venerdì 29 luglio 2011
UNA GRANDE BATTAGLIA CULTURALE
Una vittoria importante in un silenzio che inquieta
di Marco Invernizzi
da "labussolaquotidiana"
28-07-2011
Non è vero che non ci siano mai “buone notizie” nella nostra Italia di oggi, così malandata da tanti punti di vista. La nuova bocciatura, il 26 luglio, del progetto di legge (293 sì contro 250 no e 21 astenuti) che prevedeva un’aggravante per i reati di omofobia e transfobia è una buona notizia.
Per diversi motivi.
Intanto perché ferma per la terza volta un progetto di legge che era orientato non tanto a “proteggere” una categoria, omosessuali e transessuali, ma a riconoscere l’omosessualità e la transessualità come qualcosa di particolarmente prezioso, che deve essere prima “normalizzato” e poi addirittura valorizzato. In sostanza, la posta in gioco non era e non è impedire violenze contro gli omosessuali (bastano le leggi vigenti), ma affermare che ogni orientamento sessuale ha identico valore, e gridare allo scandalo ogniqualvolta qualcuno afferma, come fa il Catechismo della Chiesa Cattolica, per esempio, che gli atti omosessuali sono oggettivamente disordinati (nn. 2357-2359). Insomma, era abbastanza evidente che questo progetto di legge avrebbe dovuto preludere al riconoscimento pubblico del matrimonio gay e all’adottabilità per legge di figli da parte di coppie omosessuali.
Soprattutto, quanto accaduto era una delle manifestazioni di una grande battaglia culturale che attraversa da secoli tutto l’Occidente fra chi afferma e chi nega l’esistenza di una legge naturale. Soltanto se abbiamo presenti le caratteristiche di questa grande battaglia culturale possiamo comprendere il valore di quanto avvenuto in Parlamento con la bocciatura del progetto di legge sull’omofobia. Perché se esiste una natura, esiste una legge universale uguale per tutti, esiste un modello di famiglia, esiste un diritto sacro alla vita per ogni essere umano, che sia all’inizio o al termine del suo cammino. Ma se non esiste una natura creata, che si manifesta anche attraverso la sessualità, allora tutto è veramente possibile e ogni desiderio dell’uomo deve essere autorizzato e valorizzato, perché non esiste più né vero né falso, né bene né male.
Ora, avere fermato questo itinerario, non per sempre certamente ma su un punto importante, è stata una entusiasmante e importante vittoria della cultura della vita e della famiglia. Però, bisogna anche aggiungere, se ne sono accorti in pochi. Non solo le forze politiche della maggioranza di centro-destra non si sono prodigate in gesti di soddisfazione, ma gli stessi quotidiani del centro-destra sono sembrati quasi intimiditi di fronte alla vittoria parlamentare, come se dovessero giustificare il fatto di avere assunto posizioni di questo tipo.
Gli interventi di Giancarlo Loquenzi su il Giornale e di Giordano Tedoldi su Libero a commento della bocciatura certamente non lasciano trasparire il risentimento e la rabbia di altri quotidiani laicisti per un provvedimento qualificato come oscurantista, ma sembrano quasi intimoriti dalla vittoria, preoccupati dei diritti dei gay e lontani dall’aver compreso la portata culturale e morale dello scontro. Ma vi è chi onestamente possa ancora pensare che oggi in Italia è minacciato il diritto di essere omosessuale e di vivere apertamente questa condizione?
Inoltre, la bocciatura in Parlamento ha evidenziato l’esistenza di una maggioranza politica più estesa della stessa maggioranza governativa. Non è un successo da sottolineare? Non è importante ricordare che sui principi non negoziabili la maggioranza si allarga all’Udc, anche se perde il sostegno dell’on. Santo Versace, assiste all’incomprensibile astensione dell’on. Claudio Scajola e a quella, prevedibile dopo aver sponsorizzato il progetto, del ministro Mara Carfagna? Non è importante affermare che il governo si sa compattare quando sono in gioco i valori fondamentali della nostra civiltà, così come avvenne per tentare di difendere la vita di Eluana?
Invece purtroppo questo non accade e riappare con evidenza la debolezza culturale delle forze politiche del centro-destra e del loro retroterra informativo. Una debolezza che potrebbe nascere dall’esistenza di orientamenti culturali diversi all’interno di partiti e giornali, oppure dalla mancanza di personale adeguato a condurre questa battaglia di idee più che di scontro di poteri, oppure per altri motivi che non conosciamo. Ma certamente questa debolezza esiste ed è un problema. Essa non permette neppure di utilizzare come boccate di ossigeno in un periodo particolarmente avaro di soddisfazioni per la maggioranza quelle vittorie che pure arrivano, ogni tanto.
Siamo tra i pochi Paesi europei che sono riusciti a impedire l’introduzione di una legge che avrebbe discriminato la maggioranza eterosessuale del Paese e avviato un ulteriore passaggio contro il matrimonio e la famiglia. Siamo riusciti a mandare un messaggio importante agli abitanti di tutta Europa: in Italia il matrimonio è cosa di un uomo e di una donna. Punto. Dovrebbe essere un motivo di fierezza e di orgoglio, non di atteggiamenti preoccupati e sempre sulla difensiva.
DOPPIO ERRORE EVITATO
LEGGE SULL'OMOFOBIA
Bene ha fatto ieri la Camera dei deputati a dire "no", sottolineandone la incostituzionalità, a una "legge speciale" a tutela delle persone omosessuali.
In Italia, infatti, abbiamo leggi a sufficienza per combattere violenze e discriminazioni. Basta solo decidersi ad applicarle – con rigore, continuità e in perfetta aderenza ai valori di riferimento di Costituzione e ordinamento – per affermare che la nostra civiltà è basata sul rifiuto di ogni forma di intolleranza e sulla piena tutela della dignità e della sfera personale di ciascuno tanto quanto sul giusto rispetto della libertà di pensiero e di opinione.
Sin dall’inizio della vicenda parlamentare delle norme sulla «omofobia» era del resto apparso chiaro a chi fosse riuscito a sottrarsi alla sirene di una propaganda avvolgente e a ragionare a mente fredda che l’obiettivo – lungo la traccia di operazioni già riuscite altrove – era diversamente ambizioso: non solo e non tanto introdurre una speciale forma di protezione per una categoria di persone specialmente a rischio, quanto piuttosto affermare politicamente e normativamente una "super-normalità" delle persone omosessuali attraverso la formalizzazione di una esemplare eccezione. Un tentativo sbagliato due volte, perché avventato sul piano giuridico e controproducente sul piano dell’impatto sociale.
Meglio, molto meglio, allora, restare affidati alla chiarezza dei princìpi cardine e delle regole che ne discendono. Purché si torni anche a considerare con la dovuta urgenza che, per far valere princìpi e regole, serve qualcosa che forse sembra banale, ma banale purtroppo non è più: tanta buona educazione. Che non è solo galateo, ma appunto un’educazione buona, cioè vera e umanamente profonda. Tesa a formare uomini e donne di autentica e civile moralità, che sentono e riconoscono come del tutto sbagliati e, dunque, da riprovare e ritenere giustamente sanzionabili brutalità e aggressivi esibizionismi, invettive e insulti, volgarità e prevaricazioni. Questo, e questo solo, serve a questo nostro Paese: leggi uguali per tutti.
di Marco Tarquinio
Tratto da Avvenire del 27 luglio 2011
ROGER SCRUTON : OMOSESSUALITA', LEGGE, MATRIMONIO
L’omosessualità è irriducibile e non ha senso normalizzare
“È assunto che nelle società occidentali quando l’unione sessuale si esprime fra adulti consenzienti in privato, la legge deve rimanere fuori”.
Secondo il filosofo Roger Scruton nella discussione su omosessualità, legge e matrimonio, in gioco non c’è il riconoscimento dei diritti individuali degli omosessuali, ma il tentativo di normalizzare, assorbendolo, un fenomeno irriducibile.
“Questo principio si applica all’omosessualità come all’adulterio. Le leggi trattano l’omosessualità come una tendenza comparabile all’eterosessualità. Il sadomasochismo è sanzionato perché può causare danni alla persona. Le società occidentali hanno varato riforme liberali sull’omosessualità e le persone hanno imparato a tollerare e a creare uno spazio pubblico gay. Si chiama progresso”.
Tuttavia, l’attivismo è andato oltre.
“L’omosessualità deve diventare ‘normale’. Attraverso le false nozioni di diritti umani e discriminazione, la cultura gay ha usato la legge per avanzare un’agenda culturale e morale. Però i diritti, emersi dalla speculazione medievale sulla giustizia naturale, non sono messi al sicuro semplicemente per il fatto di dichiararli”.
Secondo Scruton, la tradizione cattolica è insuperata proprio nella lezione secondo cui, così come lo stato può elargire diritti, un giorno potrà anche toglierli. “La chiesa cattolica è del tutto ragionevole nel pensare che l’omosessualità sia una deviazione dalla norma delle relazioni umane sessuali. La nostra accettazione dello stile di vita gay friendly, delle coppie gay e della scena pubblica gay non hanno confutato l’insegnamento cattolico secondo cui queste sono autentiche alternative, non altre normalità, alla vita eterosessuale. Normale è l’unione eterosessuale fra un uomo e una donna uniti nell’autosacrificio dal quale la società interamente dipende. La propaganda che cerca di riscrivere l’eterosessualità come ‘orientamento’ sessuale è un tentativo di persuaderci a ignorare il vero scopo dell’unione sessuale: una generazione che lascia il passo a un’altra. Se il sesso è orientamento, non c’è differenza di genere, solo di direzione. La concezione liberal del sesso è stata adottata perché facile, non perché sia veritiera della condizione umana. Una pura etica della liberazione non funziona”.
Il matrimonio è l’espressione istituzionale del desiderio, non la sua costrizione.
“E’ l’inviolabilità del matrimonio distinta dalla coabitazione secolarizzata.
Nel matrimonio abbiamo la nobilitazione del desiderio sessuale, ricostruito come intenzione razionale. E’ sorridendo, arrossendo e piangendo che la perdita di controllo sul corpo crea l’immediata esperienza della persona incarnata. La questione omosessuale non verte su diritti, libertà e possibilità di vita dei gay, è una controversia sull’idea di matrimonio, questa transizione esistenziale, e verte sull’accettazione dell’esistenza di un desiderio omosessuale considerato
innocente
ROGER SCRUTON SEXUAL DESIRE
Scruton e i gay
Il matrimonio è presa di coscienza della mortalità e tentativo di sconfiggerla, i figli c’entrano
Autore di “Sexual desire”, l’inglese Roger Scruton definisce il sesso come la sfera in cui l’animale e il personale si incontrano.
“Le discussioni su quest’esperienza sono state condotte attraverso un idioma scientista, che può rimuovere il sesso dalla sfera delle relazioni interpersonali e rimodellarlo come relazione fra oggetti. Se cerchiamo di descrivere il desiderio sessuale attraverso categorie biologiche, perdiamo l’intenzionalità dell’emozione sessuale.
Ridotto a una funzione corporea, il desiderio è emancipato dalla moralità. La caricatura che ne risulta non è desiderio, ma perversione. La letteratura erotica è sulla ricerca di una persona, la pornografia sulla ricerca del sesso. Il desiderio sessuale non è desiderio per le sensazioni, ma per una persona. E’ diventato impossibile distinguere fra desiderio omosessuale ed eterosessuale.
Il desiderio è sempre compromettente e la scelta se esprimerlo o reprimerlo è esistenziale, in cui il soggetto è in pericolo.
Il matrimonio non è solo l’unione di un uomo e una donna, ma il forum da cui passa il capitale sociale. Le generazioni assenti sono al centro”.
Secondo Scruton su questi temi la chiesa cattolica appare sulla difensiva, ma “la grandiosità del suo progetto sta nell’idea che non è il desiderio ma la scelta il cuore morale di una persona. Alla chiesa non ha giovato il decennio della rivoluzione ‘un-marriage’. Ma fa onore alla sua nobiltà non aver mai compiaciuto l’autoindulgenza della cultura contemporanea. Per gli avvocati della liberazione sessuale, i peccati sessuali non sono peccati di piacere, ma quelli contro il piacere.
