Quello che il papa non ha detto nel suo incontro con i comici
(Sandro Magister) Ricevo e pubblico. L’autore della lettera, Leonardo Lugaresi, è un insigne studioso dei Padri della Chiesa.L’evento al quale egli si riferisce è l’incontro che Francesco ha avuto il 14 giugno con un centinaio di attori comici di quindici paesi del mondo, alcuni dei quali di grandissima notorietà. L’invito all’incontro era stato una sorpresa per tutti, non risolta nemmeno dal discorso letto dal papa nella circostanza, come testimonia l’ironico resoconto pubblicato il 24 giugno sul quotidiano “Il Foglio” da uno degli invitati, Saverio Raimondo.
Ma l’incognita sul perché di questo incontro tra Francesco e i comici non è nulla al confronto con un’altra incognita ben più seria e profonda, quella sul perché “si può ridere anche di Dio”.A tale questione il papa ha risposto con una battuta, quando invece – scrive Lugaresi – essa è “teodrammatica” al massimo grado e ha avuto il suo culmine nello spettacolo di Gesù in croce, che “il popolo stava a vedere” (Luca 23, 35), chi credendo nel Figlio di Dio, chi irridendolo.
La parola al professor Lugaresi.
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Caro Magister,
James Ensor : Entrata di Cristo a Bruxelles, 1889 |
il suo ultimo articolo, dedicato a “Francesco
superstar sul teatro del mondo”, mi sollecita a svolgere una
considerazione marginale – ma forse di qualche utilità per approfondire il
problema da lei messo a fuoco – che mi viene suggerita dalla coincidenza nella
stessa giornata della doppia performance di Francesco, prima con i comici
riuniti in Vaticano e poi con i capi di Stato e di governo del G7 in Puglia il
14 giugno scorso.
Ai comici, il papa ha detto: “Si
può ridere anche di Dio? Certo, e non è bestemmia questo, si può ridere, come
si gioca e si scherza con le persone che amiamo. […] Si può fare ma senza
offendere i sentimenti religiosi dei credenti, soprattutto dei poveri”.
Che pensare di questa affermazione, certo benintenzionata, che avrà senz’altro riscosso l’entusiastica approvazione di tutto il pubblico che lo ascoltava? Direi che è vera: il mondo può ridere di Dio, ma in un senso molto più profondo, impegnativo e drammatico di quanto non lasci intendere l’accattivante battuta di Francesco.
L’”homo religiosus” freme inorridito alla sola idea che si possa ridere di
Dio: egli sa da sempre che Dio
è innanzitutto tremendo e quando si manifesta in tutta la sua maestà per l’uomo
la sola alternativa al terrore è il timore reverenziale, un sentimento a
cui fa eco anche l’autore della Lettera agli Ebrei, quando scrive: “È terribile
cadere nelle mani del Dio vivente!” (10, 31). Non è dunque di Dio che l’uomo
può ridere, semmai di sé stesso; è Dio, al contrario, a poter ridere dell’uomo
e della sua goffa miseria.
Così fanno, ad esempio, gli dèi della Grecia, per i quali l’uomo, come dice
Platone nelle “Leggi”, non è che “paignion”, un giocattolo. Quella platonica è
già una metafora nobilitante, che può essere declinata in forme ben più
triviali e derisorie: mi viene in mente, per esempio, il racconto mitologico,
riportato da Clemente Alessandrino, di come la vecchia Baubò strappa, con un
lazzo osceno, un sorriso a Demetra in lutto per la morte di Persefone. Siamo i
buffoni degli dèi: non più di questo potevano pensare i pagani religiosi, e
l’apologista cristiano lo metteva in risalto appunto per criticare l’impianto
stesso di quella religiosità.
Anche nella tradizione filosofica l’uomo può ridere di sé, ma non di Dio, imparando a guardarsi con ironia, soprattutto quando si prende troppo sul serio nel recitare la propria parte sulla scena del Teatro del Mondo.Ride perciò dei potenti, come del resto fa il Dio della Bibbia dall’alto dei cieli: “Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme. […] Se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall’alto il Signore” (Salmo 2, 2.4).Ma ride anche del filosofo stesso, che cade nel pozzo perché guarda le stelle, come insegna l’antico aneddoto di Talete e la servetta di Tracia (è sempre Platone a raccontarcelo). Oppure della bella donna che, non più giovane e non più bella, si dipinge tutta per sembrarlo ancora e per questo diventa, per citare un passo di Luigi Pirandello, ridicola e patetica insieme.
