FASCISMO E COMUNISMO: LE DUE PATOLOGIE ANTIDEMOCRATICHE CHE NON SI RIESCE A SUPERARE
Il 9 maggio
1996, con il suo discorso d’insediamento come presidente della Camera,
Luciano Violante compì il tentativo più importante mai fatto dalla democrazia
repubblicana (dopo l’amnistia promulgata da Togliatti esattamente mezzo secolo
prima) per cercare di eliminare il fattore che fin dal primo dopoguerra
continua a dividere la memoria e la vita politica del Paese: il giudizio sul
suo passato novecentesco.
Una spaccatura che ancora
oggi non cessa di suscitare ogni giorno tentazioni di reciproche
delegittimazioni tra le due parti di un’opinione pubblica e di un mondo
politico profondamente divisi.
L’oggetto della divisione è ben noto: il fascismo. Ma può
essere, è davvero, solo il fascismo? No. La peculiarità della storia italiana — la «complessità» fu
il termine esattissimo del discorso di Violante — non è stata infatti forse
proprio quella di aver dato vita al fascismo, ma insieme anche a un fortissimo
movimento comunista senza eguali in questa parte d’Europa? E non è forse vero che seppure in modi ovviamente ben diversi entrambi
— il fascismo e il comunismo — hanno rappresentato due patologie
antidemocratiche?
Sarebbe bene prenderne atto
una buona volta: quanto ho appena detto non corrisponde solo all’opinione della
destra. È né più né meno, infatti, quanto ha sempre pensato e continua a
pensare la maggioranza degli italiani, anche quelli che con la destra non hanno
mai avuto niente a che fare. E cioè che per
stare dalla parte della democrazia — dell’unica forma reale di essa, quella
liberale — non basta aver combattuto il fascismo: altrimenti anche Stalin e
tutti i suoi accoliti sarebbero da considerare dei veri democratici. In certe
circostanze si può stare dalla parte giusta anche avendo per il resto idee e
principi completamente sbagliati.
Il fatto è che questa
duplicità antidemocratica tanto del fascismo che del comunismo, data per
scontata negli universi politici (e quindi lessicali) di tutti i Paesi
occidentali, in Italia invece non ha molto corso. Da noi è già considerato
sospetto qualunque accenno di accostamento/confronto tra i due. Da noi, a
cominciare dal piano del linguaggio e dunque della costruzione di una memoria
pubblica — entrambi ad ogni effetto decisivi per dar forma ad un comune sentire
— vige la regola assoluta dei due pesi e
due misure.
Un esempio? Giustamente, se un attentato o un delitto terroristico, una strage, sono commessi da qualche militante dei Nar, di Ordine Nuovo, o di qualche altro gruppo eversivo di destra, si parla senza problemi — ripeto, giustamente — di delitto «fascista», di trame «fasciste». Che io sappia, invece, se i medesimi reati sono stati commessi — e Dio sa quante volte è capitato — da militanti di gruppi eversivi di sinistra, mai una volta l’ufficialità repubblicana ha parlato o scritto di delitto «comunista», di trame «comuniste» ecc.
Mai: perfino quando — ed il
più delle volte è stato proprio questo il caso — i fatti di sangue di cui sopra
erano commessi da gruppi che si definivano loro stessi «comunisti»,
inneggiavano al «comunismo», auspicavano loro per primi nei loro documenti
l’avvento di un regime comunista. Le Brigate Rosse, ad esempio, si sono sempre
chiamate «Partito Comunista Combattente». Ma qualcuno ha mai sentito parlare a
loro riguardo di «trame comuniste», di «delitti comunisti» da parte della
stampa che conta o delle Tv che vanno per la maggiore? A me sembra di aver
sempre sentito parlare ogni volta solo di trame «brigatiste», di delitti
«brigatisti».
Ancora: se non ricordo male
su nessuna delle tante targhe che nelle vie e nelle piazze d’Italia ricordano
l’assassinio di qualche vittima del terrorismo rosso è scritto «vittima delle
violenza comunista», laddove non si contano, invece, le targhe che nei casi
opposti parlano senza problemi di «violenza fascista». Mi chiedo: non si nutre
forse anche di queste cose l’inestinguibile e insopportabile faziosità
italiana?
Nel nostro Paese non
riusciremo mai a spezzare l’intreccio perverso delegittimazione/negazione
fintanto che non ci si convincerà che la storia dell’Italia contemporanea — non
quella dal 1922 al 1945, ma tutta quanta, quella dal 1922 al 1991 — ha fatto sì
che il discorso sul fascismo non possa che essere al tempo stesso pure un
discorso sul comunismo. Che la memoria pubblica e cioè il sentire comune
riguardo al primo non possono andare disgiunti dalla memoria pubblica e cioè
dal sentire comune riguardo il secondo. Non già perché così la pensa qualche Settimale
che cerca di intorbidare le acque o qualche obliquo «revisionista», ma perché
questo è il lascito del nostro Novecento. Questa è stata la nostra storia. E
perché questo è, io credo, ciò di cui è convinta nel proprio intimo la
maggioranza degli italiani: come si vede regolarmente ogni volta che si aprono
le urne.
In Italia, il discorso ufficiale sul passato del Paese fatto proprio dalle istituzioni e considerato il solo legittimo, l’ethos pubblico accreditato che le agenzie pubbliche e i maggiori mass media cercano quotidianamente di diffondere e di inculcare riguardo i tanti problemi della nostra società (da quello dei migranti a quello della sicurezza urbana a quello della bioetica) corrispondono solo limitatamente, spesso molto limitatamente, al sentire comune. È lecito dire che un fatto del genere costituisce un tratto di ipocrisia del nostro stare insieme nonché un permanente motivo di grave debolezza delle stesse nostre istituzioni democratiche?
A suo tempo fu oltre che
coraggioso, giustissimo l’invito che a proposito dei «ragazzi e delle ragazze
di Salò» Luciano Violante rivolse innanzitutto alla sua parte perché si
cercasse di capire «le ragioni degli altri». Ma c’è una domanda che un tale
invito immediatamente suscita: è possibile capire le ragioni degli altri, e
serve, senza riconoscere insieme i torti pro pri?
ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
tratto dal corriere della sera
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