Il secolarismo ha reso difficile spiegare perché l’unione omosessuale è impossibile: ciò che è possibile è il contratto per il reciproco piacere, non lo è proprio l’unione sacramentale che la chiesa cerca da duemila anni di definire. Fin da Platone, gli omosessuali si sono distinti come grandi maestri. Ma è stato lo stesso Platone a spiegare che gli omosessuali, come anche gli eterosessuali, devono imparare la via del sacrificio secondo cui non sono solo i desideri a governarci, ma gli interessi della comunità”.
Si apre il tema sublime della relazione fra matrimonio e mortalità. “Il matrimonio è un voto di unione ‘finché morte non ci separi’. E’ una presa di coscienza della mortalità e un tentativo di sconfiggerla. Per questo i figli sono così importanti: sono la prova che la mortalità può essere sconfitta. E’ difficile esprimere a parole questo aspetto del matrimonio.
Ma è reso molto bene dalla sua natura sacramentale, in altre parole è una relazione a cui l’Eterno prende parte”. (g.m.)
Il foglio 9/02/07
mercoledì 27 luglio 2011
SPECCHIO DELLE MIE BRAME
IERI IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO,
ON. GIORGIO NAPOLITANO,
HA RICEVUTO IL CAPO DELL'OPPOSIZIONE, ON, GIORGIO NAPOLITANO,
ALLA PRESENZA DEL CAPO DELLO STATO, ON. GIORGIO NAPOLITANO.
ON. GIORGIO NAPOLITANO,
HA RICEVUTO IL CAPO DELL'OPPOSIZIONE, ON, GIORGIO NAPOLITANO,
ALLA PRESENZA DEL CAPO DELLO STATO, ON. GIORGIO NAPOLITANO.
L'AULA DEL DISONORE
Il vento dell’antipolitica soffia ormai impetuoso e solo il tempo potrà far comprendere la portata della pagina che si è consumata in Parlamento la scorsa settimana con l’arresto di Papa.
Gli interventi di Maurizio Paniz (deputato) e Gaetano Quagliarello (senatore)
Camera dei Deputati
Discussione di una domanda di autorizzazione a eseguire la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti del deputato Papa.
Intervento dell’On. Maurizio Paniz (PdL)
Signor Presidente, colleghi, i processi non si fanno con le verità giornalistiche, spesso parziali e interessate, ma con le carte processuali, anche con quelle 14.932 che, più di uno, in Giunta per le autorizzazioni, ha ritenuto di poter prescindere dal leggere. I processi certamente si fanno nelle aule dei tribunali, alle quali Alfonso Papa non si sottrarrà, ma il processo all'esistenza del fumus persecutionis verso un parlamentare - verso di lui - si fa in questa Aula, oggi: non c'è riesame e non c'è grado di appello. La storia giudicherà quest'epoca politica, la morale di ciascuno giudicherà l'etica del comportamento dell'onorevole Papa; ma sulla sua libertà personale ora decidiamo noi. Rimanere indifferenti ad indici precisi di un evidente fumus persecutionis è impossibile. Alfonso Papa, deputato, magistrato, incensurato, non gravato da alcun carico pendente ha chiesto invano, per ben cinque volte, al pubblico ministero di essere sentito, disponibile a fornirgli la prova provata, ossia la prova documentale dell'inesistenza dei reati, poi contestatigli.
Alfonso Papa è stato a lungo direttamente intercettato. Alfonso Papa è stato a lungo pedinato e spesso fotografato, financo sulla porta di questo palazzo Montecitorio. Alfonso Papa è stato informato della misura cautelare richiesta, ad evidenza finalizzata ad una spettacolarizzazione dell'inchiesta, dalle note di agenzia, prima di averlo appreso ufficialmente. Si contesta la - si fa per dire - gravissima accusa della diffusione di notizie attinenti a tre procedimenti penali e si assiste contemporaneamente, nella totale indifferenza, alla divulgazione di ben 15 mila atti processuali coperti dal segreto investigativo Indaga Napoli, ma non c'è un solo fatto di rilevanza penale contestato ad Alfonso Papa che sia accaduto in quella competenza territoriale (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).
Questo Parlamento non può rimanere indifferente al rilievo che Alfonso Papa è stato fedele collaboratore di un capo dell'ufficio della procura di Napoli, Agostino Cordova, contro il quale si è scatenata una battaglia capeggiata proprio da uno dei due pubblici ministeri che ora lo accusano, o al ricordo che l'altro, con il quale Alfonso Papa aveva un notorio rapporto conflittuale, quando erano colleghi della stessa procura (financo nella stessa stanza) - rapporto conflittuale che avrebbe dovuto suggerire un'astensione, più che un affiancamento all'originario inquirente - sia proprio quel dottor Woodcock, che ha chiesto le manette per il nostro collega Salvatore Margiotta (Commenti dei deputati del gruppo Partito Democratico), smentito dopo la nostra decisione, prima dalla revoca della misura cautelare ad opera del tribunale del riesame e poi dalla piena assoluzione. Si tratta dello stesso pubblico ministero che l'Italia ricorda protagonista mediatico dell'arresto spettacolare, per gravi e infamanti reati, del principe Vittorio Emanuele, poi felicemente prosciolto in istruttoria da un diverso ufficio giudiziario Anche in questi casi, come in quello dell'onorevole Papa, c'era un giudice ad aver vagliato l'impianto accusatorio, ma non è bastato ad evitare i danni. Accettando la richiesta d'arresto ci si fa travolgere dall'onda mediatica e giustizialista del «Dagli all'untore!» di manzoniana memoria e si subisce il fascino della subdola diffusione di ricostruzioni parziali e interessate o di intercettazioni illegittimamente carpite.
G8 2001 DIECI ANNI PASSATI INVANO
Dieci anni passati invano.
Dieci anni fa i media accarezzavano in chiave antiberlusconiana il movimento no global finendo col convincere tanti giovani confusi che fosse cosa buona e giusta partire per Genova in occasione del G8.
Un letterato di gran fiuto come Alberto Arbasino presentì il disastro, scrisse una delle sue brevi poesie civili e la spedì ai giornali ai quali collaborava, Repubblica e Corriere della sera, per averne un duplice rifiuto. A respingere la pubblicazione, è giusto ricordarlo in tempo di commemorazioni, furono rispettivamente Ezio Mauro e Ferruccio De Bortoli (ricordatevelo quando li sentirete evocare, come spesso fanno, minacce governative alla libertà di espressione). La profetica poesia si intitolava, incredibile ma vero, "Un morto a Genova" e descriveva con precisione impressionante ("C'è un morto per terra/come in guerra") quanto sarebbe accaduto di lì a poco, ma evidentemente per quei prestigiosi giornaloni i gi-ottini erano dei bravi ragazzi che avrebbero messo fiori nelle pistole dei poliziotti, alba di un mondo migliore che sarebbe sorto non appena il perfido Berlusconi, colpito da tanto spettacolo, si fosse spontaneamente dimesso.
Sappiamo com'è andata a finire. Bene, dieci anni dopo siamo punto e a capo.
Anche stavolta un povero cristiano legge i quotidiani e ne ricava che il mondo si divide fra buoni e cattivi e che i buoni sono sempre quelli che vogliono abbattere un governo democraticamente eletto mentre i cattivi sono sempre quegli altri, i democraticamente eletti. Oggi pomeriggio a Genova ci sarà il corteo del decennale che vorrebbe rappresentare la beatificazione definitiva di Carlo Giuliani, l'Uomo dell’Estintore (mi rifiuto di chiamarlo ragazzo, come con molto compiacimento si continua a fare, per il semplice motivo che aveva ventitré anni compiuti, l'età in cui si può guidare una Ferrari da 335 chilometri all'ora, si può contrarre un mutuo per qualsiasi cifra, si può fare il sindaco del proprio Comune: insomma l'età in cui si è uomini, certamente giovani ma uomini).
Come andrà a finire? Non sono Arbasino, sono felice di non possedere doti divinatorie, ma certo i giornali non sembrano avere imparato nulla e come allora soffiano obliquamente sul fuoco. Certo non dicono che bisogna spaccare la faccia ai carabinieri come stava allegramente facendo un sodale del Giuliani in piazza Alimonda (vi ricordate? Quello che aveva sfondato con una lunga asse il vetro del fuoristrada in trappola). Però danno grande spazio ai variamente farneticanti Giuliani (padre) e Giuliano (Pisapia), mai arginati da adeguato contraddittorio, e a chiunque da internet o da video straparli di "stato di polizia", ad esempio il giornalista britannico Mark Covell ripreso dal Fatto come fosse un Cristo in croce.
Quando il sindaco di Milano afferma contro ogni logica che Giuliani (figlio) minacciava il prossimo con un estintore perché desiderava "un mondo più democratico" io comincio a preoccuparmi: siccome per me un estintore è solo un oggetto utile a spegnere le fiamme, rischio la nomea di antidemocratico e una democratica estintorata sui denti.
Le parole sono pietre e l'espressione "stato di polizia" suscita non il diritto bensì il dovere di ribellarsi, e con qualsiasi mezzo: perfino Tommaso d’Aquino, un Santo, un Dottore della Chiesa, nel caso di regime illegale autorizzava il tirannicidio. Pertanto dire "stato di polizia" significa avvicinarsi a dire che uccidere Berlusconi è giusto, rendiamoci conto.
In un clima così pesante il Corriere non ci risparmia una propaganda editoriale tutta giulianista: promuove il libro gi-ottesco di Roberto Ferrucci e quello quasi altrettanto schierato del proprio Marco Imarisio, per il quale sono sufficienti titolo e sottotitolo "La ferita. Il sogno infranto dei no global italiani". Chissà cosa pensa il carabiniere Mario Placanica di questi sognatori che prima lo hanno aggredito a sprangate poi gli hanno rovinato la vita a forza di processi. Ma forse la televisione pubblica, essendo pagata da tutti i cittadini compresi i tutori dell’ordine, offre una ricostruzione più equilibrata? Buonanotte. In Rai lo specialista dei fatti genovesi è Carlo Lucarelli, un altro che parla di "proteste pacifiche" (chissà se erano violente) e "morte di un ragazzo" (e dagli col ragazzo).
Parole sbagliate, parole pericolose che certo ispireranno i partecipanti al corteo: non vorrei essere in divisa, oggi, a Genova.
di Camillo Langone
Tratto da Libero del 23 luglio 2011
venerdì 22 luglio 2011
MA COME PARLI, COMPAGNO?
Il Foglio ha preso un abbaglio clamoroso.
Ha “interpretato” un intervento di ieri di Napolitano dandogli dei significati che lo stesso ha smentito in modo categorico il giorno dopo.
Ecco testo del breve editoriale.
Napolitano contro i mulini a vento
La saggia (e disperata) battaglia del Quirinale contro gli abusi dei pm. (sic!)
Giorgio Napolitano ha scelto il giorno successivo alla votazione che ha consentito alla magistratura napoletana di mettere in carcere un deputato per esprimere un giudizio di netta riprovazione per il protagonismo e la politicizzazione che sembrano dettare il ruolino di marcia di alcune procure.
Denuncia, con inusuale durezza, “condotte che creino indebita confusione di ruoli e fomentino l’ormai intollerabile, sterile scontro tra politica e magistratura”, ripete il suo monito contro l’uso spregiudicato e la diffusione preordinata delle intercettazioni “cui non sempre si fa ricorso – come invece insegna la Corte di Cassazione – solo nei casi di assoluta indispensabilità per specifiche indagini e delle quali viene poi spesso divulgato il contenuto pur quando esso è privo di rilievo processuale”, critica “l’inserimento nei provvedimenti giudiziari di riferimenti non pertinenti o chiaramente eccedenti” e chiede il massimo “scrupolo nella valutazione degli elementi necessari per decidere l’apertura di un procedimento e, a maggior ragione, la richiesta o l’applicazione di misure cautelari”.
Chi da tempo esprime preoccupazione per l’intromissione della magistratura nelle vicende politiche, per l’uso spregiudicato dei poteri giudiziari a cominciare da quello delicatissimo di privare della libertà personale persone non ancora giudicate, trova conforto nelle parole che vengono dal Quirinale. Di questo conforto si sentiva il bisogno, per continuare in una battaglia per il rispetto delle garanzie che in questi giorni amari sembra quasi una battaglia talmente impari da apparire illusoria come quella di un don Chisciotte contro i mulini a vento.
