo; e non possiamo dare ciò che non abbiamo più!».

«Ci sono già cattolici che stanno vivendo l’Opzione Benedetto, come la Compagnia dei tipi loschi di San Benedetto del Tronto. Non sono gente rabbiosa e impaurita, sono persone attive e gioiose, e pienamente controculturali. Mi diceva il loro leader, Marco Sermarini: “Non abbiamo inventato nulla, abbiamo riscoperto la tradizione che era chiusa a chiave dentro a una vecchia cassa”. Loro vivono nella grotta e nel mondo allo stesso tempo, dalla grotta tornano nel mondo per condividere i loro doni. Perché per salvare il mondo dobbiamo stare un po’ più tempo lontani dal mondo. 

Non si tratta di salvare solo la Chiesa, ma il mondo tutto intero. Ma non possiamo dare al mondo ciò che non abbiamo: abbiamo perso le nostre risorse spirituali e dobbiamo ritrovarle per poterle donare al mondo. Non si tratta di essere nostalgici, ma creativi. L’obiettivo è la santità, qualsiasi cosa meno di questo sfocerà nell’ateismo

Alasdair MacIntyre ha scritto che in questa crisi d’epoca “stiamo aspettando: non Godot, ma un altro san Benedetto, senza dubbio assai diverso”. Forse quel san Benedetto diverso siete voi, ognuno di voi che è seduto qui ad ascoltarmi».


venerdì 21 settembre 2018

UN PO' DI VERITÀ SU ROBERTO FORMIGONI.


Roberto Formigoni oggi è stato condannato a 7 anni e mezzo nel processo d’appello per il caso Maugeri. 
La sentenza d’appello gli ha inflitto il massimo della pena possibile per corruzione, aggravando la condanna di I grado. Il massimo della pena nonostante sia caduta l’accusa di associazione a delinquere e non sia stata riscontrata l’evidenza di una mazzetta. La condanna infatti si basa sul beneficio di utilità quali viaggi, vacanze, ospitalità su yacht ecc. E sul presupposto che delibere regionali (che certo Formigoni non può aver fatto ed approvato da solo) fossero orientate esclusivamente ad ottenere quei benefici. È un po’ difficile da comprendere e lascia senza parole. (...) 

Roberto Formigoni non è un corrotto perché negli
  anni in cui gli sono stato vicino, ho visto come lavorava, che cosa aveva a cuore, la passione che ci metteva, l’impegno senza risparmiarsi, la tensione continua a costruire, insieme alla sua squadra, soluzioni utili al bene comune e al benessere di tutti. Persino le cazziate che ho ricevuto per ciò che non era all’altezza delle sue aspettative me lo confermano!
Ambrogio Lorenzetti: il buon governo, particolare
Un corrotto non desidera costruire il bene comune, ma solo il proprio interesse personale. Ama il disimpegno, la vita comoda, non si danna l’anima per cercare di governare nel modo migliore una regione di dieci milioni di abitanti. Non si spende dalla mattina presto a notte per metter in piedi un sistema sanitario, formativo, di welfare, di infrastrutture, in grado di competere con le regioni più avanzate del mondo e soprattutto di trasformare un’idea culturale e valoriale come la sussidiarietà in un modello di governo funzionale ed efficiente, anche in termini di costi.
Un modello di governo che in gran parte resiste ancora oggi in Lombardia e continua a produrre frutti positivi per tutti i lombardi. Una sanità all’avanguardia che consente a tutti di accedere a carico del sistema sanitario regionale a ospedali e strutture pubbliche e private; una rete di servizi sociali, basati sull’idea di welfare community, per gli anziani, i minori, i disabili, le dipendenze, i drop out, insomma i più fragili e gli ultimi che le altre regioni ci invidiano e che è stato studiato in tutto il mondo; un sistema formativo con soluzioni innovative come il modello di accreditamento e il sistema dotale, il buono scuola, ecc. Politiche per il lavoro e per le imprese aperte alla collaborazione tra pubblico e privato che hanno portato a risultati formidabili nel sostegno a chi cerca lavoro, alle nostre piccole e medie imprese, agli artigiani, ai commercianti, agli agricoltori. (...)
Per fortuna le opere di Formigoni sono sopravvissute a questo tentativo di distruzione, persino di damnatio memorie e sono lì, visibili a tutti, per coloro che vogliono vedere.
So bene che tanti non apprezzeranno questa mia difesa. Ma è semplicemente il racconto di ciò che ho vissuto e a cui ho partecipato di persona. Formigoni non è un santo asceta: amava il bello, il lusso e le belle vacanze. Forse in questo avrà persino ecceduto. Come ho sempre pensato eccedesse in certe sue scelte estetiche nel vestire... Ma non è mai stato un uomo avido, attaccato al denaro, insensibile alle sue responsabilità e preoccupato solo di sè. Insomma non è mai stato un corrotto. Anzi ha sempre cercato di rendere concreta la sua vocazione cristiana in un campo difficile come quello della politica. Sbagliando certo, ma con una tensione al bene mai doma.

