Cari amici, grazie per questa
accoglienza così calorosa; conoscete il titolo della mia conferenza: “Una
compagnia sempre riformanda”. Non c’è bisogno di molta immaginazione per
indovinare che la compagnia di cui qui voglio parlare è la Chiesa. Forse si è evitato
di menzionare nel titolo il termine “Chiesa”, solo perché esso provoca
spontaneamente, nella maggior parte degli uomini di oggi, reazioni di difesa.
Essi pensano: “Di Chiesa abbiamo già sentito parlare fin troppo e per lo più
non si è trattato di niente di piacevole”. La parola e la realtà della Chiesa
sono cadute in discredito. E perciò anche una simile riforma permanente non
sembra poter cambiare qualcosa. O forse il problema è solamente che finora non
è stato scoperto il tipo di riforma che potrebbe fare della Chiesa una compagnia che valga davvero la pena di essere
vissuta?
Ma chiediamoci innanzitutto: perché la
Chiesa riesce sgradita a così tante persone, e addirittura anche a credenti,
anche a persone che fino a ieri potevano essere annoverate tra le più fedeli o
che, pur tra sofferenze, lo sono in qualche modo ancora oggi? I motivi sono tra
loro molto diversi, anzi opposti, a seconda delle posizioni. Alcuni soffrono
perché la Chiesa si è troppo adeguata ai parametri del mondo d’oggi; altri sono
infastiditi perché ne resta ancora troppo estranea. Per la maggior parte della
gente, la scontentezza nei confronti della Chiesa comincia col fatto che essa è
un’istituzione come tante altre, e che come tale limita la mia libertà. La sete
di libertà è la forma in cui oggi si esprimono il desiderio di liberazione e la
percezione di non essere liberi, di essere alienati.
L’invocazione di libertà aspira ad
un’esistenza che non sia limitata da ciò che è già dato e che mi ostacola nel
mio pieno sviluppo, presentandomi dal di fuori la strada che io dovrei
percorrere. Ma dappertutto andiamo a sbattere contro barriere e blocchi stradali
di questo genere, che ci fermano impedendoci di andare oltre. Gli sbarramenti
che la Chiesa innalza si presentano quindi come doppiamente pesanti, poiché
penetrano fin nella sfera più personale e più intima. Le norme di vita della
Chiesa sono infatti ben di più che una specie di regole del traffico, affinché
la convivenza umana eviti il più possibile gli scontri. Esse riguardano il mio
cammino interiore, e mi dicono come devo comprendere e configurare la mia
libertà. Esse esigono da me decisioni, che non si possono prendere senza il
dolore della rinuncia. Non si vuole forse negarci i frutti più belli del
giardino della vita? Non è forse vero che con la ristrettezza di così tanti
comandi e divieti ci viene sbarrata la strada di un orizzonte aperto? E il
pensiero, non viene forse ostacolato nella sua grandezza, come pure la volontà?
Non deve forse la liberazione essere necessariamente l’uscita da una simile
tutela spirituale? E l’unica vera riforma, non sarebbe forse quella di
respingere tutto ciò? Ma allora cosa rimane ancora di questa compagnia?
L’amarezza contro la Chiesa ha però
anche un motivo specifico. Infatti, in mezzo ad un mondo governato da dura
disciplina e da inesorabili costrizioni, si leva verso la Chiesa ancora e
sempre una silenziosa speranza: essa potrebbe rappresentare in tutto ciò come
una piccola isola di vita migliore, una piccola oasi di libertà, in cui di
tanto in tanto ci si può ritirare. L’ira contro la Chiesa o la delusione nei
suoi confronti hanno perciò un carattere particolare, poiché silenziosamente ci
si attende da essa di più che da altre istituzioni mondane. In essa si dovrebbe
realizzare il sogno di un mondo migliore. Quanto meno, si vorrebbe assaporare
in essa il gusto della libertà, dell’essere liberati: quell’uscir fuori dalla
caverna, di cui parla Gregorio Magno ricollegandosi a Platone.