Ecco la risposta del vero Capo dell’opposizione riportata dal giornale di partito “Repubblica” di oggi
"Napolitano ha respinto le letture di chi, in quel discorso, ha visto una volontà di ridimensionare il ruolo di magistrati. "Ho parlato proprio ieri della funzione di fondamentale interesse nazionale di cui è portatrice la magistratura con l'obbligo di intervenire di fronte a ogni singolo, concreto caso in cui si manifestino sindromi di violenza, forme vecchie e nuove di corruzione, abusi di potere e attività truffaldine, che oggi dominano la cronaca quotidiana - ha spiegato Napolitano -. Come si possa cogliere in un discorso che partiva da quella affermazione il rischio di veder posti sullo stesso piano chi commette i reati e chi li combatte, lascio a voi giudicarlo. Ma più di qualche commento polemico di difensori d'ufficio della magistratura - ha aggiunto - mi interessa l'apprezzamento che è venuto da numerosi suoi autorevoli esponenti. Da parte della sua stessa Associazione rappresentativa si mostra di ben comprendere i miei richiami, d'altronde ben noti in quanto costanti e coerenti negli anni. Ho richiamato - ha sottolineato ancora il Capo dello Stato - a comportamenti che non offuschino la credibilità ed il prestigio dei magistrati e non indeboliscano l'efficacia dei loro interventi a tutela della legalità".
"Dal Capo dello Stato, infine, una stoccata al governo sulla successione ad Angelino Alfano al ministero della Giustizia: "Io sono pronto in qualunque momento", ha detto, "ma mi pare che loro abbiano altri pensieri". (da Repubblica, stesso articolo)
È ancora più chiaro che “loro” sono gli avversari politici del Presidente capo dell’opposizione.
Perché il Foglio cerca di cambiare le carte in tavola?
Ha “interpretato” un intervento di ieri di Napolitano dandogli dei significati che lo stesso ha smentito in modo categorico il giorno dopo.
Ecco testo del breve editoriale.
Napolitano contro i mulini a vento
La saggia (e disperata) battaglia del Quirinale contro gli abusi dei pm. (sic!)
Giorgio Napolitano ha scelto il giorno successivo alla votazione che ha consentito alla magistratura napoletana di mettere in carcere un deputato per esprimere un giudizio di netta riprovazione per il protagonismo e la politicizzazione che sembrano dettare il ruolino di marcia di alcune procure.
Denuncia, con inusuale durezza, “condotte che creino indebita confusione di ruoli e fomentino l’ormai intollerabile, sterile scontro tra politica e magistratura”, ripete il suo monito contro l’uso spregiudicato e la diffusione preordinata delle intercettazioni “cui non sempre si fa ricorso – come invece insegna la Corte di Cassazione – solo nei casi di assoluta indispensabilità per specifiche indagini e delle quali viene poi spesso divulgato il contenuto pur quando esso è privo di rilievo processuale”, critica “l’inserimento nei provvedimenti giudiziari di riferimenti non pertinenti o chiaramente eccedenti” e chiede il massimo “scrupolo nella valutazione degli elementi necessari per decidere l’apertura di un procedimento e, a maggior ragione, la richiesta o l’applicazione di misure cautelari”.
Chi da tempo esprime preoccupazione per l’intromissione della magistratura nelle vicende politiche, per l’uso spregiudicato dei poteri giudiziari a cominciare da quello delicatissimo di privare della libertà personale persone non ancora giudicate, trova conforto nelle parole che vengono dal Quirinale. Di questo conforto si sentiva il bisogno, per continuare in una battaglia per il rispetto delle garanzie che in questi giorni amari sembra quasi una battaglia talmente impari da apparire illusoria come quella di un don Chisciotte contro i mulini a vento.
Ecco la risposta del vero Capo dell’opposizione riportata dal giornale di partito “Repubblica” di oggi
"Napolitano ha respinto le letture di chi, in quel discorso, ha visto una volontà di ridimensionare il ruolo di magistrati. "Ho parlato proprio ieri della funzione di fondamentale interesse nazionale di cui è portatrice la magistratura con l'obbligo di intervenire di fronte a ogni singolo, concreto caso in cui si manifestino sindromi di violenza, forme vecchie e nuove di corruzione, abusi di potere e attività truffaldine, che oggi dominano la cronaca quotidiana - ha spiegato Napolitano -. Come si possa cogliere in un discorso che partiva da quella affermazione il rischio di veder posti sullo stesso piano chi commette i reati e chi li combatte, lascio a voi giudicarlo. Ma più di qualche commento polemico di difensori d'ufficio della magistratura - ha aggiunto - mi interessa l'apprezzamento che è venuto da numerosi suoi autorevoli esponenti. Da parte della sua stessa Associazione rappresentativa si mostra di ben comprendere i miei richiami, d'altronde ben noti in quanto costanti e coerenti negli anni. Ho richiamato - ha sottolineato ancora il Capo dello Stato - a comportamenti che non offuschino la credibilità ed il prestigio dei magistrati e non indeboliscano l'efficacia dei loro interventi a tutela della legalità".
"Dal Capo dello Stato, infine, una stoccata al governo sulla successione ad Angelino Alfano al ministero della Giustizia: "Io sono pronto in qualunque momento", ha detto, "ma mi pare che loro abbiano altri pensieri". (da Repubblica, stesso articolo)
È ancora più chiaro che “loro” sono gli avversari politici del Presidente capo dell’opposizione.
Perché il Foglio cerca di cambiare le carte in tavola?
giovedì 21 luglio 2011
IL PRESIDENTONE INTOCCABILE
Il caso Belpietro
come Cochi e Renato
di Rino Cammilleri
21-07-2011
Quando il duo comico Cochi & Renato era in gran voga, uno dei loro sketch più surreali consisteva in un duello. La scelta delle armi spettava a Cochi, che sceglieva una pistola. Però a Renato restava una macchina fotografica. Per giunta, dopo essersi schierato, veniva rimproverato, falsamente, perché si era «mosso».
Ebbene, la lotta politica nel nostro Paese ricorda molto quel lontano sketch. Anzi, lo supera nel grottesco. E non fa nemmeno ridere. In Italia la stampa nazionale schierata con l’attuale governo è limitata a un paio di testate importanti, il resto sta con l’opposizione. Ma viene fischiata dagli arbitri se solo «si muove», mentre gli altri possono impazzare come vogliono. L’ultima è l’impeachment di Maurizio Belpietro, direttore del quotidiano «Libero», che si è permesso di pubblicare un scherzosa vignetta sul Presidente della Repubblica. Il quale, peraltro, nella vignetta non è solo.
Il tema è noto: un gruppo di politici mangia una pizza a forma di Italia. E’ noto anche quanto costi al contribuente la Presidenza italiana, che ha spese e personale molto superiori a quelli della monarchia inglese. Ma la magistratura è intervenuta prontamente: vilipendio.
Proprio noi della Bussola avevamo deplorato quella che, sul «Fatto», vilipendeva alla grande Giovanni Paolo II proprio durante la festa della sua beatificazione; una vignetta che non era nemmeno divertente, solo blasfema e semipornografica. Ma nessun magistrato ha almeno alzato un sopracciglio. Niente. Niente nemmeno dal famoso Ordine dei Giornalisti, il quale è sempre repentino quando si tratta di sospendere giornalisti filogovernativi come Vittorio Feltri o Renato Farina, quest’ultimo addirittura radiato.
L’opposizione fa «satira» diuturna con comici & ballerine, imitatori & registi, talkshow televisivi (a spese del contribuente) esclusivamente & ossessivamente dedicati al Berluska, vignettisti & cabarettisti che, non di rado, travalicano sull’osceno & turpiloquente. Ma gli arbitri non fanno una piega. Però, appena Pozzetto e la sua macchina fotografica si «muovono», piovono fulmini, denunce, cortei, monetine, cagnara & gazzarra, vesti stracciate, inquisizioni & perquisizioni, la democrazia ferita & attentata si sgola. Ma non è finita. Berlusconi è indagato per aver chiesto al direttore della Rai: ma quand’è che butti fuori quel Santoro? Se l’abbia fatto davvero è da accertare.
In ogni caso è giusto che non si possa escludere dal «servizio pubblico» uno che ne fa uso privato a spese di pantalone? Al sottoscritto hanno rubato l’auto e, per aver chiesto alla polizia di prendere le impronte digitali del ladro, si è preso una sghignazzata in faccia. Però, per il furto di una videocamera nell’auto di Santoro è sceso in campo addirittura il Ris. La vera Casta non è quella dei parlamentari, i cui stipendi sono elevati (dappertutto) per non indurli in tentazione. La Casta è quella che ha preso il potere, un potere diffuso e trasversale, dal Sessantotto in poi. E che, da allora, ragiona così: o comandiamo noi o sfasciamo tutto.
Contro di essa non serve nemmeno il voto. Quando tornerà al comando, finalmente la «satira» smetterà di essere antigovernativa e se la prenderà con l’opposizione. Perché la pistola ce l’avrà sempre Cochi.
http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-il-caso-belpietro-come-cochi-e-renato-2527.htm
lunedì 18 luglio 2011
LA VITTORIA DI IPPOCRATE
DI FRANCESCO D'AGOSTINO
Il disegno di legge sul fine vita e sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), approvato dalla Camera, sta suscitando polemiche vivacissime e assolutamente legittime, se non per i toni, spesso deplorevoli, che stanno assumendo (puntualmente è tornato ad affacciarsi sulla prima pagina della "Repubblica" Stefano Rodotà, con il compito di vituperarla. Questa volta, però, sembra proprio che Rodotà abbia passato ogni limite nella sua, aggressività verbale, peraltro ormai ben nota: la legge sarebbe «ideologica, violenta, bugiarda, sgrammaticata, incostituzionale». Basta? Certo che no. A questa sfilza di complimenti, Rodotà ne aggiunge altri: la legge disprezzerebbe l’opinione pubblica, sarebbe la «quintessenza di un dispotismo etico», rifletterebbe «un fondamentalismo cattolico incomprensibile», farebbe «scempio» del «diritto fondamentale» all’autodeterminazione, trasformerebbe le dichiarazioni anticipate di trattamento in «macchine inutili, frutto di un delirio burocratico» e attraverso di essa il presidente del Consiglio «e la sua docilissima schiera» metterebbero «le mani sul corpo di ciascuno di noi».).
Che però da parte di alcuni si continui a lamentare che questo testo violi il doveroso rispetto che si deve all’autonomia della volontà dei pazienti lascia davvero meravigliati. Così come desta meraviglia sentir contrapporre al testo del disegno di legge italiano quello della Convenzione europea di bioetica (o Convenzione di Oviedo), quando contrapposizione non c’è sotto alcun profilo. Oviedo si guarda bene dall’auspicare un’obbligatorietà per il medico di applicare le Dat, ma si limita a dire che esse dovranno «essere prese in considerazione».
Esattamente quello che dice il disegno di legge votato a Montecitorio, che prevede addirittura, per favorire la loro esatta acquisizione da parte dei medici, l’istituzione di un registro nazionale consultabile via internet. Definire «pomposa» tale norma, come qualcuno ha fatto, significa non rendersi conto che questo è appunto il modo migliore per far prendere sul serio le Dat, senza giungere all’estremo – rischiosissimo – di renderle giuridicamente «vincolanti».
Su questo punto della vincolatività, da tempo su 'Avvenire' ribadiamo concetti molto semplici, su cui nessuno dei critici della legge ha però la compiacenza di riflettere (magari per criticarli). Anche per questo mi spiace registrare che alcuni critici della legge lamentino l’assenza in materia di una «discussione ampia e sincera» (con chi si può discutere, quando l’interlocutore volta la faccia da un’altra parte e si tappa le orecchie?). Ci sono ottime ragioni che inducono a non rendere vincolanti le Dichiarazioni, come bene venne spiegato a suo tempo dal Comitato nazionale per la bioetica, quando – per evitare ogni equivoco – all’unanimità preferì appunto l’espressione «Dichiarazioni » anziché «Direttive anticipate».
Riassumiamo la questione in due premesse e in una conclusione.
Prima premessa: le Dat non sono, per principio, «attuali»; vengono in genere redatte diversi anni prima della loro eventuale utilizzazione.