Per queste ragioni sono profondamente dispiaciuto dell’esito della sentenza odierna, che certamente speravo diversa, e del giudizio che inevitabilmente ne deriverà nell’opinione pubblica sulla sua persona e sul suo lavoro di politico e di amministratore.
Proprio per questo però non voglio che manchi anche pubblicamente il racconto e il giudizio di chi come me ha avuto la fortuna di conoscerlo e di stargli vicino. L’evidenza di questa esperienza è per me più forte, con tutto il rispetto dovuto, di qualunque giudizio emerso in un tribunale. Coraggio Roberto: il tempo è galantuomo e la verità alla lunga vince sempre!

RAFFAELE CATTANEO
Il Crocevia condivide l'intervento di Cattaneo, uno dei collaboratori di Formigoni.


giovedì 20 settembre 2018

LA POESIA DEL VANGELO - Franco Casadei

 
Letture di autore su fatti e personaggi del vangelo a cura di Franco Casadei, medico, poeta e scrittore.


L'evento si è svolto a Gatteo (FC), presso la Chiesa di San Lorenzo Martire, giovedì 13 settembre 2018 in occasione della festa parrocchiale della Madonna del Popolo.

venerdì 14 settembre 2018

LA GENTE SI CHIEDEVA: MA CHI SONO?


LA NUOVA EUROPA

25 agosto 1968, piazza Rossa, otto protestano contro i carri armati a Praga. L’invasione ha spezzato le speranze di cambiamento e la voglia di lottare. Ma davanti all’apatia generale, il loro gesto affermava che è la persona a rendere lecita la speranza.

«Adesso abbiamo per lo meno sette* motivi
per non nutrire odio verso i russi»
(giornale ceco Literární Listy, 1968)

25 agosto 1968, Mosca, piazza Rossa, mezzogiorno.
Konstantin Babickij, Tat’jana Baeva, Larisa Bogoraz, Natal’ja Gorbanevskaja, Vadim Delone, Vladimir Dremljuga, Pavel Litvinov, Viktor Fajnberg alle 12 precise hanno spiegato dei cartelli con delle scritte: «Perdiamo gli amici migliori», «Viva la Cecoslovacchia libera e indipendente!», «Occupanti, vergogna!», «Giù le mani dalla Repubblica cecoslovacca!», «Per la vostra e la nostra libertà!», «Dubček libero!».


