venerdì 8 novembre 2024

TRUMP PARTE SECONDA

LA TENTAZIONE DELLE SCORCIATOIE

Il risultato delle elezioni Usa 2024 è una sfida. Per entrambi, democratici e repubblicani, per chi ha vinto e chi ha perso. Una sfida diversa per ognuno

 


MINNEAPOLIS – La sintesi del voto? I democratici hanno avuto quel che si meritavano, i repubblicani molto più di quel che si meritassero. Donald Trump ha vinto, ma Kamala Harris ha “straperso”. Il Grand Old Party afferra quasi tutto quello che c’era in palio, e si prepara a gestire il suo potere politico tra Presidenza, maggioranza in Senato e (probabile) maggioranza alla Camera. Almeno per i prossimi due anni sarà così.

The American people manda a dire al partito democratico, e a quella intellighenzia libertaria di sinistra che lo guida, che non si riconosce in una élite senza ideali, senza idee, senza l’ombra di passione umana. Non bastano aborto, politiche di gender ed una maggiore “intrusione” dello Stato nella questioni della vita quotidiana a conquistare il voto. Non bastano perché non sono queste le cose che the American people vuole.

L’esito delle elezioni ci dice ad alta voce che per quanto squinternato possa essere lo schieramento repubblicano, per quanto confuso nel suo conservatorismo e per quanto pericolosa possa essere la mina vagante Trump, è lì che c’è un qualche spazio per quelle istanze/speranze di libertà, dignità e prosperità promesse dall’American dream. Ce lo dice the American people con il voto del 5 novembre 2024, il voto di bianchi, neri, ispanici, uomini e donne, il voto di coloro che per tutta la campagna elettorale si sono dichiarati “incerti” e che “avrebbero dovuto” far vincere la Harris. Oggi come oggi l’American dream certamente abita più lì che non nel palazzo di cristallo dei democratici, un palazzo senza porte per entrare, senza finestre per guardare, senza ponti per raggiungere. Un palazzo dove risiedono solo persone colte ed intelligenti che si fanno compagnia con le stars dello show business. E tutti gli altri? Fuori a guardare?

Se per i repubblicani c’è una vittoria da comprendere ed un’enorme responsabilità verso chi li ha votati, per i democratici, suonati come un pugile al tappeto, c’è da riscoprire la propria storia ed il proprio compito e tentare di ricostruire un rapporto che si è fatto evanescente con la vita vera ed i suoi protagonisti fatti di carne e sangue.

 


La tentazione delle scorciatoie è dietro l’angolo per entrambi: per il GOP l’ingordigia del potere e la presunzione di poter dominare piuttosto che accettare la fatica di un lavoro per il dialogo; per i Democrats illudersi di poter evitare la riflessione sulla propria consistenza scaricando il fallimento di oggi sulle spalle di Biden e di quattro fiacchi anni di presidenza.

Ognuno al suo lavoro. God Bless America!

Riro Maniscalco

 Pubblicato 7 Novembre 2024

 

mercoledì 6 novembre 2024

LE RAGIONI DELLA SCONFITTA DI KAMALA HARRIS E DEI DEM

 

L’errore dei democratici Usa che credevano di poter vincere senza una visione

La ridicola idea di Obama, Biden e compagni di cavarsela con un pessimo candidato come Kamala Harris, la questione contraddittoria dell’aborto.

Sugli Stati generali Mauro Frangi  scrive: «Kamala Harris non era preparata ad una sfida complessa come quella presidenziale. Ci è entrata all’ultimo minuto grazie al sostegno dei big del partito (non è un caso che l’ultimo a condividere la scelta sia stato proprio il 44esimo presidente Barack Obama) senza una adeguata preparazione. Dopo quattro anni da vicepresidente in cui ha sprecato l’opportunità, che la scelta di Joe Biden nel 2020 gli aveva aperto, di mostrare di avere il profilo e le caratteristiche per essere un vero leader nazionale. Kamala Harris non si era mai misurata prima con sfide elettorali importanti. È diventata senatore per la California nel 2018, vincendo le primarie dem e poi conquistando un seggio senatoriale scontato. La sua candidatura alle primarie presidenziali dem del 2020, dopo essersi caratterizzata come fortemente progressista, si è risolta in un rapidissimo flop. Un candidato presidente moderato, bianco, cattolico come il 46esimo presidente Joe Biden l’ha scelta per il ticket del 2020 più per le sue caratteristiche soggettive (donna, giovane, di sinistra, espressione di una minoranza) che per le sue capacità di leadership.


