mercoledì 10 luglio 2024

IL FRONTISMO

LA SINISTRA RESTA IN VITA SOLO PER NON FAR GOVERNARE LE DESTRE

Quello francese è un caso eclatante della tattica sistematica di escogitare qualsiasi marchingegno pur di tenere le destre fuori dalle "stanze dei bottoni". Ma non è l'unico. In Europa socialisti e liberali “blindano” la vecchia “maggioranza Ursula” ignorando il verdetto delle urne.

EUGENIO CAPOZZI *

Il secondo turno delle recenti elezioni legislative francesi ha offerto lo spettacolo più emblematico del ritorno, nelle sinistre, dello schema "frontista": la temeraria sommatoria delle forze più disparate e contraddittorie motivata dalla proclamata priorità di impedire la vittoria  di schieramenti di destra demonizzati come "fascisti", antidemocratici, pericolosi.

Emanuel Macron e Charles Michel

Il partito Ensemble del presidente Emmanuel Macron e le sinistre del NFP (a loro volta accozzaglia dei gruppi più diversi, dai socialisti riformisti agli ecologisti più fanatici, a comunisti e gauchisti dalle tendenze filoislamiche e talvolta antisemite) hanno stipulato sistematici accordi di desistenza nei collegi per impedire la vittoria dei candidati del Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella - partito che aveva conseguito nettamente la maggioranza relativa - sfruttando i trabocchetti offerti da un sistema elettorale già molto infido come il maggioritario a doppio turno ad accesso con la soglia limitata del 10% dei voti. Il tutto senza uno straccio di minimo comune denominatore politico o di accordo programmatico, in uno spirito puramente distruttivo ed ostruzionista, appellandosi soltanto alla paura degli elettori. 

Lo scopo di non far governare la destra, come è noto, è stato raggiunto, ma ad un prezzo spropositato, che in una democrazia correttamente funzionante non dovrebbe essere mai contemplato: il più totale caos politico, una frammentazione incomponibile, una sostanziale ingovernabilità, e per giunta l'amplissima agibilità politica offerta a una minoranza estremista di sinistra molto più "antisistema" (anti-occidentale, anti-mercato, filo-dittatoriale) di quanto sia la destra che i macroniani hanno additato come spauracchio. Un prezzo che il presidente ha scelto scientemente, cinicamente di far pagare al suo paese, contando proprio sulla divisione e sull'instabilità post-elettorale per conseguire lo scopo di restare arbitro del potere, usando con spregiudicatezza ogni artificio che la sua carica gli consentirà. Tattica già evidente dalle sue prime mosse successive alla seconda tornata, come il rifiuto di far dimettere il premier Jacques Attali per decantare la situazione, sfruttare le divisioni tra le forze politiche e tentare di imporre di nuovo un capo del governo a lui gradito. 

Quello francese è un caso particolarmente eclatante della tattica sistematica di escogitare qualsiasi marchingegno pur di tenere le destre fuori dalle "stanze dei bottoni". Ma non è certo l'unico.

Giorgia Meloni, Presidente ECR
A livello dell'Unione europea, abbiamo recentemente assistito – e anzi stiamo ancora assistendo – al tentativo da parte del gruppo socialista e liberale (per lo più macroniano, guarda caso), sconfitti alle elezioni europee, di “blindare” la vecchia “maggioranza Ursula” con una parte del gruppo dei Popolari, ignorando il verdetto delle urne che hanno nettamente premiato le forze della destra sovranista e bocciato le politiche dirigiste della Commissione uscente: senza curarsi della possibile paralisi delle istituzioni comunitarie e del concreto rischio di una spaccatura sempre più profonda tra le classi dirigenti Ue e le società civili del vecchio continente. Anche qui, nessun ragionamento propriamente politico, nessuna argomentazione su contenuti programmatici: soltanto la conventio ad
excludendum
 verso qualsiasi gruppo politico facente capo ai conservatori di Ecr
o a Identità e democrazia (oggi in via di trasformazione e ampliamento in Patrioti per l'Europa), trattati come degli appestati da isolare a prescindere. Nonostante il fatto evidente che molti esponenti di quelle destre – da Giorga Meloni e Matteo Salvini al Pis polacco, a Geert Wilders, allo stesso tanto demonizzato Orbán – siano da anni tra le classi di governo nei loro paesi, e, che piacciano o meno, non risulta ci sia stata nessuna apocalisse né a livello nazionale né delle istituzioni dell'Unione.