Seconda premessa: nessuno può avere «a priori» la certezza della capacità di intendere e di volere del sottoscrittore nel momento della sottoscrizione delle Dichiarazioni o di una sua adeguata informazione, soprattutto per quel che concerne l’evoluzione delle sue possibili patologie e delle relative pratiche medico-terapeutiche.
Conclusione: è quindi ragionevole che le Dat non siano vincolanti, ma che il medico che le acquisisce possa (eventualmente!) disattenderle, motivando adeguatamente la sua decisione.
È in questo modo che si rispetta in concreto la persona umana (articolo 32, 2° comma, della Costitu-zione), evitando il rischio altissimo dell’abbandono terapeutico, cui potrebbero andar incontro (nel nome di un astratto rispetto della loro «insindacabile autonomia»!) soggetti che potrebbero essere molto anziani, fragili, colpiti da una varietà di gravi patologie, in stato di necessità economica o privi di sostegni familiari e la cui sottoscrizione delle Dat potrebbe essere priva di credibilità o comunque non calibrata sulla loro situazione sanitaria reale. Un’ultima osservazione.
Smettiamola di invocare, a proposito della legge sulle Dat, il principio su¬premo di laicità dello Stato (sul quale concordano tutti, anche e in primo luogo i cattolici). Abbiamo ripetuto infinite volte – senza tema di essere smentiti – che questa legge è ispirata non alla dottrina 'cattolica', ma ai principi della medicina ippocratica (risalenti al quarto secolo avanti Cristo), tra i quali è prioritario quello del rispetto per la vita. La medicina ippocratica non impone la difesa della vita «a ogni costo» e non ne fa un principio dogmatico, ottuso e indiscutibile: è perfettamente coerente con i suoi principi la rinuncia all’accanimento terapeutico, anche quando da tale rinuncia potesse conseguire un’accelerazione del processo del morire.
Ciò che non è coerente con la medicina ippocratica è l’eutanasia. Che tra coloro che criticano la legge sulle Dat ci siano in prima fila, e con particolare virulenza, espliciti fautori della 'dolce morte' dovrebbe dare molto a pensare a quale sia l’autentico portato bioetico di questa legge
DA AVVENIRE
DAT: UNA LEGGE NECESSARIA
Dat, legge necessaria
per il bene della vita
L’approvazione della legge sulle Dat alla Camera fissa alcuni principi normativi che chiariscono definitivamente i termini del rapporto medico-paziente in ordine alle scelte terapeutiche.
1. Viene riaffermato – dopo casi come quelli Welby ed Englaro che avevano dato luogo a vicende di eutanasia passiva attraverso l’interruzione di presidi vitali – che è reato l’assistenza da parte del medico e del personale sanitario alla disattivazione di trattamenti e cure. Disporre la sospensione di un sostegno vitale avrebbe significato chiedere a un altro di privarmi della vita, sarebbe stato il caso dell’eutanasia, che invece la legge vieta con chiarezza. Diverso è invece il caso in cui i trattamenti e gli interventi siano inutili e sproporzionati: essi non dovranno neanche essere attivati in quanto si tratterebbe di una forma di accanimento terapeutico, contrario alla dignità della persona.
2. Il rapporto tra medico e paziente è ora regolato dal principio del consenso informato. Si tratta di una relazione che va sotto il nome di «alleanza terapeutica» e che riguarda in particolare le situazioni in cui i pazienti siano vigili e consapevoli, dunque in grado di comprendere ciò che gli viene proposto, gli effetti terapeutici stimati e la possibilità che si desideri rifiutare la terapia. La legge prevede ciò che sino a oggi era soltanto una prassi e cioè che il paziente cosciente e consapevole debba obbligatoriamente essere adeguatamente informato sui trattamenti e sugli interventi che può subire al fine di poter esprimere il suo consenso. Senza il consenso non si potranno attivare trattamenti sanitari. Ma la regola non opera nel caso in cui ci si trovi in una situazione d’emergenza, nella quale si configuri una situazione di rischio immediato per il paziente.
3. Nei casi di incoscienza del paziente, proprio per avere elementi di conoscenza sugli orientamenti in ordine alle terapie da somministrare può rivelarsi utile un documento scritto (le Dichiarazioni anticipate di trattamento). Sul valore giuridico di questo documento molto si era dibattuto, in particolare in punto di vincolatività per il medico di eseguire ciò che vi era scritto. Ora la legge assume una scelta saggia ed equilibrata: proprio perché le situazioni possono essere diversificate e differenti da come erano state immaginate nel momento della redazione del testo e soprattutto perché la redazione di tali direttive è comunque decontestualizzata rispetto all’eventuale verificarsi di un trauma o di una patologia, tale documento non può possedere carattere vincolante. Resta al medico, dunque la scelta in ordine alla terapia da somministrare e deve annotare nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguire o meno le Dat.
4. Tale documento può anche contenere la rinuncia da parte del soggetto a trattamenti sanitari ma – ed è un chiarimento introdotto proprio nella versione appena approvata – tale rinuncia può essere esplicitata soltanto per forme particolari di trattamento in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale.
5. Le Dat non possono contenere la rinuncia all’alimentazione e all’idratazione, salvo che siano inefficaci rispetto alla capacità di assorbimento del paziente. La nutrizione (anche non assistita) è infatti sempre decisiva per mantenere in vita gli esseri umani. Se la legge avesse invece consentito la rinuncia ora per allora anche all’alimentazione si sarebbero realizzate nuovamente vicende come quella della decisione del padre-tutore che nel caso Englaro ha scelto di interrompere il sostentamento parenterale della sua assistita.
6. La legge afferma anche che le Dat non sono sempre valide, in quanto il paziente potrebbe trovarsi in una situazione di incapacità transitoria. In particolare si stabilisce il principio che esse assumono rilievo solo quando vi sia assenza di attività cerebrale specifica.
7. La legge prevede che l’assistenza ai soggetti in stato vegetativo rappresenta livello essenziale di assistenza. Ciò garantisce concretamente che in tali casi non si verifichino stati da abbandono neanche di fatto.
Alberto Gambino
da Avvenire
L’opinione di un poeta cattolico: la morte un tempo era un fatto collettivo, un rito di appartenenza e non di solitudine
E’ una legge per uomini soli, che mi mette molto a disagio
Una legge che definisca come esprimere volontà circa la propria morte è una legge per uomini soli. Si compie l’immagine dell’uomo come monade, vagheggiata da filosofi che volevano far fuori lo scandalo della nascita. Dell’esser nati, e dunque concepiti in una serie di relazioni. E come concepiti viventi. L’uomo monade, invece, deve poter vivere slegato. Con relazioni importanti solo in quanto da lui scelte. C’è qualcosa di triste, irreparabilmente nella discussione su questa legge.
Qualcosa che mette a disagio, comunque la si pensi in proposito. Ha fatto bene Ferrara a rimarcarlo. Una legge resa necessaria forse dalle intemperanze di alcuni magistrati, dal via libera a una specie di eutanasia nel caso della povera Eluana. E tuttavia una legge che fa tristezza. Una legge per uomini soli, come ormai sembra fatta la nostra intera società. Anch’io vorrei morire senza andare dal notaio. Ma fidandomi di figli, mogli, amici, donne che abbiano pietà di me e rispetto di me nel momento “della nostra morte”. Un tempo la morte era un fatto collettivo. Personalissimo, ma collettivo nel suo evento e nel suo rituale.
Era un rito di appartenenza, non di solitudine. Gli storici e gli antropologi hanno mostrato come le usanze erano segnate dalla condivisione, non dalla separatezza. Il pasto dopo il funerale che ancora in molti luoghi si compie è l’estremo segno di un essere insieme di fronte all’evento che segna la nostra condizione. Morire era un fatto comune, e dunque condivisibile. Delegarne i contorni, le minime scelte in tanti dettagli a una autorità che sia fuori, impersonale, rispetto alla comunità che durante la vita e nell’ora estrema si costituisce intorno al morente, è uno sfregio ai movimenti primari, naturalissimi dell’essere società. Ed è strano che a muoversi con accanimento in questa direzione – sotto lo slogan individualistico di “autodeterminazione”– siano esponenti di quelle ideologie che proprio su una idea di società e sulla sua importanza quasi metafisica hanno fondato la loro ragion politica.
Forse idolatrando la società hanno finito per perderne i contorni umanissimi, viventi. I vescovi italiani, dopo una certa titubanza si sono arresi alla necessità di una legge, sotto l’impulso di iniziative giudiziarie che peraltro non mancheranno anche dopo l’approvazione della legge, per piegarne i sempre possibili cavilli a fini eutanasici. Ma questa immensa tristezza – acuita dal fatto pure di dividersi come di fronte alla vita nascente di fronte alla vita morente – potrebbe essere per tutti occasione estrema di riscossa. Ma perché la tristezza diventi occasione di riscossa occorre che poggi su una grande gioia. Quella ineffabile che viene dal condividere il mistero della nascita e il mistero della morte con luoghi di società vera. Solo chi conosce questa vera gioia (rara, ormai in un mondo di monadi) può dalla tristezza di questo passaggio trovare nuove linfe per lottare per una visione della vita che, come diceva Baudelaire, non avvilisca il cuore, ma rispetti le condizioni della vita.
di Davide Rondoni
da Ilfoglio.it
per il bene della vita
L’approvazione della legge sulle Dat alla Camera fissa alcuni principi normativi che chiariscono definitivamente i termini del rapporto medico-paziente in ordine alle scelte terapeutiche.
1. Viene riaffermato – dopo casi come quelli Welby ed Englaro che avevano dato luogo a vicende di eutanasia passiva attraverso l’interruzione di presidi vitali – che è reato l’assistenza da parte del medico e del personale sanitario alla disattivazione di trattamenti e cure. Disporre la sospensione di un sostegno vitale avrebbe significato chiedere a un altro di privarmi della vita, sarebbe stato il caso dell’eutanasia, che invece la legge vieta con chiarezza. Diverso è invece il caso in cui i trattamenti e gli interventi siano inutili e sproporzionati: essi non dovranno neanche essere attivati in quanto si tratterebbe di una forma di accanimento terapeutico, contrario alla dignità della persona.
2. Il rapporto tra medico e paziente è ora regolato dal principio del consenso informato. Si tratta di una relazione che va sotto il nome di «alleanza terapeutica» e che riguarda in particolare le situazioni in cui i pazienti siano vigili e consapevoli, dunque in grado di comprendere ciò che gli viene proposto, gli effetti terapeutici stimati e la possibilità che si desideri rifiutare la terapia. La legge prevede ciò che sino a oggi era soltanto una prassi e cioè che il paziente cosciente e consapevole debba obbligatoriamente essere adeguatamente informato sui trattamenti e sugli interventi che può subire al fine di poter esprimere il suo consenso. Senza il consenso non si potranno attivare trattamenti sanitari. Ma la regola non opera nel caso in cui ci si trovi in una situazione d’emergenza, nella quale si configuri una situazione di rischio immediato per il paziente.
3. Nei casi di incoscienza del paziente, proprio per avere elementi di conoscenza sugli orientamenti in ordine alle terapie da somministrare può rivelarsi utile un documento scritto (le Dichiarazioni anticipate di trattamento). Sul valore giuridico di questo documento molto si era dibattuto, in particolare in punto di vincolatività per il medico di eseguire ciò che vi era scritto. Ora la legge assume una scelta saggia ed equilibrata: proprio perché le situazioni possono essere diversificate e differenti da come erano state immaginate nel momento della redazione del testo e soprattutto perché la redazione di tali direttive è comunque decontestualizzata rispetto all’eventuale verificarsi di un trauma o di una patologia, tale documento non può possedere carattere vincolante. Resta al medico, dunque la scelta in ordine alla terapia da somministrare e deve annotare nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguire o meno le Dat.
4. Tale documento può anche contenere la rinuncia da parte del soggetto a trattamenti sanitari ma – ed è un chiarimento introdotto proprio nella versione appena approvata – tale rinuncia può essere esplicitata soltanto per forme particolari di trattamento in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale.
5. Le Dat non possono contenere la rinuncia all’alimentazione e all’idratazione, salvo che siano inefficaci rispetto alla capacità di assorbimento del paziente. La nutrizione (anche non assistita) è infatti sempre decisiva per mantenere in vita gli esseri umani. Se la legge avesse invece consentito la rinuncia ora per allora anche all’alimentazione si sarebbero realizzate nuovamente vicende come quella della decisione del padre-tutore che nel caso Englaro ha scelto di interrompere il sostentamento parenterale della sua assistita.