Un gigante della politica dem e del Senato Usa come sen. Dianne Feinstein commentò la sua designazione sottolineando la sua totale inesperienza: “A Washington non conosce nemmeno un idraulico”. Quattro anni alla Casa Bianca e l’accesso quotidiano allo Studio ovale non hanno cambiato il suo profilo politico e la sua capacità di incidere. Ha dimostrato solo di non essere all’altezza del ruolo che le è stato attribuito sia sul piano nazionale che, ancor più, su quello internazionale. Quattro mesi di campagna elettorale – e la spesa di un miliardo di dollari – non potevano bastare a fare di lei una leader di prestigio e capace di attrarre nuovi consensi».

Dopo il fallimento della linea politica di Bill Clinton, che aveva una sua visione (sbagliata) del mondo e di come collocare in questa visione lo sviluppo degli Stati uniti, i democratici non hanno avuto più né una vera visione né un vero programma, vivendo di accordi tra i vari clan Obama, Clinton, Biden, in rapporto con la sinistra radicale, e contando molto sull’appoggio dell’establishment e sugli errori dei repubblicani, pensando di potersi permettere persino un  candidato inesistente come la Harris. Una grande nazione leader in campo internazionale non può limitarsi a tirare a campare con sbandamenti nella politica estera e trucchetti in quella interna. Alla fine anche una linea spesso volgarmente demagogica diventa meglio di niente.

La questione dell’aborto

La questione dell’aborto e più in generale quella di un pieno riconoscimento dei diritti delle donne
all’autodeterminazione ha giocato un ruolo importante, anche se  non decisivo, in queste ultime elezioni americane. Una parte dei repubblicani pensava che bastassero provvedimenti legislativi e giuridici per contenere le spinte abortiste più radicali. Ma è evidente come ci si trovi di fronte a una questione complessa: di fatto si tratta di trovare una soluzione alla contraddizione tra la difesa del diritto all’autodeterminazione della donna e la difesa del diritto alla vita.

Come sempre quando si contraddicono due princìpi entrambi di alto valore morale, la situazione diventa “naturalmente” tragica e non può essere risolta se non prima “culturalmente” che giuridicamente. I conservatori, che sanno quanto radici morali siano indispensabili per tenere insieme la nostra civiltà, devono anche avere piena coscienza del fatto che la forza esplosiva della libertà dei moderni non può essere negata ,ma solo governata culturalmente

Insomma anche la lezione americana (Ron De Santis così ha conquistato la Florida) dovrebbe spingere a costruire una cultura di massa che tenga insieme libertà delle donne moderne e morale naturale: non è affatto impossibile persino negli anni Duemila, ma non avviene senza un articolato e tenace sforzo anche organizzativo.

leggi anche https://www.glistatigenerali.com/america-mondo/le-ragioni-della-sconfitta-di-kamala-harris-e-dei-dem/

https://www.glistatigenerali.com/america-mondo/le-ragioni-della-sconfitta-di-kamala-harris-e-dei-dem/

martedì 5 novembre 2024

COMUNQUE VADA, TRUMP HA GIÀ VINTO

Giulio Meotti

nov 05, 2024

Domani conosceremo il nome del nuovo presidente degli Stati Uniti. La politica è diventata fanatica: i fan di Donald non riescono a immaginare che si possa votare Kamala e le groupie di Harris che si possa fare altrettanto con Trump.

Se fossi americano voterei Trump senza trasporto trumpiano, ma per le stesse motivazioni elencate oggi da Ayaan Hirsi Ali, che non è certo una suprematista bianca (è una somala scappata da un matrimonio combinato), ma è la donna più coraggiosa e intelligente che scriva sui giornali.

Intanto il New York Times pubblica l’articolo che spiega perché, comunque vada, Donald Trump ha già vinto.

Jeremy Peters, reporter del quotidiano newyorchese, firma un articolo intitolato “In Shift from 2020, Identity Politics Loses Its Grip on the Country”.