Negli Stati Uniti, da quando Donald Trump è comparso sulla scena politica praticamente l'unica argomentazione del Partito democratico e degli opinion leader progressisti è stata quella di additare il fulvo tycoon newyorkese come un mostro, accusandolo di ogni nefandezza possibile e facendo della contrapposizione a lui l'unico tratto comune tra le varie anime di una sinistra assolutamente eterogenea e divisa su tutto, dalla politica estera a quella ambientale a quella economica.

E quando – dopo che i Dem pensavano di essersene liberati con l'elezione di Biden e con la raffica di inchieste giudiziarie su di lui – Trump ha riconquistato la sua centralità politica, il consenso e la nomination repubblicana, e ha cominciato a profilarsi con sempre maggiore evidenza la possibilità concreta che nelle prossime elezioni egli sconfigga un presidente uscente sempre più in affanno politico e psicofisico, allora improvvisamente media e classe politica progressista si sono “accorti” delle condizioni di salute a dir poco precarie di Biden. E una parte di quell'establishment è uscita allo scoperto, progettando manovre per sostituirlo in corsa e “incoronare” un nuovo candidato: magari imposto dall'alto senza tener conto dell'opinione degli elettori delle primarie né delle procedure, pur di tentare un ultimo colpo di mano per sbarrare la strada al ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Il Fronte popolare italiano per fermare i barbari
Genova Luglio 2024
Anche in Italia, da quando il centrodestra guidato da Giorgia Meloni ha vinto le elezioni nel 2022, interrompendo una lunga sequenza di governi tecnici o di minoranza controllati quasi sempre dal Partito democratico, la tendenza della sinistra promuovere un'”unione sacra” motivata solo dalla delegittimazine della destra al governo si è andata radicando e cronicizzando. Invece di cercare una piattaforma programmatica in grado di catalizzare il consenso degli elettori, il Pd di Elly Schlein e i suoi onnipresenti intellettuali e anchormen/women di riferimento non hanno fatto altro che evocare ossessivamente un ipotetico, lunare pericolo fascismo, cercando di coagulare intorno al loro “al lupo, al lupo” un nuovo “campo largo”, anzi larghissimo, in cui sono risucchiati senza molta voglia anche i 5 Stelle, imperniato solo sulla solita chiamata alle armi per fermare i “barbari” e privo di qualsiasi coerenza.

Questa attitudine puramente negativa e ostruzionistica alla dialettica  politica sottopone oggi molte democrazie europee e occidentali a uno stress continuo che logora i loro elementi di stabilità e di effettiva garanzia, indebolisce le istituzioni e crea una contrapposizione costantemente “avvelenata”. Inserendosi pienamente in quella tendenza a trasformare la democrazia in governo perennemente “emergenziale” e “tecnico” - fondato sulla paura, il moralismo e il ricatto morale - che si è manifestata più volte nel recente passato: dall'allarme pandemico a quello dell'ambientalismo apocalittico, fino alla costante mobilitazione bellicista contro spauracchi esterni utilizzati, molto prosaicamente, come sostituti del consenso per classi politiche del tutto screditate.

 EUGENIO CAPOZZI tratto da LanuovaBussola

* Eugenio Capozzi è professore ordinario di storia contemporanea presso l'Università degli Studi Suor orsola Benincasa di Napoli. E' condirettore della rivista "Ventunesimo Secolo" e redattore della rivista "Ricerche di Storia politica". Fa parte del consiglio scientifico della casa editrice Studium. 


martedì 9 luglio 2024

IL PAPA ALLA 50.MA SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI ITALIANI

Nelle parole del Papa ritroviamo l'invito a riscoprire la Dottrina Sociale Cristiana e a insegnarla in particolare alle giovani generazioni

DON GABRIELE MANGIAROTTI

Riprendo Alcune osservazioni del Papa nel suo intervento conclusivo: ecco la sfida contenuta nelle sue parole.