Tuttavia, dal momento che la Chiesa nel
suo aspetto concreto si è talmente allontanata da simili sogni, assumendo
anch’essa il sapore di una istituzione e di tutto ciò che è umano, contro di
essa sale una collera particolarmente amara. E questa collera non può venir
meno, proprio poiché non si può estinguere quel sogno che ci aveva rivolti con
speranza verso di essa. Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si
cerca disperatamente di renderla come la si desidererebbe: un luogo in cui si
possano esprimere tutte le libertà, uno spazio dove siano abbattuti i nostri
limiti, dove si sperimenti quell’utopia che ci dovrà pur essere da qualche
parte. Come nel campo dell’azione politica si vorrebbe finalmente costruire il
mondo migliore, così si pensa, si dovrebbe finalmente (magari come prima tappa
sulla via verso di esso) metter su anche la Chiesa migliore: una Chiesa di
piena umanità, piena di senso fraterno, di generosa creatività, una dimora di
riconciliazione di tutto e per tutti.
Riforma inutile
Ma in che modo dovrebbe accadere questo?
Come può riuscire una simile riforma? Orbene; dobbiamo pur cominciare, si dice.
Lo si dice spesso con l’ingenua presunzione dell’illuminato, il quale è
convinto che le generazioni fino ad ora non abbiano ben compreso la questione,
oppure che siano state troppo timorose e poco illuminate; noi però abbiamo ora
finalmente nello stesso tempo sia il coraggio che l’intelligenza. Per quanta
resistenza possano opporre i reazionari e i “fondamentalisti” a questa nobile
impresa, essa deve venir posta in opera. Almeno c’è una ricetta oltremodo
illuminante per il primo passo. La Chiesa non è una democrazia. Da quanto
appare, essa non ha ancora integrato nella sua costituzione interna quel
patrimonio di diritti della libertà che l’Illuminismo ha elaborato e che da
allora è stato riconosciuto come regola fondamentale delle formazioni sociali e
politiche. Così sembra la cosa più normale del mondo recuperare una buona volta
quanto era stato trascurato e cominciare coll’erigere questo patrimonio
fondamentale di strutture di libertà. Il cammino conduce – come si suol dire –
da una Chiesa paternalistica e distributrice di beni ad una Chiesa-comunità.
Si dice che nessuno più dovrebbe
rimanere passivo ricevitore dei doni che fanno esser cristiano. Tutti devono
invece diventare attivi operatori della vita cristiana. La Chiesa non deve più
venir calata giù dall’alto. No! Siamo noi che “facciamo” la Chiesa, e la
facciamo sempre nuova. Così essa diverrà finalmente la “nostra” Chiesa, e noi i
suoi attivi soggetti responsabili. L’aspetto passivo cede a quello attivo. La
Chiesa sorge attraverso discussioni, accordi e decisioni. Nel dibattito emerge
ciò che ancora oggi può esser richiesto, ciò che oggi può ancora essere
riconosciuto da tutti come appartenente alla fede o come linea morale
direttiva. Vengono coniate nuove “formule di fede” abbreviate. In Germania, a
un livello abbastanza elevato, è stato detto che anche la Liturgia non deve più
corrispondere ad uno schema previo, già dato, ma deve sorgere invece sul posto,
in una data situazione ad opera della comunità per cui viene celebrata. Anche
essa non deve più essere niente di già precostituito, ma invece qualcosa di
fatto da sé, qualcosa che sia espressione di se stessi. Su questa via si rivela
essere un pò di ostacolo, per lo più, la parola della Scrittura, alla quale
però non si può rinunciare del tutto. Si deve allora affrontarla con molta
libertà di scelta. Non sono molti però i testi che si lasciano impiegare in
modo tale da adattarsi senza disturbi a quell’auto-realizzazione, alla quale la
liturgia ora sembra essere destinata.