6. La legge afferma anche che le Dat non sono sempre valide, in quanto il paziente potrebbe trovarsi in una situazione di incapacità transitoria. In particolare si stabilisce il principio che esse assumono rilievo solo quando vi sia assenza di attività cerebrale specifica.
7. La legge prevede che l’assistenza ai soggetti in stato vegetativo rappresenta livello essenziale di assistenza. Ciò garantisce concretamente che in tali casi non si verifichino stati da abbandono neanche di fatto.
Alberto Gambino
da Avvenire
L’opinione di un poeta cattolico: la morte un tempo era un fatto collettivo, un rito di appartenenza e non di solitudine
E’ una legge per uomini soli, che mi mette molto a disagio
Una legge che definisca come esprimere volontà circa la propria morte è una legge per uomini soli. Si compie l’immagine dell’uomo come monade, vagheggiata da filosofi che volevano far fuori lo scandalo della nascita. Dell’esser nati, e dunque concepiti in una serie di relazioni. E come concepiti viventi. L’uomo monade, invece, deve poter vivere slegato. Con relazioni importanti solo in quanto da lui scelte. C’è qualcosa di triste, irreparabilmente nella discussione su questa legge.
Qualcosa che mette a disagio, comunque la si pensi in proposito. Ha fatto bene Ferrara a rimarcarlo. Una legge resa necessaria forse dalle intemperanze di alcuni magistrati, dal via libera a una specie di eutanasia nel caso della povera Eluana. E tuttavia una legge che fa tristezza. Una legge per uomini soli, come ormai sembra fatta la nostra intera società. Anch’io vorrei morire senza andare dal notaio. Ma fidandomi di figli, mogli, amici, donne che abbiano pietà di me e rispetto di me nel momento “della nostra morte”. Un tempo la morte era un fatto collettivo. Personalissimo, ma collettivo nel suo evento e nel suo rituale.
Era un rito di appartenenza, non di solitudine. Gli storici e gli antropologi hanno mostrato come le usanze erano segnate dalla condivisione, non dalla separatezza. Il pasto dopo il funerale che ancora in molti luoghi si compie è l’estremo segno di un essere insieme di fronte all’evento che segna la nostra condizione. Morire era un fatto comune, e dunque condivisibile. Delegarne i contorni, le minime scelte in tanti dettagli a una autorità che sia fuori, impersonale, rispetto alla comunità che durante la vita e nell’ora estrema si costituisce intorno al morente, è uno sfregio ai movimenti primari, naturalissimi dell’essere società. Ed è strano che a muoversi con accanimento in questa direzione – sotto lo slogan individualistico di “autodeterminazione”– siano esponenti di quelle ideologie che proprio su una idea di società e sulla sua importanza quasi metafisica hanno fondato la loro ragion politica.
Forse idolatrando la società hanno finito per perderne i contorni umanissimi, viventi. I vescovi italiani, dopo una certa titubanza si sono arresi alla necessità di una legge, sotto l’impulso di iniziative giudiziarie che peraltro non mancheranno anche dopo l’approvazione della legge, per piegarne i sempre possibili cavilli a fini eutanasici. Ma questa immensa tristezza – acuita dal fatto pure di dividersi come di fronte alla vita nascente di fronte alla vita morente – potrebbe essere per tutti occasione estrema di riscossa. Ma perché la tristezza diventi occasione di riscossa occorre che poggi su una grande gioia. Quella ineffabile che viene dal condividere il mistero della nascita e il mistero della morte con luoghi di società vera. Solo chi conosce questa vera gioia (rara, ormai in un mondo di monadi) può dalla tristezza di questo passaggio trovare nuove linfe per lottare per una visione della vita che, come diceva Baudelaire, non avvilisca il cuore, ma rispetti le condizioni della vita.
di Davide Rondoni
da Ilfoglio.it
PADRE CESARE MAZZOLARI, COMBONIANO, INNAMORATO DI CRISTO E DEL SUD SUDAN
Rumbek, Sud Sudan.
Non gode di buona stampa, Mazzolari.
Non è un guru progressista,
non liscia il pelo al cattolicesimo dialogante con tutti a tutti i costi
“Guarda qui. Li vedi questi fori? Quando sono arrivati i soldati islamici di Khartoum in questa chiesa, coi loro kalashnikov hanno preso di mira il tabernacolo. Spari dappertutto. Peccato per loro: questo non era il posto dove si conserva l’Eucaristia, era solo quello per gli oli santi!”.
Scherza, ma non troppo, Cesare Mazzolari girando per i ruderi della chiesa del Sacro Cuore, poco lontano dall’aeroporto internazionale di Rumbek, la città del Sud Sudan che lo ha come vescovo dal 1999. Sessantamila abitanti gonfiatisi a duecentomila per via dei fuggiaschi che sono arrivati in massa dal nord. Da quando il presidente di Khartoum, Omar al Bashir, giù custode affettuoso di un certo Osama bin Laden negli anni Novanta, ha fatto cadere come un macigno una dichiarazione di guerra religiosa: “Dopo l’indipendenza del sud, al nord la sharia sarà implementata”.
“Cosa vuol dire? Che se uno viene trovato a rubare, gli tagliano la mano? Che per i nostri cristiani ci sarà ancora meno libertà? Già oggi al nord un prete può celebrare solo una messa alla domenica. Gli spostamenti del clero sono limitati, i permessi di costruire chiese e scuole non concessi, insomma non è possibile diffondere liberamente il Vangelo”.
"CATTOLICI DEMOCRATICI" A BOLOGNA
In merito ad alcune iniziative, promosse in questi mesi da esponenti della Gerarchia ecclesiastica e finalizzate a ricostituire l'unità dei cattolici in una nuova "Cosa bianca", i cattolici democratici che si riconoscono nell'associazione Agire politicamente ritengono anacronistica, dal punto di vista dottrinale oltre che storico, la ricostituzione del partito unico dei cattolici e, mentre chiedono, ai loro pastori, di rimanere nell'ambito delle loro competenze, rivendicano l'autonoma responsabilità delle scelte politiche.
Riassumiamo con la nostra solita perfidia il pensiero di questo cattolico democratico che è anche un esponente di spicco del Forum delle associazioni familiari dell’Emilia Romagna: vescovi e preti stiano chiusi nelle loro sagrestie, per quanto riguarda il laicato cattolico si scordi un ritorno al partito unico e pensi piuttosto a sostenere l’unico partito per cui vale la pena farlo (all’intelligenza del lettore capire quale), sui temi cruciali come la vita ci sentiamo adulti e vaccinati quindi… lasciateci lavorare. Ora si capisce perché in Emilia Romagna la famiglia non ha mai avuto neanche le briciole. Tu chiamalo se vuoi conflitto di interesse.
SABATO 16/7
DA : clanDestino ZOOM
Riassumiamo con la nostra solita perfidia il pensiero di questo cattolico democratico che è anche un esponente di spicco del Forum delle associazioni familiari dell’Emilia Romagna: vescovi e preti stiano chiusi nelle loro sagrestie, per quanto riguarda il laicato cattolico si scordi un ritorno al partito unico e pensi piuttosto a sostenere l’unico partito per cui vale la pena farlo (all’intelligenza del lettore capire quale), sui temi cruciali come la vita ci sentiamo adulti e vaccinati quindi… lasciateci lavorare. Ora si capisce perché in Emilia Romagna la famiglia non ha mai avuto neanche le briciole. Tu chiamalo se vuoi conflitto di interesse.
SABATO 16/7
DA : clanDestino ZOOM
sabato 9 luglio 2011
LE MAGNIFICHE SORTI DEL PROGRESSISMO MILANESE
Nella Milano post-moderna di Pisapia, avanza il progressismo di Majorino
Dunque nella giunta di sinistra che amministra Milano ferve il dibattito attorno ai nuovi diritti civili di gender, e ogni consigliere o assessore dice la sua. Dalla semplice introduzione del registro delle coppie di fatto all’istituzionalizzazione di nuove forme di famiglia, tutte le possibili soluzioni sono ipotizzate, tutte le gradazioni di pensiero sono rappresentate. Su qualunque argomento, data una linea di fondo, la sinistra italiana è abituata ad avere più posizioni di quante ne elenca il Kamasutra, e visto l’argomento che si sta soppesando, il paragone ci sta tutto.
Perché tornarci ora? Perché fra le varie dichiarazioni provenienti dalla giunta ce n’è una che deve preoccupare assai per ragioni che vanno al di là della materia in discussione, cioè la creazione di istituzioni concorrenziali rispetto al matrimonio. Trattasi della parola d’ordine lanciata da Pierfrancesco Majorino, il nuovo assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano, a supporto della sua proposta di riconoscere pienamente le “famiglie” a geometria variabile: «È venuto il momento di uscire dal Medio Evo dei diritti». Ahia. Quando i progressisti cominciano a tirare in ballo le epoche storiche o la storia tout court, per chi progressista non è le cose cominciano a mettersi male, e anche parecchio.
Il problema coi progressisti è che loro non fanno politica, loro fanno la storia. Perché sanno dove la storia va. Sulle piccole cose, tipo dove vadano piazzati i semafori, o quali piante debbano essere sistemate nei parchi cittadini, possono anche piegarsi ad ascoltare il vostro parere. Ma sulle grandi questioni, tipo appunto la famiglia, o la tecnica, o l’economia, o il diritto, o lo Stato potete stare sicuri che faranno a meno del vostro avviso e si preoccuperanno solo di una cosa: se siete con loro oppure contro di loro. Cioè se siete anche voi progressisti, oppure se siete reazionari.
Il progressismo è esattamente l’idea che l’uomo è un essere puramente storico che si realizza nella storia, e che il mondo è diviso fra quanti riconoscono il senso in cui la storia si muove, e quanti non lo riconoscono o per ignoranza (e allora li si può recuperare con l’indottrinamento) o per malafede dovuta agli interessi particolaristici che difendono: con questi ultimi non è possibile nessun accordo, vanno duramente combattuti.
La frase di Majorino, “uscire dal Medio Evo dei diritti civili”, significa esattamente questo: che lui sa qual è la direzione in cui si muove la storia e lavora per facilitarne il cammino, mentre chi si attarda a difendere privilegi per la famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna sta ostacolando l’avvento della pienezza umana.
Non è un caso se Hannah Arendt ha scritto, nel suo famoso "Le origini del totalitarismo", che credere al progresso è contrario alla dignità umana. Qualcuno sobbalzerà sulla sedia leggendo questo pensiero della grande filosofa, che però è inoppugnabile: nel progressismo il valore non sta nelle persone, ma nel processo storico. È il processo che realizza la pienezza umana, le persone nella storia sono solo espressioni inadeguate di quella pienezza, anzi sono la zavorra che di epoca in epoca ostacola il cammino del progresso. Come minimo sono degli alienati. Omero, Pericle, Cicerone, Agostino, Tomaso d’Aquino, Giotto, Raffaello, Francesco d’Assisi, Dante Alighieri, Shakespeare, ecc. chi sono mai? Forse grandi uomini? No di certo, perché sono vissuti in epoche che tolleravano la schiavitù, lo sfruttamento feudale, il sistema patriarcale oppressivo della donna, la discriminazione degli omosessuali, ecc.
L’anonimo elettore che ha mandato Pisapia ad amministrare Milano è un’incarnazione umana a loro molto superiore, perché finalmente libera dalle ipoteche reazionarie del passato.
Ricordo che un paio di anni fa il comico Maurizio Crozza nel corso di una puntata del suo programma Crozza Italia disse testualmente: «Il mondo è diventato un posto civile un giorno del 1991, quando l'Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito che l'omosessualità non è una patologia, ma una variante del comportamento umano». Un'affermazione che, pur pronunciata da un comico, non fa ridere per niente, e che è la quintessenza del progressismo: prima di noi solo barbarie, dopo di noi generazioni future che giustamente ci giudicheranno barbari, perché saranno più avanti di noi nel cammino del progresso. Le nostre vite concrete sono inghiottite dal processo storico: esistiamo solo come staffette del progresso, dalla cui pienezza siamo ontologicamente esclusi.