1.    Parliamo «di una Chiesa sensibile alle trasformazioni della società e protesa a contribuire al bene comune». In questo contesto di cambiamento (ove molti parlano di «cambiamento d’epoca») la Chiesa, e quindi tutti i cristiani, hanno una responsabilità inequivocabile. La Lettera a Diogneto parla di un compito cui non ci si può sottrarre, pena il vivere da “disertori”.

Papa Francesco :"la democrazia non gode buona salute

2.    «Oggi la democrazia … non gode di buona salute»: e sono tante le cause, dalla crisi della educazione all’invasione dei social che, come spesso raccontato, stravolgono la mentalità comune. Ma non possiamo dimenticare, credo, la crisi della stessa famiglia, come esperienza e come concezione, che perde la sua caratteristica di «principium urbis et quasi seminarium rei publicae» come ricordava Cicerone.

3.    «L’atteggiamento della responsabilità nei confronti delle trasformazioni sociali è una chiamata rivolta a tutti i cristiani»: quante volte abbiamo sentito dire, anche da persone vicine nella fede, che non appartiene alla fede la responsabilità pubblica nei confronti della vita sociale, richiudendosi in una forma di intimismo che rifugge da quelle «battaglie» (mi pare che il Papa abbia a volte usato il termine di «lotta») per difendere quelli che sono ritenuti «principi non negoziabili»!

4.    «La cultura dello scarto disegna una città dove non c’è posto per i poveri, i nascituri, le persone fragili, i malati, i bambini, le donne, i giovani, i vecchi»: quante volte è risuonata questa parole«cultura dello scarto»! e quante volte abbiamo sentito il grido di Madre Teresa di Calcutta che ha ricordato che l’aborto è il primo nemico della pace.


5.    «È importante far emergere “l’apporto che il cristianesimo può fornire oggi allo sviluppo culturale e sociale europeo nell’ambito di una corretta relazione fra religione e società”»: siamo tutti impegnati nel comprendere che cosa significhi, per la nostra realtà (italiana e sammarinese) l’essere parte dell’Europa. E non possiamo dimenticare che il volto di questa realtà è stato delineato dai cattolici SchumanDe Gasperi e Adenauer. Per una Europa dei popoli e non della finanza. Per una Europa del diritto e non dei «diritti», così spesso nemici della dignità stessa dell’uomo, della donna, della vita e della famiglia.

6.    «E cosa c’è dietro questo prendere distanze dalla realtà sociale? C’è l’indifferenza, e l’indifferenza è un cancro della democrazia, un non partecipare»: la Chiesa ha sempre insegnato che la sua Dottrina Sociale non è qualcosa di riservato a specialisti e a intellettuali, ma fa parte del suo impegno pastorale e deve essere luce e guida prima di tutto per ogni cristiano, e costituire uno spazio di confronto per tutti gli uomini «di buona volontà».

7.    Mi rivolgo «agli amministratori che favoriscono la natalità, il lavoro, la scuola, i servizi educativi, le case accessibili, la mobilità per tutti, l’integrazione dei migranti»: è chiaro l’orizzonte dell’impegno politico, nel superamento di interessi di bottega e particolarismi settari.

8.    «Come cattolici, in questo orizzonte, non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire…»: non si tratta di fare una «scelta religiosa», rifugiandosi nel privato delle proprie coscienze o nello sforzo di dare il buon esempio. La fede deve diventare cultura, ha ricordato Giovanni Paolo II. E la parola «coraggio» usata da Papa Francesco ci stimola a una presenza instancabile e tenace, un po come qull’«opportune et importune» così caro al Vescovo Negri.

9.    «Perché non rilanciare, sostenere e moltiplicare gli sforzi per una formazione sociale e politica che parta dai giovani? Perché non condividere la ricchezza dell’insegnamento sociale della Chiesa?»: non è scomparsa la Dottrina Sociale della Chiesa. Forse sono scomparsi coloro che la propongono, la insegnano e la vivono. So con certezza che questo insegnamento può aprire la strada e infiammare il cuore dei giovani. Basta avere l’intelligenza e il cuore di proporla nel suo autentico valore di aiuto alla felicità di tutti.