Tat’jana Baeva ricorda: «Le 12. Mezzogiorno. Ci siamo seduti… All’inizio, per 3-5 minuti solo i passanti ci stanno attorno, sconcertati. Nataša col braccio disteso sventola una bandierina cecoslovacca. Parla di libertà, della Cecoslovacchia. La folla è muta. D’un tratto un fischio e dalla parte del Mausoleo accorrono sei o sette uomini in borghese; mi sembrano tutti alti, fra i 26 e i 30 anni. Ci aggrediscono gridando: “Si sono venduti per i dollari!”. Strappano i cartelli, e dopo un minuto di imbarazzo, anche la bandierina. Uno di loro grida: “Dagli all’ebreo!” e si mette a picchiare Fajnberg sul volto, con i piedi. Konstantin cerca di proteggerlo col proprio corpo. Si vede del sangue. Io sobbalzo per lo spavento. Un altro colpisce Pavel con la borsa. La gente guarda con approvazione, solo una donna esclama: “Ma perché picchiarli?!”».

Le ultime parole di Larisa Bogoraz al processo, 11 ottobre 1968
«Nella mia ultima parola non ho la possibilità, qui ed ora, né l’intenzione di argomentare la mia posizione sulla questione cecoslovacca. Vorrei parlare solo delle motivazioni personali del mio gesto. Perché io “non essendo d’accordo con la decisione del Partito e del governo sovietico di mandare le truppe nella Repubblica cecoslovacca”, non mi sono limitata a consegnare una dichiarazione scritta al mio Istituto, ma sono andata sulla piazza Rossa?

(…) Il mio non è stato un gesto impulsivo. Ho agito consapevolmente, rendendomi perfettamente conto delle conseguenze. Io amo la vita e apprezzo la libertà, e capivo bene di rischiare la libertà, e non avrei voluto perderla. Non penso di essere un’attivista civile; la vita pubblica non è assolutamente l’aspetto più importante e più interessante della mia vita. Tanto meno la politica. Per decidere di partecipare alla dimostrazione ho dovuto superare la mia inerzia, la mia avversione per le azioni pubbliche.

Avrei preferito fare in altro modo. Avrei preferito sostenere persone famose per la loro professione o la loro posizione pubblica, che la pensassero come me. Avrei preferito unire la mia voce ignota alla loro protesta. Ma nel nostro paese non si sono trovate figure del genere. E ciò nonostante, le mie opinioni non sono cambiate per questo.

Così mi sono trovata davanti a una scelta: protestare o tacere. 
Per me tacere significava associarmi a chi approva azioni che disapprovo. Tacere significava mentire. Non penso che il mio modo d’agire sia l’unico giusto, ma per me era l’unica decisione possibile. Non mi bastava sapere che non avevo votato “a favore”, per me era importante il fatto che sarebbe mancata la mia voce “contro”. Sono stati proprio i meeting, la radio e la stampa che esprimevano il sostegno generale a farmi dire: no, io sono contro; non sono d’accordo. Se non avessi fatto quello che ho fatto, mi sarei sentita responsabile delle azioni del governo, proprio allo stesso modo in cui tutti i cittadini adulti del nostro paese portano la responsabilità degli atti del nostro governo; allo stesso modo in cui tutto il nostro popolo porta la responsabilità dei lager di Stalin e Berija, delle condanne a morte [viene interrotta ndt].

E poi facevo un’altra considerazione contro il fatto di andare alla dimostrazione, ed era il pensiero che l’azione non avrebbe avuto alcuna utilità pratica. Ma alla fine ho deciso che non era questione di utilità, il punto era la mia responsabilità personale. 

giovedì 13 settembre 2018

SCUOLA: L'INIZIO È UNO SGUARDO NUOVO, NON UNA MORALE (O UNA TECNICA)


Occorre iniziare l'anno prendendo sul serio la percezione di una mancanza, il "buco", frutto della mentalità contemporanea, di cui parlava Foster Wallace.


