Il quarto Ulivo mondiale, quello dell’obamo-renzismo
Le elites
progressiste del grillismo chic, adorate dai giornali politicamente corretti
Maggio
11, 2017 Pietro Piccinini
Da
tre giorni i notiziari sono pieni di Obama e Renzi che lanciano insieme da
Milano il loro asse internazionale per la formazione dei “young leaders” della
sinistra del futuro. Meglio: della «post-sinistra contro il populismo», come
l’ha definita ieri Repubblica.
Per cercare di
capire di cosa si tratti, bisogna innanzitutto sforzarsi di superare i brividi che provoca l’inenarrabile intervista concessa dallo stesso
Renzi al Corriere della Sera: Obama «punto di riferimento dei democratici a livello mondiale»;
«commovente» la sua «attenzione non tanto al governo quanto al Paese»; e poi la
gag telefonica con Macron, con il segretario del Pd che si spaccia
per «l’assistente personale del presidente Obama, glielo passo». Dopo di che,
bisogna osservare come siano proprio le principali testate italiane,
tendenzialmente renziane, sicuramente obamiane, le prime a collegare
questo mega progetto internazionale al non troppo fortunato Ulivo mondiale
di Clinton, Blair e Prodi.
«Dopo l’Ulivo
mondiale è l’ora del Partito democratico mondiale», scrive Paolo Valentino sul Corriere
della Sera. Conferma Carmelo Lopapa su Repubblica: «La
“Quarta via” della post-sinistra nasce a Milano. Come la “Terza via” di
Clinton, Blair e Prodi aveva preso il largo nel 1999 a Firenze. Barack Obama
battezza l’operazione affiancato da Matteo Renzi, nella speranza di entrambi
che il nuovo “network” sortisca intanto maggiore fortuna e una gittata un po’
più lunga».
Presentata
così, «questa nouvelle vogue mondiale» (sic su Repubblica)
non pare di per sé annunciare grandi novità. Certo, positivo l’impegno a
coinvolgere i giovani, anzi i “young leaders”. Ma coinvolgerli in cosa,
esattamente? In cosa si troverebbero implicati gli «attivisti globali, alcuni
politici, altri imprenditori, altri giornalisti o impegnati nelle Ong» di cui
parla Obama quando evoca il suo piano di rilancio politico?
Spiega Renzi
nella citata intervista al Corriere:
«Siamo democratici, o democrats, perché
crediamo in una certa idea del mondo globale. Quindi i cambiamenti climatici,
ma anche la sostenibilità alimentare, l’identità, i diritti sociali».
Ancora:
«Una grande cornice internazionale, nella
quale c’è un leader eccezionale, Obama, che interpreta in modo originale il suo
ruolo post Casa Bianca: apre il centro della sua Fondazione, crea la
biblioteca, fa conferenze, ma si pone anche come pivot di un universo politico
dove c’è attenzione all’Africa, all’Asia e nel contempo si sottolinea
l’importanza dell’Europa. Obama ci chiede una mano con l’obiettivo di far crescere
dal basso una generazione di nuovi leader, che sposi il globale con il locale,
cioè i grandi temi con la capacità di agire concretamente, e abbracci in modo
ottimista l’uso delle nuove tecnologie senza negare i problemi che comportano».
Insomma, “nuovi
diritti” nuovi di zecca, paternali ecosostenibili (850 euro per ascoltare lo
speech di Obama al convegno internazionale sull’innovazione alimentare “Seeds
and Chips”) e un sacco di social network, ma con «un appello ai giovani: non
cedere alla cultura delle fake news, delle post-verità». Soprattutto, tanta ma
tanta “disintermediazione”, altro carattere distintivo dell’obamo-renzismo: niente partiti, perché ormai – spiegava martedì Repubblica in
un titolo – Obama e Renzi sanno che «la politica si fa fuori dai
partiti», quindi – ribadiva mercoledì sempre Repubblica in
un altro titolo – serve «una rete di giovani e fuori dai partiti».
Poi, naturalmente, ci sono i leader. Non
quelli young: quelli veri. L’organigramma lo ha fatto Lopapa su Repubblica:
«Il neo eletto
segretario del Pd, al quale l’ex presidente Usa si è rivolto pubblicamente più
volte col confidenziale “Matteo”, ritiene di incarnare – neanche a dirlo – la
colonna italiana di questa “Quarta via”.
Costruzione che al momento avrebbe la forma del quadrilatero: con lui, appunto
Obama, Macron, Trudeau».