In quest’opera di riforma, in cui ora
finalmente anche nella Chiesa l'”autogestione” deve sostituire l’esser guidati
da altri, sorgono però presto delle domande. Chi ha qui propriamente il diritto
di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene? Nella democrazia politica,
a questa domanda si risponde con il sistema della rappresentanza: nelle
elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti, i quali prendono le
decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo; è circoscritto anche
contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico, e comprende solo
quegli ambiti dell’azione politica che dalla Costituzione sono assegnati alle
entità statali rappresentative. Anche a questo proposito rimangono delle
questioni: la minoranza deve chinarsi alla maggioranza, e questa minoranza può
essere molto grande. Inoltre, non è sempre garantito che il rappresentante che
ho eletto agisca e parli davvero nel senso da me desiderato, cosicché anche la
maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da vicino, ancora una volta non
può considerarsi affatto interamente come soggetto attivo dell’evento politico.
Al contrario, essa deve accettare anche “decisioni prese da altri”, onde
perlomeno non mettere in pericolo il sistema nella sua interezza.
Più importante per la nostra questione è
però un problema generale. Tutto quello che gli uomini fanno, può anche essere
annullato da altri. Tutto ciò che proviene da un gusto umano può non piacere ad
altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può venire abrogato da un’altra
maggioranza. Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa
una Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è plausibile,
di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni.
L’opinione sostituisce la fede. Ed effettivamente, nelle formule di fede
coniate da sé che io conosco, il significato dell’espressione “credo” non va
mai al di là del significato “noi pensiamo”. La Chiesa fatta da sé ha alla fine
il sapore del “se stessi”, che agli altri “se stessi” non è mai gradito e ben
presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell’ambito
dell’empirico, e così si è dissolta anche come ideale sognato.
L’essenza della vera riforma
L’attivista, colui che vuole costruire
tutto da sé, è il contrario di colui che ammira (l'”ammiratore”). Egli
restringe l’ambito della propria ragione e perde così di vista il Mistero.
Quanto più nella Chiesa si estende l’ambito delle cose decise da sé e fatte da
sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande,
liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a
noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e inventare,
bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che
“è più grande del nostro cuore”. La reformatio, quella che è necessaria in ogni
tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la
“nostra” Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto
che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di
sostegno, in favore della luce purissima che viene dall’alto e che è nello
stesso tempo l’irruzione della pura libertà.
Lasciatemi dire con un’immagine ciò che
io intendo, un’immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in
questo da parte sua antiche concezioni della mistica e della filosofia
cristiane. Con lo sguardo dell’artista, Michelangelo vedeva già nella pietra
che gli stava davanti l’immagine-guida che nascostamente attendeva di venir
liberata e messa in luce. Il compito dell’artista – secondo lui – era solo
quello di toglier via ciò che ancora ricopriva l’immagine. Michelangelo
concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, un
rimettere in libertà, non come un fare.
La stessa idea applicata però all’ambito
antropologico, si trovava già in san Bonaventura, il quale spiega il cammino
attraverso cui l’uomo diviene autenticamente se stesso, prendendo lo spunto dal
paragone con l’intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore non
fa qualcosa, dice il grande teologo francescano. La sua opera è invece
una ablatio: essa consiste nell’eliminare, nel
togliere via ciò che è inautentico. In questa maniera, attraverso la ablatio, emerge la nobilis forma, cioè
la figura preziosa. Così anche l’uomo, affinché risplenda in lui l’immagine di
Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione,
attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che
oscurano l’aspetto autentico del suo essere, facendolo apparire solo come un
blocco di pietra grossolano, mentre invece inabita in lui la forma divina.
Se la intendiamo giustamente, possiamo
trovare in questa immagine anche il modello guida per la riforma ecclesiale.
