La vasta emozione suscitata dalla morte di Marco Simoncelli ha anticipato di qualche giorno, e in qualche modo reso più acuto, il grande interrogativo che ogni anno il 2
novembre viene a presentarci. Interrogativo che prende le mosse dall’ineluttabilità della morte, si concentra sul suo - possibile o no? - senso e, quindi, si esprime in differenti atteggiamenti di fronte a essa. Joseph Ratzinger scriveva nel 1977 che se l’uomo contemporaneo dovesse chiedere a una qualche divinità un dono di fronte alla morte, «la supplica suonerebbe così: “Donaci una morte improvvisa e inavvertita”. La morte dovrebbe avvenire repentinamente e non lasciar tempo alla riflessione e alla sofferenza. Si vuol chiudere la porta in faccia alla metafisica prima che questa possa presentarsi».
Eppure proprio le reazioni alla morte del giovane motociclista stanno lì a dimostrare che quella porta non si riesce mai a chiuderla davvero. L’interrogativo resta; anche se facciamo molti tentativi per edulcorarne l’amarezza e per smussarne la spinosa dolorosità, anche se ci accontentiamo di consolazioni a buon mercato o ne cerchiamo di più raffinate. Diversa, diceva ancora Ratzinger, è la domanda del credente: «A subitanea morte, libera nos Domine - liberaci, o Signore, da una morte improvvisa. Essere portato via all’improvviso senza essersi potuto preparare, senza sentirsi pronto, è considerato dal cristiano come il massimo dei pericoli da cui vorrebbe essere preservato. Egli vorrebbe percorrere l’ultimo tratto della vita in modo cosciente, vorrebbe morire con una propria intenzione».
Leggendo questa breve sintesi della saggezza di duemila anni di cristianesimo, mi sono reso conto di quanto a fondo sia penetrata in me la mentalità non più cristiana: d’acchito non pregherei così, non mi augurerei un periodo in cui preparare il trapasso. Non sto qui a discutere il perché o a cercare le ragioni sociali o culturali; constato. Ma constato anche che quando l’approccio cristiano alla morte mi viene proposto non posso negare il suo fascino e la sua profonda comprensività. Lo vedo quando, ad esempio, leggo come si sono preparati alla morte certi santi o come la racconta Sigrid Undset in quell’imponente affresco del medioevo nordico che è Kristin figlia di Lavrans.
L’ultimo capitolo del quinto libro della prima parte racconta proprio la morte del padre della protagonista ed è un crescendo di commozione per la dignità dell’umano che vi si trova. Tutto è incredibilmente semplice. Lavrans sa che «s’avvicina rapidamente il momento fatale», ma, pure allettato, molte cose gli restano da fare: dare disposizioni per portare a termine i lavori iniziati, sistemare l’eredità, preoccuparsi della salute dei nipotini, scambiare con gli amici parole che sarebbero state ricordate come le ultime loro rivolte, ascoltare le letture edificanti del vecchio parroco che quotidianamente gli fa visita, raccomandarsi alle preghiere di tutti, chiedere perdono a chi aveva offeso e offrilo a chi aveva offeso lui.
Poi arriva il momento: «Lavrans era pienamente in sé: parlava con voce nitida seppure debole e come in procinto di spegnersi. I famigli si accostavano al letto uno dopo l’altro; ad ognuno Lavrans stringeva la mano ringraziando. Per ultimo si congedò dalla moglie. Si dissero qualcosa che nessuno poté udire, poi si baciarono davanti a tutti». Dopo un ultimo sussulto e dopo aver dichiarato con voce distinta la sua fede nella resurrezione, Lavrans muore. Cosa posso augurarmi di meglio?
Pigi Colognesi lunedì 31 ottobre 2011
http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2011/10/31/Simoncelli-e-Lavrans/print/217968/
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