10.  «Senza speranza, saremmo amministratori, equilibristi del presente e non profeti e costruttori del futuro»: è proprio il prossimo Anno Santo che rilancia il tema della speranza, per tutti i cristiani e per il mondo intero. Già Eraclito ricordava: «Se non spera non raggiungerà l’insperabile…». E la speranza è la virtù dei forti.

Don Gabriele Mangiarotti



Queste parole di papa Francesco non sono una utopia, un sogno, che la realtà si incarica di sciogliere. Non sono illusione né oppio per sopportare la fatica della vita. Sono la condizione della autentica libertà.

Tratto da “Cultura Cattolica”


giovedì 4 luglio 2024

RIDERE DI DIO?

Quello che il papa non ha detto nel suo incontro con i comici

(Sandro Magister) Ricevo e pubblico. L’autore della lettera, Leonardo Lugaresi, è un insigne studioso dei Padri della Chiesa.L’evento al quale egli si riferisce è l’incontro che Francesco ha avuto il 14 giugno con un centinaio di attori comici di quindici paesi del mondo, alcuni dei quali di grandissima notorietà. L’invito all’incontro era stato una sorpresa per tutti, non risolta nemmeno dal discorso letto dal papa nella circostanza, come testimonia l’ironico resoconto pubblicato il 24 giugno sul quotidiano “Il Foglio” da uno degli invitati, Saverio Raimondo.

Ma l’incognita sul perché di questo incontro tra Francesco e i comici non è nulla al confronto con un’altra incognita ben più seria e profonda, quella sul perché “si può ridere anche di Dio”.A tale questione il papa ha risposto con una battuta, quando invece – scrive Lugaresi – essa è “teodrammatica” al massimo grado e ha avuto il suo culmine nello spettacolo di Gesù in croce, che “il popolo stava a vedere” (Luca 23, 35), chi credendo nel Figlio di Dio, chi irridendolo.

La parola al professor Lugaresi.

*

Caro Magister,

 

James Ensor : Entrata di Cristo a Bruxelles, 1889

il suo ultimo articolo, dedicato a “Francesco superstar sul teatro del mondo”, mi sollecita a svolgere una considerazione marginale – ma forse di qualche utilità per approfondire il problema da lei messo a fuoco – che mi viene suggerita dalla coincidenza nella stessa giornata della doppia performance di Francesco, prima con i comici riuniti in Vaticano e poi con i capi di Stato e di governo del G7 in Puglia il 14 giugno scorso.

Ai comici, il papa ha detto: “Si può ridere anche di Dio? Certo, e non è bestemmia questo, si può ridere, come si gioca e si scherza con le persone che amiamo. […] Si può fare ma senza offendere i sentimenti religiosi dei credenti, soprattutto dei poveri”.

Che pensare di questa affermazione, certo benintenzionata, che avrà senz’altro riscosso l’entusiastica approvazione di tutto il pubblico che lo ascoltava? Direi che è vera: il mondo può ridere di Dio, ma in un senso molto più profondo, impegnativo e drammatico di quanto non lasci intendere l’accattivante battuta di Francesco.

L’”homo religiosus” freme inorridito alla sola idea che si possa ridere di Dio: egli sa da sempre che Dio è innanzitutto tremendo e quando si manifesta in tutta la sua maestà per l’uomo la sola alternativa al terrore è il timore reverenziale, un sentimento a cui fa eco anche l’autore della Lettera agli Ebrei, quando scrive: “È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!” (10, 31). Non è dunque di Dio che l’uomo può ridere, semmai di sé stesso; è Dio, al contrario, a poter ridere dell’uomo e della sua goffa miseria.

Così fanno, ad esempio, gli dèi della Grecia, per i quali l’uomo, come dice Platone nelle “Leggi”, non è che “paignion”, un giocattolo. Quella platonica è già una metafora nobilitante, che può essere declinata in forme ben più triviali e derisorie: mi viene in mente, per esempio, il racconto mitologico, riportato da Clemente Alessandrino, di come la vecchia Baubò strappa, con un lazzo osceno, un sorriso a Demetra in lutto per la morte di Persefone. Siamo i buffoni degli dèi: non più di questo potevano pensare i pagani religiosi, e l’apologista cristiano lo metteva in risalto appunto per criticare l’impianto stesso di quella religiosità.