Certo, la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno, per
poter parlare e operare ad ogni epoca storica. Tali istituzioni ecclesiastiche,
con le loro configurazioni giuridiche, lungi dall’essere qualcosa di cattivo,
sono al contrario, in un certo grado, semplicemente necessarie e
indispensabili. Ma esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa più
essenziale, e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo
esse devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute
superflue. Riforma è sempre nuovamente una ablatio: un toglier
via, affinché divenga visibile la nobilis forma, il
volto della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il
Signore vivente. Una simile ablatio, una simile
“teologia negativa”, è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo così
il Divino penetra, e solo così sorge una congregatio, un’assemblea,
un raduno, una purificazione, quella comunità pura a cui aneliamo: una comunità
in cui un “io” non sta più contro un altro “io”, un “sé” contro un altro “sé”.
Piuttosto quel donarsi, quell’affidarsi con fiducia, che fa parte dell’amore,
diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è puro. E così per
ciascuno vale la parola del Padre generoso, il quale al figlio maggiore
invidioso richiama alla memoria quanto costituisce il contenuto di ogni libertà
e di ogni utopia realizzata: “Tutto ciò che è mio è tuo…” (Lc 15,31; cfr. Gv
17,1).
La vera riforma è dunque una ablatio, che come tale diviene congregatio. Cerchiamo di afferrare in modo un pò
più concreto quest’idea di fondo. In un primo approccio avevamo contrapposto
all’attivista l’ammiratore, e ci eravamo espressi in favore di quest’ultimo. Ma
che cosa esprime questa contrapposizione? L’attivista, colui che vuol sempre
fare, pone la sua propria attività al di sopra di tutto. Ciò limita il suo
orizzonte all’ambito del fattibile, di ciò che può diventare oggetto del suo
fare. Propriamente parlando egli vede soltanto degli oggetti. Non è affatto in
grado di percepire ciò che è più grande di lui, poiché ciò porrebbe un limite
alla sua attività. Egli restringe il mondo a ciò che è empirico. L’uomo viene
amputato. L’attivista si costruisce da solo una prigione, contro la quale poi
egli stesso protesta ad alta voce.
Invece l’autentico stupore è un “No”
alla limitazione dentro ciò che è empirico, dentro ciò che è solamente
l’aldiqua. Esso prepara l’uomo all’atto della fede, che gli spalanca d’innanzi
l’orizzonte dell’Eterno, dell’Infinito. E solamente ciò che non ha limiti è
sufficientemente ampio per la nostra natura, solamente l’illimitato è adeguato
alla vocazione del nostro essere. Dove questo orizzonte scompare, ogni residuo
di libertà diventa troppo piccolo e tutte le liberazioni, che di conseguenza
possono venir proposte, sono un insipido surrogato, che non basta mai. La
prima, fondamentale ablatio, che è
necessaria per la Chiesa, è sempre nuovamente l’atto della fede stessa.
Quell’atto di fede che lacera le barriere del finito e apre così lo spazio per
giungere sino allo sconfinato. La fede ci conduce “lontano, in terre
sconfinate”, come dicono i Salmi. Il moderno pensiero scientifico ci ha sempre
più rinchiusi nel carcere del positivismo, condannandoci così al pragmatismo.
Per merito suo si possono raggiungere
molte cose; si può viaggiare fin sulla luna e ancora più lontano,
nell’illimitatezza del cosmo. Tuttavia, nonostante questo, si rimane sempre
allo stesso punto, perché la vera e propria frontiera, la frontiera del
quantitativo e del fattibile, non viene oltrepassata. Albert Camus ha descritto
l’assurdità di questa forma di libertà nella figura dell’imperatore Caligola:
tutto è a sua disposizione, ma ogni cosa gli è troppo stretta. Nella sua folle
bramosia di avere sempre di più, e cose sempre più grandi, egli grida: Voglio
avere la luna, datemi la luna! Ora, nel frattempo, è divenuto per noi possibile
avere in qualche modo anche la luna. Ma finché non si apre la vera e propria
frontiera, la frontiera fra terra e cielo, tra Dio e il mondo, anche la luna è
solamente un ulteriore pezzetto di terra, e il raggiungerla non ci porta
neanche di un passo più vicini alla libertà e alla pienezza che desideriamo.