GIANNI MEREGHETTI 13 SETTEMBRE 2018 

Sarebbe interessante iniziare il nuovo anno scolastico da queste osservazioni di David Foster Wallace: "Secondo me il motivo per cui la gente si comporta male è che fa veramente paura stare al mondo ed essere umani, e siamo tutti, tanto spaventati (…) la paura è la condizione di base, e ci sono motivi di tutti i tipi per essere spaventati. Ma il punto (…) è che il nostro compito qui è di imparare a vivere in modo tale da non essere costantemente terrorizzati. E non nella posizione di voler usare qualunque strumento, di usare le persone per tenere lontano quel tipo di terrore (…) Per quanto mi riguarda il volto che do a quel terrore è la nascente consapevolezza che nulla è mai abbastanza, mi spiego? Che il piacere non è mai abbastanza, che ogni traguardo raggiunto non è mai abbastanza. Che c'è una sorta di strana insoddisfazione, di vuoto, al cuore del proprio essere, che non si può colmare con qualcosa di esterno (…) e la sfida che ci si prospetta, in particolare, sta nel fatto che non c'è mai stata così tanta roba, e di qualità alta, proveniente dall'esterno, che sembra tappare provvisoriamente quel buco, o nasconderlo". (David Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, 2010)
E' il "buco" che tutti gli studenti e tutti gli insegnanti sentono quando dopo le vacanze con il ritorno a scuola vi è l'impatto con la realtà del nuovo anno scolastico. Un buco che chiude alla realtà, che aspetta di adattarsi e quindi di scomparire oppure un buco che sfida a guardare a ciò che inizia, che provoca ad un nuovo inizio.
Don Luigi Giussani a Viterbo nel 1977 parlava di una provocazione alla vita che permane; in questo identificava il nuovo inizio, sottolineando la provocazione alla vita e non all'intelligenza o all'esigenza di una nuova morale. Dopo quarant'anni quella provocazione alla vita è ancor più forte, perché deve reggere a quanto è accaduto in tutto questo tempo, al crollo di tutte le certezze e alla sfiducia che ne è conseguita, per cui il vuoto che si sente non è il trampolino di lancio verso un'avventura nuova, ma la caduta libera nello scetticismo che pervade ogni ambito.
Forster Wallace ha ben identificato il punto di rottura della mentalità contemporanea, il diventar evidente che nulla ci basta; neanche le vacanze sono state sufficienti per rispondere al desiderio di essere felici. Neanche l'intelligenza della condizione in cui siamo però ci basta: andare a scuola con quel buco in noi porta a guardare alla realtà con un'attesa nuova. Chissà che Forster Wallace questa volta si sia sbagliato a non aver fiducia in qualcosa di esterno, a non lasciare aperta questa possibilità, che tra i volti noti, tra le procedure conosciute accada qualcosa di non immaginato, ma di così umano da farci prendere sul serio questa mancanza che portiamo in noi, fino a vivere la scuola come provocazione, mossa esistenziale. 
Un anno è nuovo perché l'umano viene affrontato di petto, riportando tutti — studenti e professori — alla posizione originaria, quella che la cultura ha stravolto. E la posizione originaria non è la paura, ma la meraviglia.


lunedì 3 settembre 2018

CI SI PURIFICA SE SI VIVE L'ANNUNZIO


La situazione è oggettivamente di scandalo, ma una Chiesa che si esaurisce nell'analisi dei suoi mali è una Chiesa che tradisce il suo compito, che è quello di annunziare Cristo come significato della vita. Lo scandalo degli scandali è che la Chiesa non parla più di Gesù Cristo.

