Dat, legge necessaria
per il bene della vita
L’approvazione della legge sulle Dat alla Camera fissa alcuni principi normativi che chiariscono definitivamente i termini del rapporto medico-paziente in ordine alle scelte terapeutiche.
1. Viene riaffermato – dopo casi come quelli Welby ed Englaro che avevano dato luogo a vicende di eutanasia passiva attraverso l’interruzione di presidi vitali – che è reato l’assistenza da parte del medico e del personale sanitario alla disattivazione di trattamenti e cure. Disporre la sospensione di un sostegno vitale avrebbe significato chiedere a un altro di privarmi della vita, sarebbe stato il caso dell’eutanasia, che invece la legge vieta con chiarezza. Diverso è invece il caso in cui i trattamenti e gli interventi siano inutili e sproporzionati: essi non dovranno neanche essere attivati in quanto si tratterebbe di una forma di accanimento terapeutico, contrario alla dignità della persona.
2. Il rapporto tra medico e paziente è ora regolato dal principio del consenso informato. Si tratta di una relazione che va sotto il nome di «alleanza terapeutica» e che riguarda in particolare le situazioni in cui i pazienti siano vigili e consapevoli, dunque in grado di comprendere ciò che gli viene proposto, gli effetti terapeutici stimati e la possibilità che si desideri rifiutare la terapia. La legge prevede ciò che sino a oggi era soltanto una prassi e cioè che il paziente cosciente e consapevole debba obbligatoriamente essere adeguatamente informato sui trattamenti e sugli interventi che può subire al fine di poter esprimere il suo consenso. Senza il consenso non si potranno attivare trattamenti sanitari. Ma la regola non opera nel caso in cui ci si trovi in una situazione d’emergenza, nella quale si configuri una situazione di rischio immediato per il paziente.
3. Nei casi di incoscienza del paziente, proprio per avere elementi di conoscenza sugli orientamenti in ordine alle terapie da somministrare può rivelarsi utile un documento scritto (le Dichiarazioni anticipate di trattamento). Sul valore giuridico di questo documento molto si era dibattuto, in particolare in punto di vincolatività per il medico di eseguire ciò che vi era scritto. Ora la legge assume una scelta saggia ed equilibrata: proprio perché le situazioni possono essere diversificate e differenti da come erano state immaginate nel momento della redazione del testo e soprattutto perché la redazione di tali direttive è comunque decontestualizzata rispetto all’eventuale verificarsi di un trauma o di una patologia, tale documento non può possedere carattere vincolante. Resta al medico, dunque la scelta in ordine alla terapia da somministrare e deve annotare nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguire o meno le Dat.
4. Tale documento può anche contenere la rinuncia da parte del soggetto a trattamenti sanitari ma – ed è un chiarimento introdotto proprio nella versione appena approvata – tale rinuncia può essere esplicitata soltanto per forme particolari di trattamento in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale.
5. Le Dat non possono contenere la rinuncia all’alimentazione e all’idratazione, salvo che siano inefficaci rispetto alla capacità di assorbimento del paziente. La nutrizione (anche non assistita) è infatti sempre decisiva per mantenere in vita gli esseri umani. Se la legge avesse invece consentito la rinuncia ora per allora anche all’alimentazione si sarebbero realizzate nuovamente vicende come quella della decisione del padre-tutore che nel caso Englaro ha scelto di interrompere il sostentamento parenterale della sua assistita.
6. La legge afferma anche che le Dat non sono sempre valide, in quanto il paziente potrebbe trovarsi in una situazione di incapacità transitoria. In particolare si stabilisce il principio che esse assumono rilievo solo quando vi sia assenza di attività cerebrale specifica.
7. La legge prevede che l’assistenza ai soggetti in stato vegetativo rappresenta livello essenziale di assistenza. Ciò garantisce concretamente che in tali casi non si verifichino stati da abbandono neanche di fatto.
Alberto Gambino
da Avvenire
L’opinione di un poeta cattolico: la morte un tempo era un fatto collettivo, un rito di appartenenza e non di solitudine
E’ una legge per uomini soli, che mi mette molto a disagio
Una legge che definisca come esprimere volontà circa la propria morte è una legge per uomini soli. Si compie l’immagine dell’uomo come monade, vagheggiata da filosofi che volevano far fuori lo scandalo della nascita. Dell’esser nati, e dunque concepiti in una serie di relazioni. E come concepiti viventi. L’uomo monade, invece, deve poter vivere slegato. Con relazioni importanti solo in quanto da lui scelte. C’è qualcosa di triste, irreparabilmente nella discussione su questa legge.
Qualcosa che mette a disagio, comunque la si pensi in proposito. Ha fatto bene Ferrara a rimarcarlo. Una legge resa necessaria forse dalle intemperanze di alcuni magistrati, dal via libera a una specie di eutanasia nel caso della povera Eluana. E tuttavia una legge che fa tristezza. Una legge per uomini soli, come ormai sembra fatta la nostra intera società. Anch’io vorrei morire senza andare dal notaio. Ma fidandomi di figli, mogli, amici, donne che abbiano pietà di me e rispetto di me nel momento “della nostra morte”. Un tempo la morte era un fatto collettivo. Personalissimo, ma collettivo nel suo evento e nel suo rituale.
Era un rito di appartenenza, non di solitudine. Gli storici e gli antropologi hanno mostrato come le usanze erano segnate dalla condivisione, non dalla separatezza. Il pasto dopo il funerale che ancora in molti luoghi si compie è l’estremo segno di un essere insieme di fronte all’evento che segna la nostra condizione. Morire era un fatto comune, e dunque condivisibile. Delegarne i contorni, le minime scelte in tanti dettagli a una autorità che sia fuori, impersonale, rispetto alla comunità che durante la vita e nell’ora estrema si costituisce intorno al morente, è uno sfregio ai movimenti primari, naturalissimi dell’essere società. Ed è strano che a muoversi con accanimento in questa direzione – sotto lo slogan individualistico di “autodeterminazione”– siano esponenti di quelle ideologie che proprio su una idea di società e sulla sua importanza quasi metafisica hanno fondato la loro ragion politica.
Forse idolatrando la società hanno finito per perderne i contorni umanissimi, viventi. I vescovi italiani, dopo una certa titubanza si sono arresi alla necessità di una legge, sotto l’impulso di iniziative giudiziarie che peraltro non mancheranno anche dopo l’approvazione della legge, per piegarne i sempre possibili cavilli a fini eutanasici. Ma questa immensa tristezza – acuita dal fatto pure di dividersi come di fronte alla vita nascente di fronte alla vita morente – potrebbe essere per tutti occasione estrema di riscossa. Ma perché la tristezza diventi occasione di riscossa occorre che poggi su una grande gioia. Quella ineffabile che viene dal condividere il mistero della nascita e il mistero della morte con luoghi di società vera. Solo chi conosce questa vera gioia (rara, ormai in un mondo di monadi) può dalla tristezza di questo passaggio trovare nuove linfe per lottare per una visione della vita che, come diceva Baudelaire, non avvilisca il cuore, ma rispetti le condizioni della vita.
di Davide Rondoni
da Ilfoglio.it
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