Cuor di Leone
di Marcello Veneziani 10 Maggio 2025
Per cominciare, un Papa così non nasce nel segno di
Bergoglio o di Trump. Molti indizi ce lo dicono. Nei due partiti veri o
presunti della Chiesa, i conservatori e i progressisti, questo Papa non figura;
dunque un papa mediano e di mediazione, un papa saggiamente scelto per non
generare in partenza divisioni ed esclusioni.
Di lui possiamo raccontare oltre il passato, solo quei
pochi minuti in cui è apparso affacciandosi su San Pietro e parlando ai fedeli,
con un testo scritto. Dunque, per primo ha voluto chiamarsi Leone e la scelta
dice moltissimo. Non solo e non tanto per i predecessori che ebbero quel nome,
da san Leone Magno, che fermò i barbari e gli eretici, all’ultimo Leone XIII
che fu gran papa e gran fautore, tra l’altro, della dottrina sociale della
Chiesa; ma perché ha voluto attingere dalla tradizione della Chiesa e non dai
nomi degli ultimi papi venuti dopo il Concilio Vaticano II. Se avesse voluto
sottolineare la sua continuità onomastica con Bergoglio avrebbe dovuto
chiamarsi Francesco II o Giovanni XXIV, come suggerì il papa argentino,
pensando a Papa Roncalli e al Concilio Vaticano II. Ha invece voluto lanciare
già nel nome un preciso messaggio: la mia Tradizione è la Chiesa e non la
storia contemporanea, è la storia tutta della Chiesa e non solo il pur eccelso
poverello d’Assisi. In secondo luogo ha voluto vestirsi da Santo Padre, ovvero
come si vestivano i Papi e non come vestiva Bergoglio, ossia secondo liturgia e
tradizione; dalla mozzetta di porpora alla stola con le immagini dei Santi
Apostoli Pietro e Paolo, alla croce che è tornata a splendere perché aurea e
non ferrea, come fu invece quella del suo predecessore. È un messaggio preciso
di continuità con la tradizione millenaria della Chiesa, pur nelle sue
evoluzioni. Oso pensare che la ritrosia di Bergoglio a usare i paramenti sacri
e a risiedere in San Pietro sia dovuta anche alla compresenza di Papa Benedetto
XVI (e tralascio le più spinose questioni di legittimità e simbologia).
Del resto invocare la continuità assoluta con Francesco
era già una contraddizione in termini: se si apprezza di Francesco la sua
discontinuità con i papi precedenti, non vedo perché non si debba apprezzare la
stessa discontinuità del nuovo papa rispetto al suo predecessore. Ma il
criterio va al di là della figura di Francesco, è una questione di principio,
significa abbracciare la Santa Madre Chiesa e non le ultime novità e le ultime
presenze. Nel festival di Sanremo a cui la tv riduce il totoPapa, nell’attesa
della fumata bianca, abbiamo sentito la gente dire le solite banalità
prefabbricate che le somministra la stessa televisione: speriamo che sia come
Francesco, che faccia ponti non muri, sia inclusivo, accogliente, dialogante,
ecologista, pacifista, innovatore in parole e opere, anzi in parolin e opere
(una pupona col microfono dava voce in piazza a una discreta tifoseria o clacque).
Ma, al di là delle idee di Bergoglio, la chiesa non può ridurre la sua
tradizione al corto raggio del papa precedente, riducendo la tradizione al mese
precedente; deve avere un respiro più ampio, sul piano storico e geografico.
A proposito del frasario obbligato che tutti auspicavano,
vorrei ricordare che quando Leone XIV ha ripetuto la parola Pace si
è riferito a Cristo Risorto e non ai pacifisti; quando si è rivolto al mondo
intero non ha fatto la solita menata green; quando ha citato i ponti ha precisato
che primo compito per un Pontefice, come non ci siamo stancati di scrivere
prima della sua elezione, è costruire ponti tra l’umano e il divino, e non solo
ponti tra popoli e migranti. Leone XIV è agostiniano, viene cioè dalla
tradizione più antica dei Padri della Chiesa, la prima tradizione di pensiero
cristiano che precede la Scolastica, che verrà poi con S.Tommaso d’Aquino.
Agostino d’Ippona o di Tagaste, a cui si ispira l’ordine da cui proviene il
nuovo Papa, fu dedito alla fede e all’interiorità, alla scoperta dell’anima, a
S.Paolo e a Platone.
Naturalmente, è del tutto prematuro azzardare giudizi e
previsioni.
Sottolineo solo una divergenza insorta di recente tra
l’allora cardinale Prevost e il vice di Trump, il neo-cattolico Vance. Questi
aveva detto che l’amore per l’umanità intera ha una naturale gerarchia: prima
ami tua madre, i tuoi figli, chi ti è caro e vicino, quindi il tuo popolo,
infine l’umanità intera. È una concezione che ripeto da tempo, e che considero
naturale e umana: non puoi amare dello stesso amore la persona più cara che ti
è accanto e lo straniero più remoto e sconosciuto. C’è una una predilezione che
non ha nulla di esclusione o di discriminazione; anzi la parola stessa prossimo
indica la prossimità come primo criterio. Il cardinal Prevost contestò questa
concezione dicendo che l’amore non fa graduatorie, e in questo, lo riconosco,
fu coerentemente cristiano, così come Vance era stato coerentemente umano.
L’idealismo cristiano del prelato e il realismo naturale e affettivo di Vance.
La tradizione cristiana comprende entrambi: Gesù Cristo predica la forza di
distaccarsi dai propri affetti naturali, andare oltre la propria famiglia,
amare il prossimo a partire dagli ultimi e da chi sta peggio. Ma la cristianità
intera si è edificata poi realisticamente a immagine e somiglianza della Sacra
Famiglia, ponendo l’unione familiare al centro dell’universo affettivo,
religioso, educativo della cristianità.
Un giorno da leoni è troppo presto per capirne i prossimi
cento, e mille e mille ancora. Ma il fatto che nessuna “fazione” abbia
rivendicato il nuovo papa, il fatto che nelle sue parole si siano riconosciuti
tutti o non si sia sentito respinto nessuno, è una incoraggiante premessa, dopo
un papato divisivo. Sperando che il nuovo Papa abbia davvero un coraggio da
Leone per attraversare l’epoca che ha voltato le spalle a Dio, alla fede, ai
legami religiosi e familiari. Che Dio lo assista e il Santo Padre assista noi.
La
Verità – 10 maggio 2025
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