Non si può negare che ci sia una situazione di vero scandalo, nel senso che la manifestazione dell’immoralità è diventata così ovvia e naturale, che il popolo vive una situazione permanente di scandalo. Ed è come se la Chiesa fosse tutta concentrata a parlare di questi scandali, a cercare di chiarirli, di dettagliare. C’è un incredibile dettaglio del male che porta però a una reale alterazione della situazione della Chiesa. Gli scandali della pedofilia, della immoralità del clero, dell’evidentissima presenza nel tessuto della Chiesa di forme di pressione omosessuale sono davanti agli occhi di tutti; però lo scandalo degli scandali è che la Chiesa non parla più di Gesù Cristo.
La Chiesa finisce per ridursi a formulare una serie di interventi corretti politicamente, in cui è evidente che non si propone più l’immagine di Gesù Cristo, non si pone più quella presenza inquietante e insieme confortante che la Chiesa deve vivere e comunicare agli uomini di ogni generazione.
Il sospetto è che questa attenzione spropositata a situazioni certamente gravi dal punto di vista morale, finiscano per impedire alla Chiesa di tenere fermo il punto. Quale è il punto su cui la Chiesa deve tenere ferma la sua presenza? Che ci sono questi scandali terribili oppure che nonostante tutti questi limiti c’è la presenza di Cristo che salva l’uomo, che riempie la vita dell’uomo di un significato vero e profondo, che apre davanti ad ogni uomo quel sentiero buono della vita di cui parlava in modo indimenticabile papa Benedetto XVI?
Se la Chiesa si esaurisce nell’analisi dei suoi mali, o di certi suoi mali, di fronte al male resta sgomenta, perché il male sembra invincibile. Non è una Chiesa che rinnova ogni giorno ad ogni uomo l’esperienza dell’annunzio, che il Signore è risorto ed è con noi, che la vita umana non è perduta, non è neanche spezzata, non è neanche inutile: la vita umana acquista il suo senso profondo, il suo significato profondo per la presenza di Cristo e dalla presenza di Cristo.
Forse è anche inutile fare confronti fra le situazioni di crisi di oggi e di altri momenti della Chiesa. Non credo ci sia stato un momento della storia in cui la Chiesa non abbia sofferto anche gravemente per le incoerenze di chi doveva tenere alta la barra della fede e dell’amore a Cristo.
Oggi è evidente che quanto più il tempo passa e quanto più ci si impegna in questa dialettica senza fine sulla natura degli errori, sul peso degli errori, sulle radici degli errori morali, tanto meno si tiene ferma l’unica cosa che deve essere tenuta ferma, dentro la Chiesa e nel rapporto tra la Chiesa e il mondo: che Cristo è il redentore dell’uomo e del mondo, centro del cosmo e della storia. E che quindi nessuna condizione, nessuna situazione che si provochi all’interno della Chiesa per l’immoralità dei suoi aderenti o che invece proceda dal mondo verso il cuore della Chiesa con la forza terribile del demonio, può scuotere la serena certezza che «se Cristo è con noi chi può essere contro di noi?».
Vorremmo che soprattutto le autorità della Chiesa si rendessero conto che il popolo si aspetta che si rinnovi l’annunzio di Cristo, che si rinnovi all’uomo la grande certezza che la vita è buona, perché nasce da Dio, nasce dal mistero di Cristo, ci viene donata in virtù della sua presenza e della sua grazia. Si sperimenta come vita nuova, come modo nuovo di essere, di agire, di vivere, di lottare, di soffrire, di morire. E questa vita nuova, che rende ogni giorno nuova l’esistenza, non deve essere trattenuta con qualche forma di neghittosità nello spazio della coscienza privata, dei singoli o delle comunità, ma deve essere annunciata con forza ad ogni uomo di questo mondo, perché soltanto nell’incontro con Cristo l’uomo di questo mondo può trovare il senso profondo della sua esistenza.
Tutto il tempo che si dedica all’analisi degli errori interni alla Chiesa è tempo tolto alla fede, è tempo tolto all’amore personale al Signore, è tempo tolto a quella esperienza di verità, di bellezza, di bene, che rende più faticosa e insieme più lieta l’esistenza. «Il mio cuore è lieto perché Dio vive»: solo la Chiesa può dare questa letizia. Se si sottrae a questo compito di proporre agli uomini quella letizia che il cuore dell’uomo desidera, la Chiesa non compie un peccato particolare, compie il peccato di Giuda, «meglio per te che non fossi neanche nato».
Non si tratta di far finta che nulla sia successo o minimizzare la portata di certe situazioni, ma tutto va vissuto alla luce del compito che ci è stato dato, tutto va vissuto in funzione di una ripresa. Tutto va tradotto in termini di coscienza nuova, altrimenti è un tempo perduto.
È un tempo perduto perché non ci è chiesta immediatamente la purificazione di noi stessi, che si operi magari come esito della nostra capacità morale. Ci è chiesto l’annunzio, ed è l’annunzio che ci purifica. Non c’è una purificazione morale previa dopo della quale comincia l’annunzio. Se si vive l’annunzio ci si purifica, come ci ha insegnato Paul Claudel in modo indimenticabile in alcuni grandi personaggi di quel documento della genialità cristiana che è “l’Annunzio a Maria”.