Anche nella tradizione filosofica l’uomo può ridere di sé, ma non di Dio, imparando a guardarsi con ironia, soprattutto quando si prende troppo sul serio nel recitare la propria parte sulla scena del Teatro del Mondo.Ride perciò dei potenti, come del resto fa il Dio della Bibbia dall’alto dei cieli: “Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme. […] Se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall’alto il Signore” (Salmo 2, 2.4).Ma ride anche del filosofo stesso, che cade nel pozzo perché guarda le stelle, come insegna l’antico aneddoto di Talete e la servetta di Tracia (è sempre Platone a raccontarcelo). Oppure della bella donna che, non più giovane e non più bella, si dipinge tutta per sembrarlo ancora e per questo diventa, per citare un passo di Luigi Pirandello, ridicola e patetica insieme.

Potere, sapienza e bellezza, in quanto idoli, non vengono risparmiati dal riso dell’uomo, anche dell’uomo religioso, il quale da parte sua può ironizzare persino sui “professionisti del sacro” nel loro modo di rapportarsi al divino, un po’ come faceva Catone, stando a Cicerone, quando diceva di meravigliarsi del fatto che due aruspici, incontrandosi, non si mettessero a ridere pensando al loro mestiere.

Ma di Dio proprio no, con Lui e su di Lui non si scherza. Non oso quindi pensare a come reagirebbero molti uomini religiosi del nostro tempo sentendo dire dal papa che si può ridere di Dio “come si gioca e si scherza con le persone che amiamo”, e aggiungere che l’unico limite è di farlo “ma senza offendere i sentimenti religiosi dei credenti, soprattutto dei poveri”. Il che, se ci si pensa, da un punto di vista religioso peggiora di molto la cosa, perché manifesta un riguardo per l’uomo che viene invece negato a Dio. Temo che soprattutto i musulmani si confermerebbero nella convinzione che la nostra non sia veramente una fede e che noi siamo in fondo dei miscredenti, degni del loro disprezzo.

È vero però che con Cristo cambia tutto. L’incarnazione, passione e morte del Figlio è un avvenimento culturalmente sconvolgente che non finiremo mai di metabolizzare, perché in esso Dio si mette nella posizione di poter essere deriso dagli uomini.

La domanda “si può ridere di Dio?” da quel momento riceve infatti una risposta affermativa, che ha però, in prima e insuperabile istanza, non la valenza umoristica e leggera propria del motteggio amicale o familiare a cui sembra riferirsi il papa, bensì il senso drammatico della “kénosis” divina (Filippesi 2, 7), nella forma acutamente sconveniente della risibilità di Dio, cioè della sua esposizione al dileggio da parte degli uomini.

Si può ridere di Dio nel senso che agli uomini è stata data la possibilità di farlo, e realmente lo hanno fatto. La prima volta in un cortile di Gerusalemme, quando “i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la truppa. Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra. Poi, inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano: ‘Salve, re dei Giudei!’. Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo” (Matteo 27, 27-30).

Non si riflette mai abbastanza sul fatto che nel racconto cristiano della passione e morte di Gesù il suo sacrificio si compie entro la forma di due istituzioni fondamentali della cultura umana, il processo e lo spettacolo, operando però in esse un paradossale rovesciamento dei ruoli che ne cambia profondamente il significato.

La morte di Cristo, infatti, è l’esito di un processo penale, in cui però è l’imputato e non il giudice a proclamare la verità. Il ruolo di imputato, e poi di condannato benché (o perché) innocente, è assunto dal Figlio di Dio, cioè proprio da colui che è il vero giudice della storia umana. Quel processo e quella morte sono però anche uno spettacolo, una rappresentazione teatrale, in sé tragica, ma, come abbiamo visto, pronta ad abbassarsi fino al registro comico di una farsa castrense del tipo di quella a cui i soldati di Pilato (o di Erode, stando a Luca) sottopongono Gesù.