I Democratici avrebbero potuto continuare a vivere nell’inganno, anzi nell’autoinganno, agitando lo spettro dell’apocalisse democratica. Invece, per provare a vincere, hanno archiviato il progressismo folle e woke dell’ala sinistra del Partito che ha ceduto alle modalità ideologiche più eccentriche del nostro tempo: ideologia transgender, promozione della censura sui social, appello a non finanziare più la polizia, antisemitismo, razzismo segregazionista, depenalizzazione di alcuni tipi di furto, apertura delle frontiere agli immigrati clandestini, divieto di richiedere un documento d'identità per votare (in un paese in cui è necessario esibire un documento per poter acquistare la birra).Peters del New York Times osserva che ora Kamala Harris si vanta persino di proteggere la sua casa con una Glock. Ha confessato di possedere un’arma.

 “La dichiarazione di Harris sul possesso di una pistola è il passo più drammaticamente simbolico che sta facendo verso il modo in cui le persone vivono piuttosto che verso come dovrebbero vivere” scrive Lee Siegel.

Lo stesso vale per il Green New Deal.Da sostenitrice delle follie verdi, Kamala è passata a sostenere le trivellazioni petrolifere in America. Si rivolge a quell’America che vuole ancora “fare” delle cose. Durante la campagna elettorale, Harris ha anche “ricordato agli elettori gli spacciatori di droga che ha messo in prigione” quando era procuratore in California. Niente più richieste di definanziamento della polizia e di decriminalizzazione degli attraversamenti della frontiera.A differenza di quando si è presentata alla CNN declamando i suoi pronomi “she, her and hers”, oggi Harris “cambia argomento quando le viene chiesto” e glissa se farebbe pagare ai contribuenti il ​​conto per le operazioni di cambio di sesso per migranti e detenuti.

Uno degli slogan più efficaci di Trump è statoKamala Harris is for they/them; Trump is for you”.

Il giornalista del Times osserva che le grandi aziende, notoriamente riserve di denaro per i Democratici, escono dalle politiche di “diversità, equità e inclusione” (DEI), complice anche la fine ingloriosa del Black Lives Matter fra ruberie e regalie.

Harris al confine col Messico
E poi c’è la questione immigrazione, che come scrive Batya Ungar-Sargon è la questione decisiva delle elezioni: “L’immigrazione separa l'élite americana, i consumatori di manodopera a basso salario, dalla classe operaia, con cui gli immigrati clandestini competono per i lavori. Il 20 percento più ricco, che svolge lavori nel settore della conoscenza che richiedono la padronanza della lingua inglese e lo status conferito da una laurea, non subisce alcuna pressione dall'immigrazione poco qualificata, ma trae vantaggio dalla sostituzione dei propri concittadini senza credenziali con manodopera molto più economica”.E così dopo che per anni Kamala Harris si era vantata di “non aver mai messo piede al confine”, Trump l’ha costretta ad andare al muro con il Messico e promettere la stretta migratoria.

Le elezioni non si vincono su Marte, un mondo senza frontiere, ma sulla terra, dove i confini segnano le civiltà.

Harris non ha grandi istinti politici, eppure anche lei ha capito che nessun americano sano di mente vuole vivere in un paese senza frontiere, dove si dislocano tutte le industrie in Cina, dove Greta Thunberg decide la politica energetica, dove al criminale con un’arma si risponde con un emoji, dove si toglie la libertà di parola al popolo se non segue i diktat dei media, dove il colore della pelle cancella il merito, dove puoi scegliere fra nove tipi di pronomi come si fa con i gusti di un gelato, dove le grandi università si trasformano in centri sociali a favore dei terroristi islamici, dove all’Onu si affida la guida degli affari internazionali e dove si alza bandiera bianca ai nemici dell’Occidente.

Non mi fido di Kamala Schlein, ma al di là di come finisca è stato pur sempre uno strano spettacolo vederli tornare sulla terra per inseguire i cattivi sul loro terreno.

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TRATTO DALLA NEWSLETTER DI GIULIO MEOTTI IN ABBONAMENTO

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SALVATE L’ONU DA GUTERRES

 


l segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, fa un inchino a Vladimir Putin 

durante la riunione dei Brics in Russia (foto Ansa)

Su Huffington post.it Pierluigi Battista scrive: «L’immagine del segretario generale dell'Onu Antonio Guterres che si inchina senza dignità al potente di Mosca è solo l’ultima istantanea di un’umiliazione continua, di un crescendo nel grottesco che oramai non conosce più limiti».

È difficile dissentire dall’indignazione di Pigi Battista per quel cialtrone di Guterres, che prima manda il solito bizzarro mandato di arresto penale a Vladimir Putin e poi va a baciare la pantofola, sporca di sangue ucraino, del presidente russo.