Luigi NEGRI  Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio

sabato 1 settembre 2018

LA “DOTTRINA”OMOSESSUALE



Osservazioni in margine allo scandalo sollevato dal nunzio Viganò.
La “dottrina” omosessuale e la richiesta di dimissioni.

Beninteso, siamo tutti peccatori. Lo siamo noi laici e lo sono anche i sacerdoti, tanto è vero che il sacramento della Riconciliazione è stato istituito per la nostra e per la loro salvezza. Il sacerdote in stato di peccato, anche mortale, non smarrisce per questo la facoltà di somministrare i sacramenti, la cui efficacia è «ex opere operato» e non «ex opere operantis», cioè non dipende dalla santità del ministro (Catechismo della Chiesa cattolica 1127 – 1128).
Non ci siamo mai scandalizzati troppo, pertanto, di fronte alle varie notizie di cronaca indugianti su scandali sessuali i quali coinvolgevano questo o quel prete. Di più: siamo convinti che molti di questi scandali vengano enfatizzati ad arte per gettare fango sull’intero ordine. Di più ancora: i sacerdoti incontrati nella nostra vita erano tutte persone dalla vita proba.

Però la questione della cosiddetta lobby gay nella Chiesa, ricollocata sotto i riflettori dal documento di monsignor Viganò pubblicato sulla Verità, in cui il presule arriva ad invitare alle dimissioni papa Francesco per aver “coperto” il cardinale americano McCarrick dedito a rapporti coi seminaristi, presenta dei profili per cui non si può, e neppure si deve, fare a meno di porsi degli interrogativi.


Lettera a Tempi di Alfonso Indelicato, consigliere comunale eletto a Saronno


"Una prima questione è la seguente: se è vero che la presenza di preti omosessuali nella Chiesa è così numerosa, ramificata e compatta come si evince dalla lettura del documento, non si deve ragionevolmente ipotizzare un difetto di origine, per chiamarlo così, nei seminari? Alcuni anni fa papa Benedetto aveva approvato la raccomandazione di non ammettervi persone con «radicate tendenze omosessuali» o sostenitrici «della cosiddetta cultura gay». È lecito domandarsi se essa sia stata accolta, tanto più che papa Ratzinger ha dato sovente l’impressione di essere simile a un capitano alla testa di un esercito a volte riottoso, e in taluni reparti addirittura infido o disubbidiente. Il subentrante Pontefice, che gode di un maggiore appeal, si è mosso sostanzialmente sulla stessa linea, ma a dar retta al documento di monsignor Viganò i risultati sono stati i medesimi del Papa tedesco, cioè scarsi.

Ma l’autentico punctum dolens, l’aspetto veramente allarmante della questione, è a nostro avviso un altro. Se questa lobby gay sussiste, e se è davvero numerosa ramificata e compatta come appare dal documento pubblicato sulla Verità, è assai improbabile che essa si accontenti di collocare i propri membri nei luoghi del potere ecclesiastico, insomma di garantirne la carriera e difenderli dagli attacchi. È invece verosimile che essa cerchi di manipolare la dottrina in direzione dei propri interessi. Che insomma cerchi di delineare dei margini di “discernimento” (oggi vera parola-passpartout) e di tolleranza tali da sostanzialmente sdoganare quello che illo tempore era il «peccato abominevole davanti a Dio».