La fondamentale liberazione che la
Chiesa può darci è lo stare nell’orizzonte dell’Eterno, è l’uscir fuori dai
limiti del nostro sapere e del nostro potere. La fede stessa, in tutta la sua
grandezza e ampiezza, è perciò sempre nuovamente la riforma essenziale di cui
noi abbiamo bisogno; a partire da essa noi dobbiamo sempre di nuovo mettere
alla prova quelle istituzioni che nella Chiesa noi stessi abbiamo fatto. Ciò
significa che la Chiesa deve essere il ponte della fede, e che essa –
specialmente nella sua vita associazionistica intramondana – non può divenire
fine a se stessa. diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici
elevati, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata
in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica
dell’attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato
o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all’interno della Chiesa. In un
qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un’attività ecclesiale, si
deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa.
Ma uno specchio che riflette solamente
se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno
sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra
l’osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso. Può capitare che qualcuno
eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia
non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo
semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l’amore che proviene
dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi
mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di
sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano. Non è
di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina;
solo allora essa sarà anche veramente umana. E per questo tutto ciò che è fatto
dall’uomo, all’interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suo puro carattere
di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale.
La libertà, che noi ci aspettiamo con
ragione dalla Chiesa e nella Chiesa non si realizza per il fatto che noi
introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto
che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua
possibile. Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio
volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla volontà
dell’Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà. Nella Chiesa
l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero
dimenticano che il Sacramento non è una spartizione di potere, ma è invece
espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del quale io devo
parlare ed agire. Dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la
sempre maggiore autoespropriazione, lì nessuno è schiavo dell’altro; lì domina
il Signore e perciò vale il principio che: “Il Signore è lo Spirito. Dove però
c’è lo Spirito del Signore ivi c’è la libertà” (2Cor 3, 17).
Quanti più apparati noi costruiamo,
siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è
spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà. lo penso che noi dovremmo,
sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame
di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza
dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé una ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto
autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà
e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova.
Morale, perdono ed espiazione: il centro
personale della riforma
Guardiamo un attimo, prima di andare
avanti, a quanto fin qui abbiamo messo in luce. Abbiamo parlato di un doppio
“toglimento”, di un atto di liberazione, che è un duplice atto: di
purificazione e di rinnovamento. Da prima il discorso ha toccato la fede, che
infrange le mura del finito e libera lo sguardo verso le dimensioni
dell’Eterno, e non solo lo sguardo, ma anche la strada. La fede è infatti non
soltanto riconoscere ma operare; non soltanto una frattura nel muro, ma una
mano che salva, che tira fuori dalla caverna. Da ciò abbiamo tratto la
conseguenza, per le Istituzioni, che l’essenziale ordinamento di fondo della
Chiesa ha sì bisogno sempre di nuovi sviluppi concreti e di concrete
configurazioni – affinché la sua vita si possa sviluppare in un tempo
determinato – ma che però queste configurazioni non possono diventare la cosa
essenziale. La Chiesa infatti non esiste allo scopo di tenerci occupati come
una qualsiasi associazione intramondana e di conservarsi in vita essa stessa,
ma esiste invece per divenire in noi tutti accesso alla vita eterna.
Ora dobbiamo compiere un passo
ulteriore, e applicare tutto questo non più al livello generale e oggettivo
quale era finora, ma all’ambito personale. Infatti anche qui, nella sfera
personale, è necessario un “toglimento” che ci liberi. Sul piano personale non
è sempre e senz’altro la “forma preziosa”, cioè l’immagine di Dio inscritta in
noi, a balzare all’occhio. Come prima cosa noi vediamo invece soltanto
l’immagine di Adamo, l’immagine dell’uomo non del tutto distrutto, ma pur
sempre decaduto. Vediamo le incrostazioni di polvere e sporcizia, che si sono
posate sopra l’immagine. Noi tutti abbiamo bisogno del vero Scultore, il quale
toglie via ciò che deturpa l’immagine, abbiamo bisogno del perdono, che
costituisce il nucleo di ogni vera riforma. Non è certamente un caso che nelle tre
tappe decisive del formarsi della Chiesa, raccontate dai Vangeli, la remissione
dei peccati giochi un ruolo essenziale.