 

domenica 3 novembre 2024

LETTURE FUORI DAL CORO. UN PO' DI "CONTROINFORMAZIONE" A 72 ORE DAL VOTO USA. PARTE SECONDA

 


WALL STREET JOURNAL SU HARRIS

Bisogna ammirare i democratici per la loro audacia.

Per più di un anno hanno sostenuto che Joe Biden, in evidente declino, era mentalmente abbastanza in forma per governare altri quattro anni. Quando il dibattito tv di giugno ha reso l’affermazione insostenibile, hanno fatto una svolta di 180 gradi e hanno consacrato la sua vice come loro candidata sostenendo, senza il minimo imbarazzo, che lei rappresenta in qualche modo “la nuova strada verso il futuro”.I repubblicani non l’avrebbero fatta franca. E alla fine nemmeno Kamala Harris, se la prendi in parola.

Alla domanda su cosa avrebbe fatto di diverso rispetto agli ultimi quattro anni, la fedele numero due di Biden ha detto: “Non c’è niente che mi venga in mente”. Questa è stata la frase più vera pronunciata in una campagna elettorale particolarmente disonesta e avvilente da entrambe le parti.

Harris si è presentata come nuova basandosi in gran parte sulla sua biografia. Ma per quanto riguarda le sue politiche e le forze che la sostengono, lei rappresenta una continuità, e non solo rispetto agli ultimi quattro anni. La sua candidatura è un tentativo di continuare l'ondata radicale iniziata nel 2006 con la sconfitta dei repubblicani al Congresso e poi trasformatasi in uno tsunami con la crisi finanziaria del 2008. Si candida per quello che essenzialmente sarebbe il quarto mandato progressista di Barack Obama.

Harris e Obama
Ciò non significa che le manchi l’attrattiva politica. Ha condotto una campagna sufficientemente efficace con breve preavviso e ha sconfitto Donald Trump nel loro unico duello televisivo. Se eletta, porterebbe più energia alla presidenza rispetto a Biden. Sembra anche ottimista riguardo all’America, persino patriottica.

Ma abbiamo cercato invano segnali che indicassero che lei avrebbe rotto, o addirittura temperato, l’estremismo che definisce l’attuale partito democratico. L’appoggio che riceve dai repubblicani anti-Trump si basa esclusivamente sul loro odio per Trump. Una nomina simbolica di un repubblicano nel suo esecutivo gabinetto significherebbe poco, a meno che non si tratti di un incarico importante.

Sulla politica interna, offre più Biden senza l’etichetta Bidenomics. Vuole espandere lo Stato assistenziale anche oltre ciò che ha fatto Biden: per l’assistenza agli anziani e ai bambini, gli alloggi, la sanità e altro ancora. Gli aumenti di tasse da lei proposti superano i quattromila miliardi di dollari in dieci anni. Mostra tutti i segnali di voler espandere e accelerare la regolamentazione ambientale a carico delle aziende, con oneri e obblighi sulle imprese, enormi costi per i contribuenti ma senza alcun beneficio per il cambiamento climatico.

Ciò potrebbe essere tollerabile se la signora Harris dimostrasse, negli affari esteri, di comprendere la fase pericolosa che il mondo attraversa. Invece difende gli ultimi quattro anni come un successo in termini di sicurezza, nonostante due guerre, avversari che guadagnano terreno, e la marina americana che insegue invano i missili nel Mar Rosso.

Parla di avere un esercito forte ma non è riuscita a proporre nulla per ricostruirlo, mentre le minacce proliferano. Se vincesse, Vladimir Putin e Xi Jinping metterebbero presto alla prova il suo coraggio. Sembra impreparata per quei test.

Tutto ciò riflette i consiglieri progressisti e la coalizione di forze che porterebbe nello Studio Ovale. Il suo consigliere sul clima vuole eliminare tutti i combustibili fossili. I suoi assistenti di politica estera sono d’accordo per compiacere l’Iran e imporre restrizioni a Israele.

Una presidenza Harris con un Senato repubblicano metterebbe a freno alcuni dei suoi peggiori istinti politici, almeno fino al 2026, quando la futura mappa elettorale del Senato favorirà i democratici. Ma la maggior parte dei democratici interpreterebbe la sua vittoria come una conferma politica degli ultimi quattro anni. L’ala radicale (Sanders-Warren) del partito farebbe pressioni per ottenere di più.