Qui, di nuovo, Dio lascia il posto che gli spetta, cioè quello del divino spettatore che dall’alto dei cieli contempla il “theatrum mundi”, e si cala nella parte dell’attore. Attore di un dramma salvifico in cui la libertà di Dio e la libertà dell’uomo si incontrano e lottano, in una “teodrammtica” (per dirla con Hans Urs von Balthasar) che è assolutamente seria, ma anche sempre suscettibile di trasformarsi in “ludus”, cioè in divertimento, agli occhi di un pubblico di spettatori disimpegnati, che lo guardano come in televisione, sgranocchiando popcorn. C’è, in questo senso, una fulminea annotazione di Luca a proposito della crocifissione, che mi ha sempre impressionato: “Il popolo stava a vedere” (23, 35).

Cristo è dunque il “vero agonista”, come lo chiama Clemente Alessandrino, che viene nel mondo per svolgere davanti agli uomini l’unica performance che può salvarli, ma la tremenda serietà del suo sacrificio non è affatto preservata dalla contaminazione comica. Dipende dagli spettatori, dipende dal mondo: come dice splendidamente Agostino, “se a guardare è l’empietà, è un grande ludibrio; se a guardare è la fede, un grande mistero”.

Al pari di un guitto qualsiasi, venendo nel mondo il Figlio di Dio si espone alla possibilità del ludibrio, mette in conto anche di essere trattato come il Gesù del quadro di James Ensor, “L’entrata di Cristo a Bruxelles” [nella foto], che a me pare la più geniale rappresentazione pittorica del cristianesimo nel mondo contemporaneo.

In tale prospettiva, oserei dire che la dimensione martiriale del cristianesimo, cioè la permanente chiamata dei seguaci di Gesù ad essere suoi testimoni nel senso processuale del termine, oggi implica in modo peculiare anche l’assunzione di quel ruolo di zimbello del mondo che Cristo si è assunto, come già suggeriva l’apologo kierkegaardiano del clown e del villaggio in fiamme con cui si apriva, più di mezzo secolo fa, l’ Introduzione al cristianesimo” di Joseph Ratzinger. L’uomo che testimonia la sua fede cristiana in mezzo agli uomini di oggi “può realmente avere l’impressione di essere un pagliaccio”, un ridicolo reperto del passato, ma deve correre fino in fondo questo rischio.

Oggi, più che mai, essere cristiani significa dunque accettare anche la “parte ridicola” che il mondo ci assegna, ma sfidarlo su questo. Quindi sì, il mondo può “ridere di Dio” e anche di noi che, dietro di Lui, ci esponiamo alle sue beffe; ma proprio per questo la cosa, dal punto di vista cristiano, non può risolversi in un simpatico elogio dell’umorismo, che in Occidente piace a tutti e non offende nessuno, o peggio nella promozione di un “Buddy Christ” come quello del “Catholicism Wow!” satireggiato in “Dogma”, un film di venticinque anni fa che forse non ha perso la sua attualità.

Sulla scena del teatro del mondo non è quella la parte che spetta al cristiano, chiunque egli sia, dal papa all’ultimo dei fedeli laici.

LEONARDO LUGARESI

 Nota sul dipinto di Ensor

Come annunciato dal titolo, il disegno raffigura un ipotetico ingresso trionfale di Gesù nella capitale del Belgio, in onore del quale viene realizzata un'immensa parata, talmente sgargiante e carnevalesca da apparire ridicola e quasi sinistra. La cittadinanza è accorsa in massa all'evento, tuttavia nessuno dei partecipanti ha lo sguardo rivolto verso il Cristo: c'è chi chiacchiera, chi giudica, chi critica, chi si diverte, chi si fa largo, addirittura chi si bacia. Questa circostanza è fortemente simbolica: rappresenta l'allontanamento del popolo dai valori del Vangelo

Circondato da un'anacronistica aureola, il Cristo ignorato da tutti è entrato umilmente a Bruxelles a dorso di mulo e sembra salutare (o benedire) qualcuno ma è praticamente oscurato dalla moltitudine che arrogantemente si mette in primo piano; inoltre il Messia ha i tratti somatici del pittore ed è l'unica figura che non indossa una maschera: ciò avviene perché Ensor voleva raffigurare la propria emarginazione e il rifiuto della sua funzione moralizzatrice da parte della società. Tra i chiassosi e volgari personaggi raffigurati, si intuisce la caricatura di alcuni famosi uomini politici dell'epoca.