C’è in primo luogo la consegna delle
chiavi a Pietro. La potestà a lui conferita di legare e sciogliere, di aprire e
chiudere, di cui qui si parla, è, nel suo nucleo, incarico di lasciar entrare,
di accogliere in casa, di perdonare (Mt 16,19). La stessa cosa si trova di
nuovo nell’Ultima Cena, che inaugura la nuova comunità a partire dal corpo di
Cristo e nel corpo di Cristo. Essa diviene possibile per il fatto che il
Signore versa il suo sangue “per i molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,28). Infine il Risorto, nella sua prima
apparizione agli Undici, fonda la comunione della sua pace nel fatto che egli
dona loro la potestà di perdonare (Gv 20,19-23). La
Chiesa non è una comunità di coloro che “non hanno bisogno del medico”, bensì
una comunità di peccatori convertiti, che vivono della grazia del perdono,
trasmettendola a loro volta ad altri.
Se leggiamo con attenzione il Nuovo
Testamento, scopriamo che il perdono non ha in sé niente di magico; esso però
non è nemmeno un far finta di dimenticare, non è “un fare come se non”, ma
invece un processo di cambiamento del tutto reale, quale lo Scultore lo compie.
Il toglier via la colpa rimuove davvero qualcosa; l’avvento del perdono in noi
si mostra nel sopraggiungere della penitenza. Il perdono è in tal senso un
processo attivo e passivo: la potente parola creatrice di Dio su di noi opera
il dolore del cambiamento e diventa così un attivo trasformarsi. Perdono e
penitenza, grazia e propria personale conversione non sono in contraddizione,
ma sono invece due facce dell’unico e medesimo evento. Questa fusione di
attività e passività esprime la forma essenziale dell’esistenza umana. Infatti
tutto il nostro creare comincia con l’essere creati, con il nostro partecipare
all’attività creatrice di Dio.
Qui siamo giunti ad un punto veramente
centrale: credo infatti che il nucleo della crisi spirituale del nostro tempo
abbia le sue radici nell’oscurarsi della grazia del perdono. Notiamo però
dapprima l’aspetto positivo del presente: la dimensione morale comincia
nuovamente a poco a poco a venir tenuta in onore. Si riconosce, anzi è divenuto
evidente, che ogni progresso tecnico è discutibile e ultimamente distruttivo,
se ad esso non corrisponde una crescita morale. Si riconosce che non c’è
riforma dell’uomo e dell’umanità senza un rinnovamento morale. Ma l’invocazione
di moralità rimane alla fine senza energia, poiché i parametri si nascondono in
una fitta nebbia di discussioni. In effetti l’uomo non può sopportare la pura e
semplice morale, non può vivere di essa: essa diviene per lui una “legge”, che
provoca il desiderio di contraddirla e genera il peccato.
Perciò là dove il perdono, il vero
perdono pieno di efficacia, non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale
deve venir tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il
singolo uomo non possano mai propriamente verificarsi. A grandi linee si può
dire che l’odierna discussione morale tende a liberare gli uomini dalla colpa,
facendo sì che non subentrino mai le condizioni della sua possibilità. Viene in
mente la mordace frase di Pascal: “Ecce patres, qui tollunt peccata mundi!”.
Ecco i padri, che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi “moralisti”, non
c’è semplicemente più alcuna colpa. Naturalmente, tuttavia, questa maniera di
liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro, gli
uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il peccato
c’è, che essi stessi sono peccatori e che deve pur esserci una maniera
effettiva di superare il peccato. Anche Gesù stesso non chiama infatti coloro
che si sono già liberati da sé e che perciò – come essi ritengono – non hanno
bisogno di Lui, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò
hanno bisogno di Lui.