Tutto quello che possiamo osservare, in proposito, è che segnali in questo senso ci sono. Fra gli altri non si possono non citare le posizioni del gesuita James Martin, aperto sostenitore del mondo lgbt e incomprensibilmente autorizzato da papa Francesco quale relatore all’incontro Mondiale delle famiglie appena celebrato. È solo un esempio tra i tanti possibili, e ci esentiamo dal proporne altri. Il pericolo, dunque, non è tanto che qualche sacerdote ceda alla tentazione «oggettivamente disordinata», ma che si ufficializzi il messaggio che la pratica dell’omosessualità è cosa possibile, accettabile, perfino buona. La Chiesa può ammettere il peccato nel mondo come dentro di sé, ma deve saperlo chiamare con il suo nome."

Gentile Alfonso,
c’è qualcosa che non mi convince in tutta questa storia delle accuse di monsignor Carlo Maria Viganò che è arrivato a chiedere le dimissioni di papa Francesco. Cerco di mettere in ordine un po’ di pensieri dando per scontati gli elementi di cronaca che il lettore potrà facilmente desumere con una semplice ricerca su internet. In attesa di particolari ulteriori che confermino o smentiscano la veridicità delle accuse di Viganò, ci sono almeno due osservazioni da fare.

Osservazione numero uno: gli omosessuali. La lunga lettera di Viganò mette in rilievo come sia all’interno della curia romana sia nei seminari il problema dell’omosessualità sia rilevante e diffuso. Nei confronti di persone con tendenze omosessuali la Chiesa ha sempre avuto una posizione netta. Chiaro rifiuto di una sessualità disordinata, ma accoglienza per la persona, che alle sue tendenze affettive non può essere ridotta né condannata. Lei ricorda giustamente la raccomandazione di papa Ratzinger, che mi pare sacrosanta. Che a padre James Martin sia persino concesso il palcoscenico della Giornata della famiglia, bé, è semplicemente scandaloso. Che c’entra l’agenda lgbt col Vangelo?

Non vediamo complotti dove non ci sono e siamo sempre cauti a giungere a conclusioni affrettate, ma che la Chiesa non possa accettare di essere condotta da vescovi, cardinali o sacerdoti che abbracciano l’omosessualità come linea ideologica, pare il minimo. Attenzione, ribadiamo: il problema non è se queste persone “sono” omosessuali, il problema è se la loro omosessualità diventa dottrina e si sostituisce al magistero.

Osservazione numero due: la richiesta di dimissioni. (…)

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Emanuele Boffi
Agosto 28, 2018 TEMPI
FOTO ANSA

I CRISTIANI DEVONO LOTTARE PER RESTARE IN IRAQ. QUESTO È IL NOSTRO COMPITO




Intervista a don Georges Jahola, che coordina la ricostruzione di Qaraqosh dopo la cacciata dei jihadisti dell’Isis: «Dobbiamo essere pronti anche a una nuova persecuzione»



«Che cosa troverò quando tornerò a casa? In quanti rientreranno dopo essere fuggiti dall’Iraq? Quante perdite subiremo in questa guerra?». Sono queste le domande che don Georges Jahola, originario di Qaraqosh, si faceva nell’agosto di quattro anni fa, quando lo Stato islamico invase i villaggi cristiani della Piana di Ninive obbligando 12o mila persone a scappare portando con sé solo i vestiti indossati al momento della fuga. 
Dal 2003, su 1,5 milioni di cristiani, oltre un milione ha abbandonato il paese a causa della guerra e delle discriminazioni e l’Isis non ha fatto che dare il colpo di grazia a un trend iniziato con l’invasione americana. Oggi i cristiani sono meno di 250 mila. Da quando i jihadisti sono stati sconfitti e la Piana di Ninive liberata, a fine 2016, i cristiani iracheni si sono rimboccati le maniche e hanno cominciato a rimettere pietra su pietra. 
«Chi si è stabilito all’estero, fa fatica a tornare indietro», dichiara a tempi.it don Georges, che venerdì parlerà al Meeting della ricostruzione di Qaraqosh, i cui lavori sono presieduti proprio dal sacerdote. «Dal punto di vista politico non è cambiato niente in Iraq. E senza la prospettiva di una vita migliore, nessuno si arrischia a rientrare. Per i musulmani è diverso: per loro non è un problema riprendere possesso delle loro case».