Inebriata da banali slogan (Vive la sociale, Vive Jesus le Roi de Bruxelles) e dalla musica della banda militare, la folla incosciente sembra pronta ad accogliere e poi a tradire il figlio di Dio esattamente come duemila anni fa. Il quadro è quindi una denuncia della società formata da uomini privi di personalità e facilmente strumentalizzabili: non a caso la gente è trascinata da un gendarme (che rappresenta la forza bruta del potere) e più indietro, alla destra del Cristo, è evidente la scritta Fanfara dottrinaria, che ribadisce il vuoto indottrinamento della massa circostante.

L'impostazione prospettica del dipinto secondo un punto di vista centrale focalizza l'attenzione sul Cristo che avanza, mentre due blocchi laterali di figure in primo piano incanalano la processione entro una profondità spaziale affollata ma ben chiaramente strutturata; il disegno è intenzionalmente grossolano, affidato a linee spezzate di grande potere emotivo, con deformazioni di stampo espressionista, autonome rispetto al colore, con una loro precisa valenza segnica, mentre il colore gioca un ruolo determinante in dialogo paritario con il segno, violento ed acceso nel trionfo dei rossi stesi in pennellate brevi e nervose

Per la sua natura, considerata blasfema, il dipinto fu rifiutato dalle mostre de tempo ed Ensor fu costretto nel corso della sua vita ad esporlo nel proprio studio. Recentemente è stato esposto all’Art Institute di Chicago.


lunedì 1 luglio 2024

LA 50MA SETTIMANA SOCIALE: DEI CATTOLICI O DEL PD?

 

NIENTE DI BUONO DA ASPETTARCI
di Stefano Fontana
 

Dal 3 al 7 luglio prossimi si terrà a Trieste la 50ma Settimana sociale dei cattolici italiani.   

L’ Osservatorio Card. Van Thuan ha già espresso alcune valutazioni sui documenti e gli incontri preparatori dell’evento, nonché sulla nuova impostazione che oggi viene data alle Settimane sociali. In calce a questo articolo il lettore può trovare l’elenco di questi nostri interventi. Qui mi permetto di sottolinearne almeno due: la pubblicazione di un numero monografico della rivista, il “Bollettino della Dottrina sociale della Chiesa”, dedicato a “Democrazia, forma di governo e non fondamento del governo”, e il convegno che si terrà a Trieste il 6 luglio prossimo dal titolo “La democrazia: cattolicesimo politico e dogma liberal-democratico”.


Le ultime e più recenti Settimane sociali hanno sposato una visione progressista molto unilaterale ed esclusivista. Anche questa di Trieste sembra impostata a senso unico. È stato fatto notare [vedi qui] che una gran quantità di relatori e coordinatori dei lavori alla Settimana sociale di Trieste hanno strutturali relazioni con un partito, il Partito Democratico, il che ci dice che ne condividono l’impostazione generale che contrasta con i principi della Dottrina sociale della Chiesa, nonostante oggi le autorità ecclesiastiche sostengano che si può e si deve collaborare con tutti. Punto, questo, decisamente insostenibile, a meno di invertire il rapporto tra mezzi e fini, caposaldo della morale sia naturale che cattolica.    Matteo Zuppi, in una prefazione ad un libro sulla politica pubblicata sul Corriere della Sera del 23 giugno, ha fatto due esempi a senso unico di cattolici impegnati in politica: don Giuseppe Dossetti e David Sassoli: per la CEI altre impostazioni non esistono. Gli incontri preparatori alla Settimana sociale, sia quelli organizzati a Trieste dal vescovo diocesano [si vedano in calce le cronache di Silvio Brachetta] sia quelli a carattere nazionale, sono stati coordinati da uomini chiaramente di area progressista e perfino da esponenti del Partito Democratico già ricordato sopra. Segnalo questi aspetti solo apparentemente collaterali perché confermano quanto si legge nei documenti preparatori e fanno prevedere come saranno condotti i lavori: si andrà verso una piena legittimazione della democrazia liberale alla quale i cattolici saranno chiamati a partecipare comunque, indicando nella partecipazione il “cuore” della democrazia. Il che, come è facile capire, non ha molto a che fare con la Dottrina sociale della Chiesa.