La morale conserva la sua serietà
solamente se c’è il perdono, un perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade
nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c’è solo se c’è il “prezzo
d’acquisto”, l'”equivalente nello scambio”, se la colpa è stata espiata, se
esiste l’espiazione. La circolarità che esiste tra “morale – perdono
-espiazione” non può essere spezzata; se manca un elemento cade anche tutto il
resto. Dall’indivisa esistenza di questo circolo dipende se per l’uomo c’è
redenzione oppure no. Nella Torah, nei cinque
libri di Mosé, questi tre elementi sono indivisibilmente annodati l’uno
all’altro e non è possibile perciò da questo centro compatto appartenente al
Canone dell’Antico Testamento scorporare, alla maniera illuminista, una legge
morale sempre valida, abbandonando tutto il resto alla storia passata. Questa
modalità moralistica di attualizzazione dell’Antico Testamento finisce
necessariamente in un fallimento; in questo punto preciso stava già l’errore di
Pelagio, il quale ha oggi molti più seguaci di quanto non sembri a prima vista.
Gesù ha invece adempiuto a tutta la Legge, non solamente ad una parte di essa e
così l’ha rinnovata dalla base. Egli stesso, che ha patito espiando ogni colpa,
è espiazione e perdono contemporaneamente, e perciò è anche l’unica sicura e
sempre valida base della nostra morale.
Non si può disgiungere la morale dalla
cristologia, poiché non la si può separare dall’espiazione e dal perdono. In Cristo
tutta quanta la Legge è adempiuta, e quindi la morale è diventata una vera,
adempibile esigenza rivolta nei nostri confronti. A partire dal nucleo della
fede, si apre così sempre di nuovo la via del rinnovamento per il singolo, per
la Chiesa nel suo insieme e per l’umanità.
La sofferenza, il martirio e la gioia
della Redenzione
Su questo ci sarebbe ora molto da dire.
Cercherò però solo, molto brevemente, di accennare come conclusione, ancora a
ciò che nel nostro contesto mi appare come la cosa più importante. Il perdono e
la sua realizzazione in me, attraverso la via della penitenza e della sequela,
è in primo luogo il centro del tutto personale di ogni rinnovamento. Ma proprio
perché il perdono concerne la persona nel suo nucleo più intimo, esso è in
grado di raccogliere in unità, ed è anche il centro del rinnovamento della
comunità.
Se infatti vengono tolte via da me la
polvere e la sporcizia, che rendono irriconoscibile in me l’immagine di Dio,
allora in tal modo io divengo davvero anche simile all’altro, il quale è anche
lui immagine di Dio, e soprattutto io divengo simile a Cristo, che è l’immagine
di Dio senza limite alcuno, il modello secondo il quale noi tutti siamo stati
creati. Paolo esprime questo processo in termini assai drastici: “La vecchia
immagine è passata, ecco ne è sorta una nuova; non sono più io che vivo, ma
Cristo vive in me” (Gal 2,20). Si tratta di un processo di morte e di nascita.
Io sono strappato al mio isolamento e sono accolto in una nuova
comunità-soggetto; il mio “io” è inserito nell`io” di Cristo e così è unito a
quello di tutti i miei fratelli. Solamente a partire da questa profondità di
rinnovamento del singolo nasce la Chiesa, nasce la comunità che unisce e
sostiene in vita e in morte. Solamente quando prendiamo in considerazione tutto
ciò, vediamo la Chiesa nel suo giusto ordine di grandezza.
La Chiesa: essa non è soltanto il
piccolo gruppo degli attivisti che si trovano insieme in un certo luogo per
dare avvio ad una vita comunitaria. La Chiesa non è nemmeno semplicemente la
grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l’Eucarestia.