Il risultato peggiore sarebbe una vittoria di Harris con una vittoria democratica al Congresso. Si salvi chi può. È noto che lei vuole infrangere la regola della maggioranza qualificata al Senato e ristrutturare la Corte Suprema. Ciò creerebbe un’agenda radicale sfrenata, truccherebbe le regole di voto, aumenterebbe il potere sindacale, controllerebbe maggiormente l’economia privata e aggiungerebbe District of Columbia e Porto Rico come stati.

Molti americani vedono tutto questo e continueranno a votare per Harris perché pensano che altri quattro anni di Trump rappresentino un rischio maggiore. Non ci facciamo illusioni sui difetti di Trump e sul rischio che comportano.

Ma gli elettori hanno anche motivo di temere la crudeltà della sinistra attuale, con la sua coercizione normativa, l’imperialismo culturale, lo statalismo economico e il desiderio di eliminare l’indipendenza della magistratura. Se la signora Harris perdesse, questo ne sarà stato il motivo.

sabato 2 novembre 2024

LETTURE FUORI DAL CORO. UN PO' DI "CONTROINFORMAZIONE" A 72 ORE DAL VOTO USA. PARTE PRIMA

Federico Rampini, acuto osservatore della politica americana, propone nella sua newsletter settimanale,GLOBAL, collegata al Corriere della Sera, alle quale ci si può abbonare, propone, con la lettura di due editoriali, un po' di contro-informazione, rispetto ai messaggi dominanti sui grandi media americani sulle imminenti elezioni. 

L'unico giornale che dal 1928 non dà endorsement ad alcun candidato/a, e' il Wall Street Journal, di cui vi traduco qui sotto due editoriali che giudicano Donald Trump e Kamala Harris senza per questo dare indicazioni di voto (i lettori sono abbastanza adulti da non averne bisogno). E' un punto di vista interessante e originale, diverso dai luoghi comuni. Repubblicano ma anti-trumpiano, il WSJ può permettersi affermazioni scomode per tutti.


Wall Street Journal editoriale su Trump

Che scelta presidenziale i due principali partiti politici americani hanno offerto al Paese. La democratica è una radicale californiana, promossa all’ultimo minuto, che sembra impreparata ad un mondo in fiamme. Il repubblicano è Donald Trump, che continua a negare di aver perso nel 2020 e ha fatto poco per rassicurare gli elettori indecisi sul fatto che il suo secondo mandato sarà più calmo del rancoroso primo mandato.

La migliore argomentazione a favore di una vittoria di Trump è che sarebbe un’adeguata penitenza per i numerosi fallimenti dei democratici in patria e all’estero. Un’inflazione alimentata dalla spesa pubblica, che ha ridotto i salari reali. Avversari che avanzano nel mondo. Abusi del potere giudiziario e di regolamentazione burocratica. Se Harris vince, l’ala radicale canterà vittoria e continuerà sulla stessa strada, magari frenata in parte da un Senato repubblicano. Una sconfitta di Harris rallenterebbe la marcia forzata a sinistra, almeno per un po’.

Una seconda argomentazione è che il primo mandato di Trump fu migliore del previsto. La sua leadership era spesso caotica e distruttiva. Ebbe una girandola capi di stato maggiore e consiglieri per la sicurezza. Ma gli elettori ricordano che in patria governò una forte economia pre-Covid, stimolata dalla deregolamentazione e dalla riforma fiscale. Le sue nomine giudiziarie furono eccellenti.

Trump dopo l'attentato a Butler, PA

All'estero infranse molte regole diplomatiche e le sue lodi ai dittatori furono sconcertanti. Ma i nemici rimasero cauti, seppe contenere l’Iran, e gli Accordi di Abramo diedero inizio ad una nuova era di cooperazione tra Israele e gli Stati arabi sunniti. Rinegoziò il mercato comune nordamericano Nafta invece di farlo saltare in aria come aveva minacciato.

Il governo autoritario previsto dai democratici e dalla stampa non c’è mai stato. Trump era troppo indisciplinato, e la sua capacità di attenzione troppo breve, per concentrarsi e ancor meno per organizzare un colpo di Stato. I contropoteri e bilanciamenti americani hanno resistito. I democratici hanno beneficiato della reazione politica di rigetto.