La partecipazione non ha un valore di per se stessa, ma è validata dai fini che si propone e dai contenuti che approva e incarna. La visione liberale della democrazia sostiene che è la partecipazione a stabilire i fini, mentre la visione cattolica dice che sono i fini a stabilire la partecipazione. Così la fede cattolica non avrà nulla da dire alla democrazia se non invitare i fedeli alla partecipazione perché sarà la democrazia a dire alla Chiesa cosa e come fare e non il contrario. Lo stiamo vedendo da tempo sulle principali tematiche in agenda. Per questo si prevede che la Settimana sociale di Trieste assumerà la democrazia come un dogma per cui ciò che non è partecipato non vale nulla. Non sentiremo a Trieste nessun richiamo agli aspetti totalitari della democrazia liberale moderna ed attuale, né risuoneranno le gravi parole di Giovanni Paolo II a questo proposito. Nessuno dirà che la democrazia moderna dimostra spesso un volto totalitario in quanto pensa se stessa come un metodo che coincide con il contenuto, un mezzo che coincide con il fine. Basta che una legge o una politica siano frutto di consenso democratico perché siano da considerarsi valide.

Ambrogio Lorenzetti Siena 1338
Allegorie del buon governo

Nella fase preparatoria, e si suppone anche nel corso dei lavori della Settimana sociale, si è partiti dalla partecipazione in atto, ossia dalle cosiddette “buone pratiche” e da esse si è cercato di far emergere i valori condivisi. Ma come è possibile valutare come “buone” certe pratiche ed escluderne altre come “cattive” senza partire da principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive d’azione previ a quell’esame? Non può essere la prassi a dare i criteri alla teoria perché il fare non contiene il proprio perché e l’effettualità esprime un esserci privo di senso. Del resto, se la partecipazione è il cuore della democrazia, i valori emergeranno dalla partecipazione e non il contrario. Questo richiede però che i cattolici si diano da fare insieme a tutti gli altri, ma senza indicare criteri e finalità previe alla partecipazione stessa che verrebbero intesi come “dogane dottrinali” e steccati che impediscono l’integrazione di tutti nella partecipazione democratica. Ci si attiene così alla democrazia “procedurale” secondo la quale il metodo fa il contenuto e la forma diventa sostanza. La democrazia verrebbe prima di qualsiasi valutazione della democrazia.

Staremo a vedere se durante i lavori della Settimana si parlerà di Gesù Cristo al di fuori delle celebrazioni liturgiche. Io penso di no, perché non se ne è mai parlato nemmeno nella fase preparatoria. Vedremo … Possiamo intanto essere sicuri che non si parlerà di Dottrina sociale della Chiesa, come non se ne è parlato alle Settimane di Cagliari e di Taranto. La democrazia, vista tramite l’immagine-slogan di essere tutti nella stessa barca, diventa un apriori esistenziale, una dimensione di vita che precede e dà senso a tutto il resto, piuttosto che riceverne. Essa diventa il “mondo” a cui anche i cattolici appartengono prima di essere cattolici e, soprattutto, insieme a tutti, tutti, tutti.   

Stefano Fontana

 

Sulla Settima sociale di Trieste vedi anche:

Arcivescovo Giampaolo Crepaldi, La Settimana sociale di Trieste, la Chiesa, la democrazia.

Silvio Brachetta, Trieste: la democrazia totalitaria ordina la conversione ecologica.

Silvio Brachetta, Astrazioni e luoghi comuni come sfondo alla Settimana sociale di Trieste.

Silvio Brachetta, A Trieste il cardinale Zuppi scambia le esigenze della verità con le “dogane ideologiche”.

Silvio Brachetta, Il vento del compromesso col mondo soffia sulla Settimana sociale di Trieste.

Silvio Brachetta, La Chiesa a Trieste sdogana il «democratismo», base del cattolicesimo secolarizzato