Potere, sapienza e bellezza, in quanto idoli, non vengono risparmiati dal
riso dell’uomo, anche dell’uomo religioso, il quale da parte sua può ironizzare
persino sui “professionisti del sacro” nel loro modo di rapportarsi al divino,
un po’ come faceva Catone, stando a Cicerone, quando diceva di meravigliarsi
del fatto che due aruspici, incontrandosi, non si mettessero a ridere pensando
al loro mestiere.
Ma di Dio proprio no, con Lui e
su di Lui non si scherza. Non oso
quindi pensare a come reagirebbero molti uomini religiosi del nostro tempo
sentendo dire dal papa che si può ridere di Dio “come si gioca e si scherza con
le persone che amiamo”, e aggiungere che
l’unico limite è di farlo “ma senza offendere i sentimenti religiosi dei
credenti, soprattutto dei poveri”. Il che, se ci si pensa, da un punto di vista
religioso peggiora di molto la cosa, perché manifesta un riguardo per l’uomo
che viene invece negato a Dio. Temo che soprattutto i musulmani si
confermerebbero nella convinzione che la nostra non sia veramente una fede e
che noi siamo in fondo dei miscredenti, degni del loro disprezzo.
È vero però che con Cristo cambia
tutto.
L’incarnazione, passione e morte del Figlio è un avvenimento culturalmente
sconvolgente che non finiremo mai di metabolizzare, perché in esso Dio si mette
nella posizione di poter essere deriso dagli uomini.
La domanda “si può ridere di Dio?” da quel momento riceve infatti una
risposta affermativa, che ha però, in prima e insuperabile istanza, non la
valenza umoristica e leggera propria del motteggio amicale o familiare a cui
sembra riferirsi il papa, bensì il senso drammatico della “kénosis” divina
(Filippesi 2, 7), nella forma acutamente sconveniente della risibilità di Dio,
cioè della sua esposizione al dileggio da parte degli uomini.
Si può ridere di Dio nel senso che
agli uomini è stata data la possibilità di farlo, e realmente lo hanno fatto. La prima volta in un cortile di
Gerusalemme, quando “i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e
gli radunarono attorno tutta la truppa. Lo spogliarono, gli fecero indossare un
mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo e
gli misero una canna nella mano destra. Poi, inginocchiandosi davanti a lui, lo
deridevano: ‘Salve, re dei Giudei!’. Sputandogli addosso, gli tolsero di mano
la canna e lo percuotevano sul capo” (Matteo 27, 27-30).
Non si riflette mai abbastanza sul fatto che nel racconto cristiano della
passione e morte di Gesù il suo sacrificio si compie entro la forma di due
istituzioni fondamentali della cultura umana, il processo e lo spettacolo,
operando però in esse un paradossale rovesciamento dei ruoli che ne cambia
profondamente il significato.
La morte di Cristo, infatti, è
l’esito di un processo penale, in cui però è l’imputato e non il giudice a
proclamare la verità. Il ruolo di
imputato, e poi di condannato benché (o perché) innocente, è assunto dal Figlio
di Dio, cioè proprio da colui che è il vero giudice della storia umana. Quel
processo e quella morte sono però anche uno spettacolo, una rappresentazione
teatrale, in sé tragica, ma, come abbiamo visto, pronta ad abbassarsi fino al
registro comico di una farsa castrense del tipo di quella a cui i soldati di
Pilato (o di Erode, stando a Luca) sottopongono Gesù.
Qui, di nuovo, Dio lascia il posto che gli spetta, cioè quello del divino
spettatore che dall’alto dei cieli contempla il “theatrum mundi”, e si cala
nella parte dell’attore. Attore
di un dramma salvifico in cui la libertà di Dio e la libertà dell’uomo si
incontrano e lottano, in una “teodrammtica” (per dirla con Hans Urs von
Balthasar) che è assolutamente seria, ma anche sempre suscettibile di
trasformarsi in “ludus”, cioè in divertimento, agli occhi di un pubblico di
spettatori disimpegnati, che lo guardano come in televisione, sgranocchiando
popcorn. C’è, in questo senso, una fulminea annotazione di Luca a
proposito della crocifissione, che mi ha sempre impressionato: “Il popolo stava
a vedere” (23, 35).
Cristo è dunque il “vero agonista”, come lo chiama Clemente Alessandrino,
che viene nel mondo per svolgere davanti agli uomini l’unica performance che
può salvarli, ma la tremenda serietà del suo sacrificio non è affatto
preservata dalla contaminazione comica. Dipende dagli spettatori, dipende dal
mondo: come dice splendidamente
Agostino, “se a guardare è l’empietà, è un grande ludibrio; se a guardare è la
fede, un grande mistero”.