Le esperienze storiche frutto di questo modo di pensare sappiamo quali sono: il Terrore di Robespierre, il bolscevismo, lo stalinismo, il socialismo reale, il maoismo. Sistemi entro i quali non c'era spazio per dissidenti e oppositori, che venivano incarcerati e/o eliminati. Proprio a causa della sostituzione del fare politica (cioè occuparsi del bene comune in concorrenza con chi ha idee diverse dalle nostre) con il fare storia: se voi siete un uomo del Medio Evo, che ci state a fare nella Milano contemporanea post-moderna di Majorino? Passa il treno della storia, spostatevi dai binari o sarete maciullati.
Rodolfo Casadei
da www.tempi.it
Giovedì 30 Giugno 2011
Quella voglia pazza di DDR
“ l’uomo che durante il giorno ha costruito qualcosa al calar della notte ritorna a casa per essere benedetto dal dono del silenzio e del riposo. Ma siamo circondati da serpenti e da cani. Per cui qualcuno deve stare all’opera e altri tenere le lance”. T. S. Eliot
di M. Diaferia 13/06/2011
Non molto tempo fa, RAI3, in orario antelucano, trasmise degli interessanti documentari girati ai tempi della Repubblica Democratica Tedesca.
Si trattava in realtà di un “Grande Fratello” ante litteram: il Partito ti mandava a casa un operatore con la cinepresa che avrebbe seguito tuo figlio dalla prima elementare fino all’età adulta. Scopo, ovviamente, era quello di mostrare lo sviluppo armonico della persona prodotto dall’ideologia comunista. Mai avrebbero immaginato, invece, cineoperatore e soggetto ripreso che un dì la DDR si sarebbe squagliata in pochi mesi e che il film avrebbe avuto un finale a sorpresa: una Germania riunificata e capitalistica.
Un fattore accomunante i protagonisti (sia uomini che donne) fu l’assoluto disorientamento psicologico davanti alla caduta del Muro di Berlino. Stiamo parlando di soggetti assolutamente convinti della bontà del Comunismo, pienamente coinvolti dalle “liturgie” del Partito (vacanze aziendali, feste paesane, ricorrenze patriottiche, iniziative per la gioventù, raduni sportivi, culto della personalità, ecc.), fieri della forza del loro Paese, sicuri del degrado morale dell’Occidente. Quel crollo improvviso che portò la fine di un regime e delle sicurezze che dava (casa, lavoro, scuola, certezza di essere dalla parte del bene), la libertà vera improvvisamente piovuta addosso a persone abituate ad affidarsi a decisioni prese dall’alto, scosse la loro psiche. L’atteggiamento iniziale fu di sconforto, specie per l’insicurezza del lavoro (le aziende tedesco-orientali di solito asservite all’URSS, erano ormai senza il cliente principale e assolutamente vetuste per impostazione e macchinari) e la perdita di un sistema di vita che in qualche modo ti faceva sentire parte di una comunità di “compagni” protesi verso “il sol dell’avvenire”. All’inizio molti rimpiansero i tempi dei VoPos.
Certo, noi uomini siamo strani: parliamo spesso di libertà, lottiamo per essa, ma tutto sommato ci fa paura, perché ci costringe ad uscire dal guscio, a progettare, a ideare, a riflettere, a decidere. Tutto ciò è faticoso, ma soprattutto pericoloso. Perché prevede la possibilità che prevalga il migliore, il più intelligente, o peggio, il più furbo; che si possano subire sconfitte, che ci si senta insoddisfatti e precari nella vita.
venerdì 8 luglio 2011
COME DON GIUS
A margine del consiglio nazionale del Pdl che ha "incoronato" Alfano segretario politico, Berlusconi avrebbe confidato -secondo quanto riportato dal Corriere della Sera- di voler essere ricordato come don Giussani.
Ovvero, ha spiegato, come uno che ha iniziato una cosa bella che poi prosegue dopo di lui. Il paragone ha fatto sussultare tanti.
Ed è qualcosa tra il grottesco e il commovente. L'ormai vecchio leader acciaccato da battaglie e da vizi, da stanchezze e entusiasmi, dalla logorante lotta per il potere, vorrebbe infine essere ricordato (e amato, questo è il punto) come un prete che ha fondato un movimento ecclesiale di giovani.
Uno strano desiderio, probabilmente uno dei più puri in questo leader che si commuove nel parlare di Alfano come di un figlio, superando, violando, distorcendo e però al tempo stesso immettendo vita in quel che sarebbe solo un rito di potere politico.
Un desiderio che suona grottesco sulle labbra di un uomo che ha passato una vita per certi aspetti agli antipodi della umiltà seminascosta di don Giussani. E che pur rivela qualcosa di resistente, qualcosa che solo un cinismo senza fine potrebbe liquidare come stupidità o calcolo o abbaglio.
E' che c'è nel cuore di tutti -anche di chi non t'aspetti- un desiderio quasi soave di eterno, di bene, di positività che soggiace e sopravvive a qualsiasi rugoso vissuto, a ogni deprecabile compromesso, a ogni possibile miseria. Che sia risuonato quel nome così caro, dolcissimo nella nostra memoria e nei nostri occhi, in bocca all'uomo più discusso e discutibile, all'uomo più potente e forse solo, è come aver rivisto quel suo carisma, quella sua libertà suprema di santo e di appassionato amico, sorprenderci ancora, chiamarci ancora.
dr
da ROBOT@CLANDESTINOZOOM.IT
FRANCHI TIRATORI NELLA CHIESA
Don Gabriele Mangiarotti
da "Cultura Cattolica" 4 luglio
Ci sono dei libri che, anche dopo averli letti e riletti, lasciano un segno nella coscienza, per il forte richiamo che esercitano.
Mi è capitato di rileggere Il padrone del mondo di Robert Benson, e non nascondo l’emozione nell’avere trovato questa impressionante profezia, che sembra indicare quanto è necessario per ridare speranza alla Chiesa di oggi, e quindi al mondo.
La riporto brevemente: «Alla chiesa occorreva un nuovo ordine religioso. Gli ordini antichi erano delle regole-limite, per correggere gli errori e indurre a non commetterne più.
Ora si chiedeva un ordine senza tonsura od abito speciale, senza tradizione o abiti particolari. Un ordine: e i suoi membri non dovevano distinguersi se non per il totale e lieto sacrificio di se stessi. Un ordine alieno dal menar vanto dei privilegi, anche dei più santi; un ordine senza un passato storico di gloria o di infamia nel quale potersi comunque rifugiare. Dovevano essere i franchi-tiratori dell’esercito di Cristo […]. Ma occorreva un fondatore. Chi? In nome di Dio, chi? Un fondatore nudus sequens Christum nudum. Sì, dei franchi-tiratori, preti, vescovi, laici e donne. Con i tre voti e una clausola speciale che vietasse in particolare e per sempre il possesso dei beni in comune. Ogni ricchezza doveva essere consegnata al vescovo della diocesi in cui la si era ricevuta. Al vescovo, infatti, toccava provvedere, per tutti, alla vita e al lavoro».
Ci vogliono proprio questi franchi tiratori dell’esercito di Cristo. Ma chi sono? A me l’esperienza del sito http://www.culturacattolica.it/ – con tutta quella serie di rapporti cui ha dato origine – suggerisce questa risposta: sono tutti quei movimenti e quelle persone che fanno della fede in Cristo e dell’incontro con la sua chiesa la ragione del vivere, senza complessi di inferiorità, capaci di incontrare chiunque sulla loro strada.
E penso certo ai grandi movimenti che oggi rendono ancora possibile all’uomo contemporaneo di sentire parlare della chiesa come realtà viva, affascinante, capace di muovere le corde del cuore. E sono movimenti ed esperienze che abitano nel cuore degli uomini:
• ho presente il tentativo di don Antonello Iapicca di portare i suoi giovani giapponesi ad incontrare il Papa alla giornata mondiale della gioventù, in Spagna.
• Ho presente gli incontri che attraverso il sito abbiamo fatto con tanti genitori preoccupati della educazione dei loro figli, per non lasciarli in preda delle moderne tecniche di comunicazione di massa.
• Ho presente il lavoro fatto nella Diocesi di San Marino – Montefeltro per preparare la visita del Santo Padre il 19 giugno di quest’anno (con il bellissimo momento di dialogo con i giovani di una scuola superiore di Sassocorvaro, partecipato e vissuto nella grande responsabilità di due loro insegnanti).
• Non posso dimenticare la trasmissione di «A sua immagine» di questo mese di luglio, in cui la partecipazione di sr Maria Gloria Riva ha riproposto (e nelle prossime puntate riproporrà) l’Eucaristia come sorgente di vita nuova e di fascino per la vita.
Da ultimo però voglio ricordare la recente nomina del Card. Angelo Scola ad Arcivescovo di Milano, nomina che, come ricorda Andrea Tornielli in un articolo su La Bussola Quotidiana, «è destinata a chiudere per sempre un’epoca fin troppo lunga nella storia recente della Chiesa. Quella che ha visto contrapporsi la Chiesa come istituzione ai nuovi movimenti sorti negli ultimi decenni; quella della contrapposizione tra l’associazionismo tradizionale, rappresentato dall’Azione Cattolica, e il «movimentismo» di Comunione e Liberazione, Neocatecumenali, Rinnovamento nello Spirito, etc. etc.».
Chissà se questo «nuovo ordine religioso», fatto da questi volti e da queste esperienze, segnerà l’inizio di una autentica ripresa della fede nel popolo? È certo che se terminerà questa «apostasia da Dio» sarà anche la fine della «apostasia dall’uomo» che tanto umilia la nostra epoca attuale!
mercoledì 6 luglio 2011
IL QUINTO EVANGELO
QUINTO EVANGELO
di Giacomo Biffi
UNA SCOPERTA SENSAZIONALE
"La notizia sarebbe ancora sotto segreto. Una ristretta commissione di esperti sta faticando con la tranquilla impazienza dei dotti a dare una perfetta edizione critica di tutto il materiale di cui sono avventurosamente venuto in possesso. Un Vangelo ignoto, che contribuirà a chierire tante cose!
In questo genere di lavoro di solito si va per le lunghe. E', gente precisa, puntigliosa. Sicché ci vorranno degli anni. D'altronde è urgente a mio parere che questi antichi frammenti si conoscano."
FRAMMENTO 30
Andate nel mondo impuro e discutete: dal libero confronto dei pareri germoglierà la verità. (Quinto Evangelo)
Andate e fatevi discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e dei Figlio e dello Spirito Santo e insegnando loro a osservare tutto ciò che io vi ho prescritto. (Mt 28, 19)
L'idea dell'"annuncio" è negli evangeli tradizionali espressa con una durezza che riesce poco sopportabile alle nostre orecchie.
Gesù stesso parla per affermazioni recise: non associa nessuno a una ricerca, che del resto non sembra compiuta neppure da lui. Egli semplicemente "dice", non indaga, non ipotizza, non dialoga. Si presenta come colui che non solo ha la verità, ma addirittura è la verità.
Lo stesso stile viene raccomandato agli apostoli: essi devono esporre un fatto, non provocare dei dibattiti. Sono i portatori di una perla preziosa che non deve essere gettata ai porci, ma custodita come un bene inestimabile. Se qualcuno accoglie l'evangelo, è beato; chi lo rifiuta, stia nelle sue tenebre: neppure la polvere bisogna avere più in comune con lui. Ci si affretti a proporlo ad altri.
Il proselitismo affannoso - che egli rimprovera ai farisei - è un atteggiamento ignoto a Cristo e non raccomandato ai suoi inviati.
Ma se sulla condanna del proselitismo possiamo essere d'accordo tutti, sul metodo dell'annuncio abbiamo qualche riserva.
Esso infatti, come il proselitismo, condiziona la libertà altrui e impedisce di pensare con la propria testa. E non è una ragione il fatto che quello cristiano sia un annuncio di verità. Al contrario è un impegno maggiore a tacere: la verità, avendo una sua forza immanente ignota all'errore, determina in misura più grande il comportamento di chi arriva a conoscerla. Perciò se può essere consentito ai seminatori di falsità di proclamare e propagandare le loro dottrine, a noi no: la nostra testimonianza deve essere il più possibile silenziosa.