A che punto è la ricostruzione?
Migliaia di famiglie sono tornate, stabilendosi nelle case ricostruite o messe in sicurezza o in quelle di chi è fuggito all’estero e ha dato il permesso di usarle. A Qaraqosh, che costituisce circa il 60% della Piana di Ninive, la ricostruzione è al 35%, in altri villaggi siamo al 55% o al 60%. Ma il lavoro da fare è ancora enorme: ci sono così tante case bruciate o distrutte.
Quando prevedete che finiranno i lavori?
Dipende dai fondi. Niente è stato ricostruito per merito del governo, che non ci ha dato un soldo. Ha fatto tante promesse e poi non ci è arrivato nulla come risarcimento. Così i cristiani soffrono due volte.
Perché?
Per l’inefficienza dello Stato, come tutti gli altri iracheni, e per la discriminazione come minoranza. La mentalità del paese non è cambiata, noi vogliamo essere protetti dalla Costituzione ma ci sono ancora molti musulmani che appoggiati dai funzionari cercano di acquistare le nostre case e i nostri terreni.
L’invasione dell’Isis ha cambiato il rapporto tra cristiani e musulmani?
Sì, ma direi che il rapporto è comunque buono, specie in alcuni luoghi, come a Mosul, dove anche i musulmani hanno sofferto per mano dei jihadisti. Ovviamente gli estremisti rimangono e dobbiamo stare attenti, ma convivere è l’unico modo per rimanere in questa terra.
Che cosa serve ai cristiani per continuare a vivere in Iraq?
Soprattutto la pazienza, perché sono sicuro che se restiamo in questo momento di difficoltà il futuro sarà diverso, e poi la capacità di lottare. Noi dobbiamo lottare per restare qui, per la sopravvivenza. Il nostro compito è testimoniare Cristo in questa terra, non all’estero dove scompariremmo. Qui possiamo portare frutto e io vedo già che molti musulmani si fanno delle domande: perché i cristiani, al contrario nostro, sono pacifici? Solo qui possiamo piantare il seme della pace e di Cristo nel loro cuore.
E se l’Isis o chi per loro tornasse?
La fede è tutto per noi e bisogna mettere in conto anche la persecuzione.
Chi vi ha aiutato di più a ripartire?
Soprattutto Aiuto alla Chiesa che soffre attraverso i fondi raccolti tra i cristiani comuni.
E la Chiesa?
Se devo dire la verità ci aspettavamo di più dai vertici.
Siete contenti per l’elezione a cardinale del patriarca Sako?
Non so perché hanno scelto di farlo cardinale. Da patriarca aveva già un ruolo fondamentale all’interno della Chiesa.
L’Occidente e l’Europa invece hanno fatto qualcosa per voi?
Promesse tante, concretamente niente. Soprattutto è inutile che diano soldi al governo, perché poi di quei fondi a noi non arriva nulla.
I giornali scrivono di nuovi attacchi e di un possibile ritorno dell’Isis. Siete preoccupati?
La stagione dell’Isis è finita definitivamente. Restano molti gruppi armati, politici e militari che si fanno la guerra, come prima. La soluzione può essere solo il disarmo di questi gruppi.



Agosto 22, 2018 Leone Grotti TEMPI