Al pari di un guitto qualsiasi, venendo nel mondo il Figlio di Dio si
espone alla possibilità del ludibrio, mette in conto anche di essere trattato come
il Gesù del quadro di
James Ensor, “L’entrata di Cristo a Bruxelles” [nella foto], che a me pare la
più geniale rappresentazione pittorica del cristianesimo nel mondo
contemporaneo.
In tale prospettiva, oserei dire che la dimensione martiriale del cristianesimo, cioè la permanente
chiamata dei seguaci di Gesù ad essere suoi testimoni nel senso processuale del
termine, oggi implica in modo peculiare anche l’assunzione di quel ruolo di
zimbello del mondo che Cristo si è assunto, come già suggeriva l’apologo kierkegaardiano del
clown e del villaggio in fiamme con cui si apriva, più di mezzo secolo fa,
l’ Introduzione al cristianesimo” di Joseph Ratzinger. L’uomo che testimonia la
sua fede cristiana in mezzo agli uomini di oggi “può realmente avere l’impressione
di essere un pagliaccio”, un ridicolo reperto del passato, ma deve correre fino
in fondo questo rischio.
Oggi, più che mai, essere cristiani significa dunque accettare anche la
“parte ridicola” che il mondo ci assegna, ma sfidarlo su questo. Quindi sì, il
mondo può “ridere di Dio” e anche di noi che, dietro di Lui, ci esponiamo alle
sue beffe; ma proprio per questo la cosa, dal punto di vista cristiano, non può
risolversi in un simpatico elogio dell’umorismo, che in Occidente piace a tutti
e non offende nessuno, o peggio nella promozione di un “Buddy Christ” come
quello del “Catholicism Wow!” satireggiato in “Dogma”, un film di venticinque
anni fa che forse non ha perso la sua attualità.
Sulla scena del teatro del mondo non è quella la parte che spetta al cristiano, chiunque egli sia, dal papa all’ultimo dei fedeli laici.
LEONARDO LUGARESI
Come annunciato dal titolo, il disegno raffigura un ipotetico ingresso trionfale di Gesù nella capitale del Belgio, in onore del quale viene realizzata un'immensa parata, talmente sgargiante e carnevalesca da apparire ridicola e quasi sinistra. La cittadinanza è accorsa in massa all'evento, tuttavia nessuno dei partecipanti ha lo sguardo rivolto verso il Cristo: c'è chi chiacchiera, chi giudica, chi critica, chi si diverte, chi si fa largo, addirittura chi si bacia. Questa circostanza è fortemente simbolica: rappresenta l'allontanamento del popolo dai valori del Vangelo
Circondato da un'anacronistica aureola, il Cristo ignorato da tutti è entrato umilmente a Bruxelles a dorso di mulo e sembra salutare (o benedire) qualcuno ma è praticamente oscurato dalla moltitudine che arrogantemente si mette in primo piano; inoltre il Messia ha i tratti somatici del pittore ed è l'unica figura che non indossa una maschera: ciò avviene perché Ensor voleva raffigurare la propria emarginazione e il rifiuto della sua funzione moralizzatrice da parte della società. Tra i chiassosi e volgari personaggi raffigurati, si intuisce la caricatura di alcuni famosi uomini politici dell'epoca.
Inebriata da banali slogan (Vive la sociale, Vive Jesus le Roi de Bruxelles) e dalla musica della banda militare, la folla incosciente sembra pronta ad accogliere e poi a tradire il figlio di Dio esattamente come duemila anni fa. Il quadro è quindi una denuncia della società formata da uomini privi di personalità e facilmente strumentalizzabili: non a caso la gente è trascinata da un gendarme (che rappresenta la forza bruta del potere) e più indietro, alla destra del Cristo, è evidente la scritta Fanfara dottrinaria, che ribadisce il vuoto indottrinamento della massa circostante.
L'impostazione prospettica del dipinto secondo un punto di vista centrale focalizza l'attenzione sul Cristo che avanza, mentre due blocchi laterali di figure in primo piano incanalano la processione entro una profondità spaziale affollata ma ben chiaramente strutturata; il disegno è intenzionalmente grossolano, affidato a linee spezzate di grande potere emotivo, con deformazioni di stampo espressionista, autonome rispetto al colore, con una loro precisa valenza segnica, mentre il colore gioca un ruolo determinante in dialogo paritario con il segno, violento ed acceso nel trionfo dei rossi stesi in pennellate brevi e nervose
Per la sua natura, considerata blasfema, il dipinto fu rifiutato dalle mostre de tempo ed Ensor fu costretto nel corso della sua vita ad esporlo nel proprio studio. Recentemente è stato esposto all’Art Institute di Chicago.
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