Soprattutto - e qui sta l'insidia più grande - l'idea dell'annuncio sembrerebbe quasi supporre che la verità discenda dall'alto già pronta e cucinata, e non sia piuttosto frutto della ricerca, della libera discussione, del nostro spirito insonne. Se si comincia ad ammettere l'annuncio, si finisce o presto o tardi per accettare il concetto di una Rivelazione oggettiva ed esterna.
Allora, se non ad "annunciare", a che cosa sono stati mandati gli apostoli?
Il testo ci dà un chiarimento definitivo: compito degli apostoli è di stimolare il dibattito, di dirigerlo con imparzialità, sicché tutte le opinioni possano liberamente commisurarsi.
La verità, che sta nel cuore e nella mente dell'uomo o più propriamente nel cuore e nella mente dell'" umanità " - troverà la strada per emergere e per affermarsi e potrà venire accolta da tutti non come una tiranna dispotica che ha sempre ragione, ma come una figlia che noi stessi con travaglio abbiamo generato.
Ci avvediamo che questo quinto evangelo assimila il metodo di Gesù a quello di Socrate. Il che ci meraviglia un po', non foss'altro perché i due tipi umani ci sembrano molto diversi. Basti pensare all'entusiasmo con cui il filosofo ateniese - senza timore, senza disgusto, senza tristezza - ha bevuto la sua cicuta.
SCOLA A MILANO: UNA GIOIA PROFONDA
Scola, CL e certi pregiudizi
Tratto da La Bussola Quotidiana il 5 luglio 2011
Guardando le reazioni della stampa alla nomina del patriarca Angelo Scola a Milano viene da domandarsi quanto il marchio di Comunione e Liberazione (CL) abbia segnato la sua figura nelle paginate che i quotidiani gli hanno dedicato.
Sembrano emergere due principali chiavi di lettura. Da una parte c’è chi afferma che la sua formazione ciellina è una sorta di peccato originale: anche quando viene cancellato dal battesimo, le conseguenze restano; ciellino sei, ciellino resterai. Dall’altra parte c’è chi afferma che il patriarca Scola, soprattutto nei nove anni trascorsi a Venezia, ha dimostrato di aver ben superato la sua origine ciellina, aprendosi a un orizzonte assai più vasto di quello suggerito dalla precedente appartenenza fino a sorprendere veneziani e non veneziani. Che pensare di queste valutazioni?
Mi sia permesso affermare - anche in forza di personale esperienza - che questi giudizi espressi da alcuni giornali appaiono frutto di pregiudizio o almeno di non adeguata conoscenza della realtà. L’esperienza proposta dal movimento di CL è un cammino che introduce al reale considerato nella totalità dei suoi fattori. È esattamente il contrario di ogni forma di spiritualismo individualistico, di settarismo e di fondamentalismo.
Il carisma di CL, accolto e riconosciuto dal Magistero, aiuta chi vi aderisce a percepire e a vivere la cattolicità della Chiesa. Chi si lascia educare dal movimento viene condotto ad abbracciare passato e presente e futuro, vicini e lontani, anche se poi con sano realismo dovrà fare i conti con la naturale difficoltà a vivere in piena coerenza.
"Appartenere a CL" è un modo concreto di "appartenere alla Chiesa"; non è fare una cosa a parte, staccata dal resto. Si costruisce con modalità specifiche - come sempre è accaduto nella storia - la Chiesa di tutti.
Con la scelta di Scola ad arcivescovo di Milano, possiamo rilevare che un carisma - portato a maturità - ritorna nel luogo in cui è spuntato e nel quale le sue radici sono così profonde da espanderlo in tutto il mondo. Una grande diocesi si avvale, anche a livello di guida, di un dono di Grazia che lo Spirito Santo ha fatto nascere proprio in quel luogo. Come diceva Papa Giovanni Paolo II, un carisma rettamente vissuto è un bene per tutta la Chiesa, è una grazia che va a riverberarsi in tutto il mondo.
Angelo Scola, che la natura ha gratificato di grandi doti personali, ha avuto la ventura di incontrare validi maestri di vita e di fede e un educatore eccezionale come don Giussani.
L’educazione ricevuta in CL ne ha raccolto ed esaltato la struttura umana già così ricca. Anche lui, come altri aderenti al movimento, avrà provato sulla propria pelle la pesantezza di giudizi mondani e schematici, ma allo stesso tempo avrà sentito riecheggiare in cuore la parola di Pietro a Gesù: “Signore, da chi andremo?”. Gli apostoli, avendo incontrato Cristo non attraverso elucubrazioni razionali ma in un’esperienza umanamente vera e bella, non hanno potuto andare da nessun’altra parte se non quella intravvista e sperimentata stando con Lui.
Quanto a noi, non ci resta che pregare, domandando al Signore che il patriarca Scola prosegua il suo personale cammino di sequela a Cristo e di obbedienza al Suo successore, per il bene della Diocesi di Milano e di tutta Chiesa e per una testimonianza credibile al mondo.
domenica 3 luglio 2011
Si può essere “cattolici democratici” senza essere più cattolici?
ANTONIO SOCCI
Vito Mancuso è un tipo minuto dall’aria dimessa e stropicciata. E’ uno dei figli spirituali del cardinal Martini e oggi è approdato a scrivere per Repubblica.
Commentando la nomina del cardinale Scola a Milano, ha spiegato che “la questione è politica” (curioso modo di considerare la Chiesa): siccome la Curia di Milano è stata per trent’anni nell’orbita di Martini e della sua corrente, secondo Mancuso tale doveva restare.
Invece con Scola il “cattolicesimo democratico” avrebbe subito – a suo dire – “un’umiliazione pesante” perché avrebbe perso “l’unico punto di riferimento nazionale”.
Benedetto XVI – afferma l’intellettuale di Repubblica – scegliendo Scola ha scelto di “contrastare frontalmente” quella linea “cattolico democratica”.
In pratica, se così stessero le cose, dovremmo concludere che il papa ha deciso di restituire a Milano il cattolicesimo tout court, senza aggettivi. E ci sarebbe solo da rallegrarsene.
Ma la chicca dell’articolo di Mancuso è un’altra, quella dove si apprende che egli è il confidente segreto dello Spirito Santo. Scrive infatti: “non so se questo sia davvero il volere dello Spirito Santo che ha sempre amato il pluralismo”.
Evidentemente lo Spirito Santo ha detto a Mancuso che preferiva Ravasi.
La singolare idea del cattolicesimo che ha Mancuso è stata bocciata duramente, mesi fa, da Civiltà Cattolica e da Vincenzo Vitale nel libro “Volti dell’ateismo”.
Quelle pagine mostrano che Mancuso sarà anche all’interno del “cattolicesimo democratico”, ma – visti tutti i dogmi di fede che nega – sta al di fuori del cattolicesimo.
Me ne dispiace molto. Ho avuto occasione di incontrare Mancuso di recente e voglio raccontare l’episodio.
sabato 2 luglio 2011
CREPALDI : IL REFERENDUM SULL'ACQUA
«"L'integralismo progressista" di molti cattolici ha fatto vincere il vento del mondo»
Da Giampaolo Crepaldi
In occasione del recente referendum, e specialmente a proposito dei quesiti sull’acqua, si può parlare di una mobilitazione del mondo cattolico in quanto tale e dell’espressione di una posizione, se non comune, certamente maggioritaria e globale. Era da tempo che questo non avveniva. Forse nemmeno ai tempi dei referendum contro divorzio e aborto si era vista una militanza di questo genere. Dichiarazioni di vescovi e di uffici pastorali delle diocesi, proclami di associazioni cattoliche, volantinaggi davanti alle chiese, manifesti con l’invito ad andare a votare posti sotto gli altari, militanza attiva di ordini religiosi, compatta presa di posizione delle riviste cattoliche, specialmente quelle missionarie, catene di messaggi in rete, indicazioni molto precise per gli studenti delle scuole cattoliche.
Davanti al test referendario sembra che il mondo cattolico abbia ritrovato l’unità perduta. Ci sono state certamente voci dissonanti, anche importanti e autorevoli, ma non si può non vedere una diffusa tendenza di fondo a condividere alcuni schemi mentali per affrontare il problema acqua. Il fatto è che questi schemi destano molte perplessità e l’“unità ritrovata”, che a prima vista sembra una forza — il raggiungimento del quorum non sarebbe stato possibile senza le parrocchie — evidenzia anche molti aspetti di debolezza. Sorge infatti la domanda: con queste categorie di pensiero e di azione, con la strumentazione messa in campo in questa occasione, i cattolici sono in grado di affrontare i problemi di oggi per dire qualcosa di proprio, di originale, di vero e di utile? Oppure vanno a rimorchio di altri?
Un nuovo integralismo
Solitamente, quando la Chiesa entra in questioni politiche viene accusata di integralismo. Ricordo che quando il cardinale Ruini suggerì di non recarsi a votare in occasione del referendum sulla legge 40 sulla fecondazione assistita ci fu una levata di scudi contro questa “ingerenza”. Levata di scudi non solo da parte di ambienti laici, ma anche e forse soprattutto da parte di ambienti cattolici contrari alla guida del magistero nelle questioni pubbliche e favorevoli alla totale libertà di coscienza individuale in campo sociale e politico. Sul recente referendum, invece, niente di tutto questo. Non si è letto su nessun giornale “progressista” la minima accusa ai numerosi esponenti ecclesiastici che hanno invitato apertamente ad andare a votare e a votare in un certo modo. A mettere in evidenza questa contraddizione è stata anche Radio Radicale, che si è chiesta il motivo per questo opposto atteggiamento e ha affermato che forse sarebbe meglio valutare ciò che si dice e non chi lo dice.
Il Vangelo alla lettera
Durante la campagna referendaria c’è stata anche un’altra forma di integralismo, legata all’ampio abuso di citazioni bibliche ed evangeliche adoperate in modo avventuroso. Si è sentito di tutto, purtroppo; è stata perfino utilizzata la richiesta di Gesù sulla croce — “ho sete!” — per sostenere l’esigenza di andare a votare. Dove sono finiti gli esperti, di solito così attenti a distinguere i piani, a rimandare alle diverse competenze, ad evitare interpretazioni letterali? Durante la campagna referendaria ci sono stati diversi convegni di esperti di questo genere, dai quali però sono usciti slogan più che attente riflessioni rispettose della complessità, anche tecnica, del problema. Un aspetto tipico di questo integralismo metodologico è stata l’enunciazione di principi astratti ed assoluti — “l’acqua bene comune”, “l’acqua diritto universale”, “l’acqua bene primario creato da Dio” — dai quali si sono dedotti impropriamente immediati comportamenti elettorali.
L’utilizzo della Dottrina sociale della Chiesa
Questo metodo, che potremmo chiamare di “integralismo progressista” e che non aiuta a comprendere né la concretezza delle problematiche storiche né la fecondità orientativa del Vangelo, è stato purtroppo ampiamente applicato anche alla Dottrina sociale della Chiesa. Ora è stata citata una frase del Compendio ora una della Caritas in veritate, ma in modo molto discutibile e fuori del contesto. Non è stata tenuta presente la connessione reciproca tra i principi della Dottrina sociale della Chiesa, per esempio tra quello della destinazione universale dei beni e quello della sussidiarietà. Si sono trascurati interi capitoli delle recenti encicliche. Non si è distinto tra beni pubblici, beni collettivi, beni comuni. Non si è chiarito che un bene può essere pubblico e non gestito dallo Stato. Si è confuso il problema dell’acqua in Italia con quello dell’acqua in Africa. Questi approcci approssimativi e queste incertezze di metodo devono indurci ad una seria riflessione su come viene insegnata la Dottrina sociale della Chiesa, se nella sua integralità e originalità di messaggio oppure in modo funzionale a posizioni ideologiche previe. Come è possibile che tutto lo sforzo delle istituzioni educative cattoliche, anche di alto livello, produca poi risultati così deludenti quando bisogna orientare il popolo cristiano a delle scelte pubbliche alla luce degli insegnamenti ricevuti? Queste semplificazioni e perfino distorsioni si pagheranno in futuro: se non applico il principio di sussidiarietà al tema dell’acqua, mortificando la società civile, come potrò poi far valere quello stesso principio per chiedere la libertà di educazione? Ed infatti sulla libertà di educazione non è ipotizzabile un coinvolgimento del mondo cattolico nemmeno lontanamente paragonabile a quello ottenuto sull’acqua.