E infine, la Chiesa è anche di più che Papa, vescovi e preti, di coloro che
sono investiti del ministero sacramentale. Tutti costoro che abbiamo nominato
fanno parte della Chiesa, ma il raggio della compagnia in cui entriamo mediante
la fede, va più in là, va persino al di là della morte. Di essa fanno parte
tutti i Santi, a partire da Abele e da Abramo e da tutti i testimoni della
speranza di cui racconta l’Antico Testamento, passando attraverso Maria, la
Madre del Signore, e i suoi apostoli, attraverso Thomas Becket e Tommaso Moro,
per giungere fino a Massimiliano Kolbe, a Edith Stein, a Piergiorgio Frassati.
Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno
conobbe tranne Dio; di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi e tutti i
tempi, il cui cuore si protende sperando e amando verso Cristo, “l’autore e
perfezionatore della fede”, come lo chiama la lettera agli Ebrei (12,2).
Non sono le maggioranze occasionali che
si formano qui o là nella Chiesa a decidere il suo e il nostro cammino. Essi, i
Santi, sono la vera, determinante maggioranza secondo la quale noi ci
orientiamo. Ad essa noi ci atteniamo! Essi traducono il divino nell’umano,
l’eterno nel tempo. Essi sono i nostri maestri di umanità, che non ci abbandonano
nemmeno nel dolore e nella solitudine, anzi anche nell’ora della morte
camminano al nostro fianco.
Qui noi tocchiamo qualcosa di molto
importante. Una visione del mondo che non può dare un senso anche al dolore e
renderlo prezioso non serve a niente. Essa fallisce proprio là dove fa la sua
comparsa la questione decisiva dell’esistenza. Coloro che sul dolore non hanno
nient’altro da dire se non che si deve combatterlo, ci ingannano. Certamente
bisogna fare di tutto per alleviare il dolore di tanti innocenti e per limitare
la sofferenza. Ma una vita umana senza dolore non c’è, e chi non è capace di
accettare il dolore, si sottrae a quelle purificazioni che sole ci fanno
diventar maturi.
Nella comunione con Cristo il dolore
diventa pieno di significato, non solo per me stesso, come processo di ablatio, in cui Dio toglie da me le scorie che oscurano
la sua immagine, ma anche al di là di me stesso esso è utile per il tutto,
cosicché noi tutti possiamo dire con San Paolo: “Perciò sono lieto delle
sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai
patimenti di Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Thomas Becket, che insieme con l’Ammiratore
e con Einstein ci ha guidato nelle riflessioni di questi giorni, ci incoraggia
ancora ad un ultimo passo. La vita va più in là della nostra esistenza
biologica. Dove non c’è più motivo per cui vale la pena morire, là anche la
vita non val più la pena.
Dove la fede ci ha aperto lo sguardo e
ci ha reso il cuore più grande, ecco che qui acquista tutta la sua forza di
illuminazione anche quest’altra frase di San Paolo: “Nessuno di noi vive per se
stesso, e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il
Signore; se moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo,
siamo dunque del Signore” (Rom 14,7-8). Quanto
più noi siamo radicati nella compagnia con Gesù Cristo e con tutti coloro che a
Lui appartengono, tanto più la nostra vita sarà sostenuta da quella irradiante
fiducia cui ancora una volta San Paolo ha dato espressione: “Di questo io sono
certo: né morte né vita, né angeli né potestà, né presente né futuro, né
potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci
dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore” (Rom 8,38-39).
Cari amici, da simile fede noi dobbiamo
lasciarci riempire! Allora la Chiesa cresce come comunione nel cammino verso e
dentro la vera vita, e allora essa si rinnova di giorno in giorno. Allora essa
diventa la grande casa con tante dimore; allora la molteplicità dei doni dello
Spirito può operare in essa. Allora noi vedremo “com’è buono e bello che i
fratelli vivano insieme. E’ come rugiada dell’Ermon, che scende sul monte di
Sion; là il Signore dona benedizione e vita in eterno” (Sal 133,1.3).
(Joseph Ratzinger, Meeting di Rimini 1990)