Che dire della rivolta del Campidoglio del 6 gennaio 2021? Il tentativo di Trump di ribaltare le elezioni è stato spaventoso e per molti americani lo squalifica per un secondo mandato. Noi pensavamo che non meritasse di vincere di nuovo la nomination repubblicana.

Ma i democratici hanno contribuito a risollevare le sue fortune con procedimenti giudiziari inauditi e altri eccessi. I democratici hanno reso possibile Trump II tanto quanto gli elettori delle primarie repubblicane. Se Trump vincesse, sarebbe una prova della sua capacità di parlare a nome degli americani che non si sentono rappresentati.

Gli oppositori affermano che un secondo mandato di Trump è un rischio troppo grande, considerati i difetti del suo carattere, e sicuramente non sarebbe un ritorno alla “normalità”. Non crediamo alle paure del fascismo e dubitiamo che ci credano davvero i democratici. La nostra preoccupazione è se riuscirà ad affrontare con successo i problemi urgenti del Paese. La maggior parte dei secondi mandati presidenziali sono deludenti, o peggio, e Trump non ha delineato un’agenda chiara oltre al controllo del confine e all’aumento della produzione energetica. Un rischio ora, a differenza del suo primo mandato, sta nella mancanza di una piattaforma nazionale repubblicana unificata o addirittura coerente. Nel 2017 i suoi successi politici sono state le tradizionali priorità del GOP: deregolamentazione, giudici, e tagli fiscali.

Trump ha istinto ma non una chiara filosofia di governo, e il suo secondo mandato sarà più che mai un’incognita. La maggior parte della sua riforma fiscale del 2017 scadrà alla fine del 2025, e lui ha già complicato il rinnovo proponendo sgravi fiscali che renderanno più difficili da finanziare le misure a favore della crescita. Promette una maggiore deregolamentazione, che è un grande vantaggio. Ma vuole dazi molto più alti e generalizzati, che introdurranno incertezza e rallenterebbero la crescita. Il suo secondo mandato potrebbe essere una lotta tra i fautori del libero mercato e le voci protezionistiche, di politica industriale e pro-sindacati che circondano JD Vance.

Se Trump seguirà quest’ultima ipotesi, il Grand Old Party non sarà più il partito del libero mercato e dello Stato minimo. Questo renderebbe gli Stati Uniti più simili all’Europa a crescita lenta, dove i principali partiti sono tutti statalisti.

Sulla politica estera, chi lo sa? L’ex presidente comprende la deterrenza molto meglio di Harris, ed è probabile che rinnoverà la pressione sull’Iran. Ma è soprattutto un negoziatore e corteggerà Vladimir Putin, Kim Jong Un e Xi Jinping con risultati incerti.

Molto dipenderà dai consiglieri che sceglierà per il Dipartimento di Stato e la Difesa, e se riusciranno a dissuadere Trump dalle pessime idee. Trump si circonda anche di truffatori e provocatori che lo adulano, e molti di essi hanno acquisito nuova importanza man mano che suo figlio Don Jr. guadagna influenza. L’influenza di Mike Pence sulla politica e sul personale ci mancherà.

Queste elezioni avrebbero potuto fornire l’opportunità di un’avanzata repubblicana simile a quella degli anni Ottanta. I sondaggi dicono che gli americani vogliono il cambiamento e sono scontenti dei risultati del governo progressista.

Ma se Trump vincesse, probabilmente lo farebbe in maniera ristretta, e la sua campagna non ha fatto molto per espandere la sua coalizione. Anche dopo il primo tentativo di omicidio, non è riuscito a offrire un messaggio significativo. Il secondo mandato di Trump potrebbe comportare altri quattro anni di guerra partigiana lacerante.

I democratici e la stampa alimenteranno il rancore, poiché mirano a conquistare il Congresso nel 2026 e riconquistare la Casa Bianca nel 2028 mentre il paese si stanca del secondo interregno MAGA. Questo è il rischio che i repubblicani hanno corso nominando Trump per la terza volta, invece di un conservatore più giovane che potrebbe servire due mandati e costruire una nuova maggioranza di centrodestra.

Un secondo mandato di Trump comporta dei rischi, ma la domanda, come sempre, è rispetto a cosa? Gli elettori possono scommettere sul tumulto di Trump o sulla continua ascesa della sinistra democratica. Vorremmo che ci fosse una scelta migliore, ma questa è la democrazia.

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IL SECONDO EDITORIALE NEL PROSSIMO POST