Il profetismo mondano
Molti esponenti cattolici hanno chiamato “profetico” l’impegno a favore del referendum sull’acqua. Si tratta di una concezione piuttosto strampalata di profezia, che si ispira ad uno strumentalizzato San Francesco e ad una interpretazione riduttiva del Cantico di Frate Sole appiattito sulla problematica della gestione dell’acqua. Se il messaggio profetico francescano, o addirittura cristiano, è ridotto a questo, non ne consegue un appiattimento della nostra vita religiosa, con conseguenze negative anche di ordine spirituale? Che profetismo a buon mercato è quello che si esprime con una crocetta in cabina elettorale? Che profetismo è quello che combatte per un diritto all’acqua che nessuno nega, nemmeno quelli che a votare non ci sono andati; che distoglie lo sguardo dalle molteplici colpevoli rendite di posizione sulla distribuzione dell’acqua; che nasconde i problemi concreti sotto il manto dei richiami alle belle frasi evangeliche; che trasforma una questione opinabile, legata alle diverse situazioni concrete e oggetto di umana deliberazione, in una specie di imperativo etico? Dobbiamo porci il problema: perché una così diffusa mobilitazione per una questione pratica e oggetto di volta in volta di deliberazione, ed invece una scarsissima o addirittura inesistente mobilitazione per la vita? Non c’è un preoccupante sbilanciamento? Dedicassero le nostre riviste, comprese quelle missionarie, alla vita almeno un centesimo dell’attenzione rivolta all’acqua…
Ingenuità cattolica?
Molti cattolici saranno contenti di aver contribuito ad evitare una inesistente “privatizzazione” dell’acqua. Trasformare il quesito referendario nel dilemma “privatizzazione sì privatizzazione no” è un vero e proprio non senso. Però molti cattolici penseranno di avere “vinto” o di aver contribuito a far vincere la causa giusta. In realtà hanno fatto vincere il vento del mondo, e ad un prezzo piuttosto alto. Una minore ingenuità, a questo proposito, sarebbe stata molto utile. Può capitare che uno pensi di andare a votare per l’acqua e invece voti per il divorzio breve. Ogni appuntamento referendario ha anche una ricaduta sul quadro politico. Si vota sull’acqua ma le ripercussioni politiche aprono (o chiudono) altre porte. Può capitare che uno pensi di andare a votare per l’acqua insieme ad associazioni che promuovono i diritti umani. Poi però si accorge che quelle associazioni che promuovono i diritti umani e votano con lui per l’acqua sono anche a favore dell’aborto, lo sostengono teoricamente e lo promuovono praticamente. Il voto sull’acqua non è stato solo un voto sull’acqua. Di quel voto altri ne approfitteranno per fare cose che ai cattolici non dovrebbero andar bene.
In conclusione
Mi auguro che possa continuare una approfondita discussione sulle posizioni assunte dal cosiddetto mondo cattolico in occasione del recente referendum, sulle categorie di pensiero che orientano il discernimento. A mio avviso non c’è molto da festeggiare. Sono emerse infatti discrepanze, scollamenti, incertezze sugli obiettivi da raggiungere e sulla strada da percorrere.
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Da Giampaolo Crepaldi
In occasione del recente referendum, e specialmente a proposito dei quesiti sull’acqua, si può parlare di una mobilitazione del mondo cattolico in quanto tale e dell’espressione di una posizione, se non comune, certamente maggioritaria e globale. Era da tempo che questo non avveniva. Forse nemmeno ai tempi dei referendum contro divorzio e aborto si era vista una militanza di questo genere. Dichiarazioni di vescovi e di uffici pastorali delle diocesi, proclami di associazioni cattoliche, volantinaggi davanti alle chiese, manifesti con l’invito ad andare a votare posti sotto gli altari, militanza attiva di ordini religiosi, compatta presa di posizione delle riviste cattoliche, specialmente quelle missionarie, catene di messaggi in rete, indicazioni molto precise per gli studenti delle scuole cattoliche.
Davanti al test referendario sembra che il mondo cattolico abbia ritrovato l’unità perduta. Ci sono state certamente voci dissonanti, anche importanti e autorevoli, ma non si può non vedere una diffusa tendenza di fondo a condividere alcuni schemi mentali per affrontare il problema acqua. Il fatto è che questi schemi destano molte perplessità e l’“unità ritrovata”, che a prima vista sembra una forza — il raggiungimento del quorum non sarebbe stato possibile senza le parrocchie — evidenzia anche molti aspetti di debolezza. Sorge infatti la domanda: con queste categorie di pensiero e di azione, con la strumentazione messa in campo in questa occasione, i cattolici sono in grado di affrontare i problemi di oggi per dire qualcosa di proprio, di originale, di vero e di utile? Oppure vanno a rimorchio di altri?
Un nuovo integralismo
Solitamente, quando la Chiesa entra in questioni politiche viene accusata di integralismo. Ricordo che quando il cardinale Ruini suggerì di non recarsi a votare in occasione del referendum sulla legge 40 sulla fecondazione assistita ci fu una levata di scudi contro questa “ingerenza”. Levata di scudi non solo da parte di ambienti laici, ma anche e forse soprattutto da parte di ambienti cattolici contrari alla guida del magistero nelle questioni pubbliche e favorevoli alla totale libertà di coscienza individuale in campo sociale e politico. Sul recente referendum, invece, niente di tutto questo. Non si è letto su nessun giornale “progressista” la minima accusa ai numerosi esponenti ecclesiastici che hanno invitato apertamente ad andare a votare e a votare in un certo modo. A mettere in evidenza questa contraddizione è stata anche Radio Radicale, che si è chiesta il motivo per questo opposto atteggiamento e ha affermato che forse sarebbe meglio valutare ciò che si dice e non chi lo dice.
Il Vangelo alla lettera
Durante la campagna referendaria c’è stata anche un’altra forma di integralismo, legata all’ampio abuso di citazioni bibliche ed evangeliche adoperate in modo avventuroso. Si è sentito di tutto, purtroppo; è stata perfino utilizzata la richiesta di Gesù sulla croce — “ho sete!” — per sostenere l’esigenza di andare a votare. Dove sono finiti gli esperti, di solito così attenti a distinguere i piani, a rimandare alle diverse competenze, ad evitare interpretazioni letterali? Durante la campagna referendaria ci sono stati diversi convegni di esperti di questo genere, dai quali però sono usciti slogan più che attente riflessioni rispettose della complessità, anche tecnica, del problema. Un aspetto tipico di questo integralismo metodologico è stata l’enunciazione di principi astratti ed assoluti — “l’acqua bene comune”, “l’acqua diritto universale”, “l’acqua bene primario creato da Dio” — dai quali si sono dedotti impropriamente immediati comportamenti elettorali.
L’utilizzo della Dottrina sociale della Chiesa
Questo metodo, che potremmo chiamare di “integralismo progressista” e che non aiuta a comprendere né la concretezza delle problematiche storiche né la fecondità orientativa del Vangelo, è stato purtroppo ampiamente applicato anche alla Dottrina sociale della Chiesa. Ora è stata citata una frase del Compendio ora una della Caritas in veritate, ma in modo molto discutibile e fuori del contesto. Non è stata tenuta presente la connessione reciproca tra i principi della Dottrina sociale della Chiesa, per esempio tra quello della destinazione universale dei beni e quello della sussidiarietà. Si sono trascurati interi capitoli delle recenti encicliche. Non si è distinto tra beni pubblici, beni collettivi, beni comuni. Non si è chiarito che un bene può essere pubblico e non gestito dallo Stato. Si è confuso il problema dell’acqua in Italia con quello dell’acqua in Africa. Questi approcci approssimativi e queste incertezze di metodo devono indurci ad una seria riflessione su come viene insegnata la Dottrina sociale della Chiesa, se nella sua integralità e originalità di messaggio oppure in modo funzionale a posizioni ideologiche previe. Come è possibile che tutto lo sforzo delle istituzioni educative cattoliche, anche di alto livello, produca poi risultati così deludenti quando bisogna orientare il popolo cristiano a delle scelte pubbliche alla luce degli insegnamenti ricevuti? Queste semplificazioni e perfino distorsioni si pagheranno in futuro: se non applico il principio di sussidiarietà al tema dell’acqua, mortificando la società civile, come potrò poi far valere quello stesso principio per chiedere la libertà di educazione? Ed infatti sulla libertà di educazione non è ipotizzabile un coinvolgimento del mondo cattolico nemmeno lontanamente paragonabile a quello ottenuto sull’acqua.
Il profetismo mondano
Molti esponenti cattolici hanno chiamato “profetico” l’impegno a favore del referendum sull’acqua. Si tratta di una concezione piuttosto strampalata di profezia, che si ispira ad uno strumentalizzato San Francesco e ad una interpretazione riduttiva del Cantico di Frate Sole appiattito sulla problematica della gestione dell’acqua. Se il messaggio profetico francescano, o addirittura cristiano, è ridotto a questo, non ne consegue un appiattimento della nostra vita religiosa, con conseguenze negative anche di ordine spirituale? Che profetismo a buon mercato è quello che si esprime con una crocetta in cabina elettorale? Che profetismo è quello che combatte per un diritto all’acqua che nessuno nega, nemmeno quelli che a votare non ci sono andati; che distoglie lo sguardo dalle molteplici colpevoli rendite di posizione sulla distribuzione dell’acqua; che nasconde i problemi concreti sotto il manto dei richiami alle belle frasi evangeliche; che trasforma una questione opinabile, legata alle diverse situazioni concrete e oggetto di umana deliberazione, in una specie di imperativo etico? Dobbiamo porci il problema: perché una così diffusa mobilitazione per una questione pratica e oggetto di volta in volta di deliberazione, ed invece una scarsissima o addirittura inesistente mobilitazione per la vita? Non c’è un preoccupante sbilanciamento? Dedicassero le nostre riviste, comprese quelle missionarie, alla vita almeno un centesimo dell’attenzione rivolta all’acqua…
Ingenuità cattolica?
Molti cattolici saranno contenti di aver contribuito ad evitare una inesistente “privatizzazione” dell’acqua. Trasformare il quesito referendario nel dilemma “privatizzazione sì privatizzazione no” è un vero e proprio non senso. Però molti cattolici penseranno di avere “vinto” o di aver contribuito a far vincere la causa giusta. In realtà hanno fatto vincere il vento del mondo, e ad un prezzo piuttosto alto. Una minore ingenuità, a questo proposito, sarebbe stata molto utile. Può capitare che uno pensi di andare a votare per l’acqua e invece voti per il divorzio breve. Ogni appuntamento referendario ha anche una ricaduta sul quadro politico. Si vota sull’acqua ma le ripercussioni politiche aprono (o chiudono) altre porte. Può capitare che uno pensi di andare a votare per l’acqua insieme ad associazioni che promuovono i diritti umani. Poi però si accorge che quelle associazioni che promuovono i diritti umani e votano con lui per l’acqua sono anche a favore dell’aborto, lo sostengono teoricamente e lo promuovono praticamente. Il voto sull’acqua non è stato solo un voto sull’acqua. Di quel voto altri ne approfitteranno per fare cose che ai cattolici non dovrebbero andar bene.
In conclusione
Mi auguro che possa continuare una approfondita discussione sulle posizioni assunte dal cosiddetto mondo cattolico in occasione del recente referendum, sulle categorie di pensiero che orientano il discernimento. A mio avviso non c’è molto da festeggiare. Sono emerse infatti discrepanze, scollamenti, incertezze sugli obiettivi da raggiungere e sulla strada da percorrere.
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venerdì 1 luglio 2011
FOR LESLIE AND LEONARDO NOW BEGINNING THEIR LIFE TOGETHER 6/25/2011
LESLIE KLECZEK E LEONARDO MARCATELLI SI SONO SPOSATI SABATO 25 GIUGNO NELLA CHIESA DI KICKAPOO A PEORIA, ILLINOIS, USA.
" COSA IMPLICA IL FATTO CHE UNA DONNA E UN UOMO VOGLIONO CHE IL LORO MATRIMONIO SIA BENEDETTO DA CRISTO E DIVENTI PERCIO' UN SACRAMENTO? IMPLICA CHE L'UNITA' DELLE LORO PERSONE SIA VISSUTA IN FUNZIONE DEL REGNO DI DIO, QUINDI PER LA GLORIA DI CRISTO"
LUIGI GIUSSANI
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