LEONARDO LUGARESI
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Discernimento, più ancora che misericordia, è probabilmente la parola-chiave
del pontificato di Francesco. Su questo concetto, e sul modo in cui viene impiegato sempre
più diffusamente nella chiesa oggi, ha fatto delle considerazioni pertinenti e
assai utili il padre Scalese nel suo blog, qualche giorno fa qui: http://querculanus.blogspot.it/2017/04/dottrina-vs-discernimento.html,
e precedentemente qui: http://querculanus.blogspot.it/2016/07/a-proposito-di-discernimento.html.
Michelangelo, Il Giudizio universale, particolare |
Le condivido. Vorrei solo aggiungere che, mentre la parola “discernimento” è oggi di gran
moda – benché (o forse proprio perché) non sia affatto chiaro che cosa si
intende con essa –, la parola
“giudizio” non gode di alcun favore tra i cristiani, anzi viene da molti
esplicitamente rifiutata.
La frase-emblema di questo pontificato, nella memoria dei più,
temo che resterà quel «Chi sono io, per giudicare?», forse sfuggito di bocca al
papa durante un colloquio coi giornalisti in aereo e che nella sua mente aveva
presumibilmente il senso perfettamente cristiano che “solo Dio è giudice e
nessun uomo può usurparne il ruolo”, ma che è stato infelicemente interpretato
da quasi tutti nel senso che il giudizio è una cosa sbagliata, cattiva, non
cristiana.
Invece giudizio è una
parola profondamente cristiana (oltre ad essere la parola più religiosa che ci sia). È una
parola bellissima, liberante, gloriosa: vivaddio, tutto è giudicato! Che cosa
orrenda, ingiusta, informe, spugnosa sarebbe la vita dell'uomo e del mondo, se
non ci fosse la certezza che il giudizio c'è. E c'è il giudizio perché c'è un
Giudice (e non a Berlino, che staremmo freschi!).
Tuttavia, prendiamo atto che gli uomini del nostro tempo molto
spesso questa parola cristiana, come tante altre, non la capiscono più. Intendono giudizio nel senso di regola
astratta, rigida, disumana, che cala dall'alto sulla vita per condannarla ...
Non sanno cos'è il giudizio, come non sanno cos'è la dottrina. Bisogna
tenerne conto.
In attesa che coloro che fanno da maestri nella chiesa si
decidano a tornare ad insegnarle queste parole, adoperiamo pure discernimento.
Purché sappiamo, almeno noi cristiani, che il discernimento
altro non è che “il giudizio praticato”, il giudizio messo alla prova della
vita quotidiana. «Impariamo a giudicare,
è l'inizio della liberazione», ho sentito dire una volta da don Giussani, e
mi pare un programma perfetto ancora oggi. Se
non è esercizio del giudizio – che ovviamente implica l'uso di un criterio di verità, e
la Verità è Cristo – il discernimento degenera fatalmente ad “arte del
possibile”, prudenza mondana (poco importa se gesuiticamente rinominata),
“discrezione” nel senso di Guicciardini. Tutte cose che poco o nulla hanno a
che fare con il cristianesimo.
Il giudizio
praticato, però, si potrebbe chiamare ancor meglio crisi o, se si
preferisce, krisis,
(alla greca, che fa sempre il suo effetto, e per evitare
fraintendimenti).
Krisis è il porsi di un giudizio che nasce dall'esperienza della
Verità e si impatta con le altre posizioni umane, si gioca nel confronto e si
lascia sfidare da esse e le “mette in crisi”. Cioè ha la capacità di innescare in
esse un processo di revisione che, col tempo, le cambia. Perché distingue,
separa, spacca i sistemi consolidati di pensiero, li disarticola, li rovescia.
Fa un'altra cultura.
Esattamente quello che hanno fatto i cristiani dei primi secoli
nei confronti del mondo greco-romano (sin da quando erano l'un per mille, o
l'un per cento della popolazione!). e quello che facciamo tanta fatica a fare
noi oggi.
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