Tanta
ideologia politicamente corretta, niente strutture
intermedie e quattro sovrani intergalattici. Un po’ pochino per una
rete di “young leaders” che avrebbe il compito di combattere «ogni forma di
populismo e sovranismo» (Repubblica). Non è populista un «leader
eccezionale» che si porta a spasso una massa di giovani «fuori dai
partiti» e li tira grandi a furia di slogan progressisti e
hashtag #anti-fakenews? Che altro è, in effetti, se non un Beppe Grillo un po’
più smart?
Scriveva
ieri Paolo Valentino in un articolo del Corriere della Sera intitolato “Così Obama si sta
candidando (idealmente) a presidente del mondo”:
«La Fondazione Obama, il costruendo Centro
di Chicago, la futura biblioteca presidenziale, il terzo libro appartengono
alla tradizione di ogni ex capo della Casa Bianca. Ma ciò che fa la differenza
è che Obama si è dato né più né meno che un vero programma politico. È come se,
liberato dai lacci e lacciuoli dell’ufficio, egli riscopra la sua vera
ambizione di leader globale, quello che aveva immaginato e raccontato di voler
essere nella campagna del 2008, per poi piegarsi alle limitazioni e ai doveri
della carica. “Vorrei preparare la prossima generazione di leader del mondo”,
dice alla platea milanese, che lo accoglie come neppure Bono o George Clooney.
(…) Barack
Obama parla ancora da leader globale. Ma questa volta la sua è leadership
morale, rafforzata da uno star power rimasto intatto nonostante le cicatrici
degli anni del potere. E proprio per questo potrebbe essere ancora più
efficace. Otto anni dopo Yes, we can, lo slogan che fece sognare una
generazione, egli si candida idealmente a presidente del mondo. Forse l’uomo
nato alle Hawaii e cresciuto in Indonesia, il padre dal Kenya e la madre dal
Kansas, ha trovato la sua vera vocazione».
Bisogna
ammettere che questo modo entusiastico di presentare il prossimo «(idealmente)
presidente del mondo» qualche inquietudine la suscita. Comunque, se non altro,
l’idealmente imperatore Obama merita di essere ascoltato sull’economia.
Renzi la mette
giù in questi termini all’intervistatore di via Solferino:
«Obama ha
sottolineato che la strada maestra sono le politiche grazie a cui lui ha avuto
successo a casa sua e per le quali nel nostro piccolo ci siamo battuti come
forsennati nei Consigli europei, cioè quelle degli investimenti e della
crescita. La speranza è che Macron, proprio nel momento in cui sottolinea
l’importanza dell’Europa, valorizzi questo profilo che punta a mettere
l’accento sullo sviluppo e non sull’austerity».
Tutto molto
condivisibile, tutto auspicabile. Una lezione che va sicuramente ascoltata, a
maggior ragione in quanto viene dall’uomo che ha governato l’America negli anni
della crisi, riportando il paese alla piena occupazione. C’è un piccolo
problema, però, che Renzi dimentica quando magnifica «le politiche grazie a cui
Obama ha avuto successo a casa sua».
Lo ha esposto in modo chiaro Massimo Gaggi
qualche giorno fa in un editoriale uscito
proprio sul Corriere della Sera:
«In realtà a
dare sostanza a questo scenario idilliaco manca proprio l’inflazione. Che è
bassa anche perché i salari non crescono: i disoccupati sono pochi ma al loro
fianco c’è un esercito di sotto-occupati (l’8,6% della forza lavoro) costretti
ad accettare impieghi part time, precari, poco retribuiti».
Insomma,
mentre in Italia la disoccupazione galoppa, gli americani vanno verso la piena
occupazione, sì, ma una piena occupazione cinese. È anche per questo che
dopo Obama hanno scelto Trump. Un bel grattacapo per il nuovo Ulivo
mondiale che non ha praticamente nessuna idea nuova a parte il globalismo. C’è da
augurarsi che lunedì sera Obama abbia chiesto lumi ai pochi fortunati
italiani invitati all’esclusivissima cena con lui. Tutta gente che
in globalizzazione e austerity e gioventù, modestamente, può vantare una
certa esperienza.
«“Obama? In
grande forma fisica, attento alle nuove generazioni e fortemente preoccupato
sul futuro dell’Europa”, racconta Luca Cordero di Montezemolo, assieme a John
Elkann, Sergio Marchionne, Diego Della Valle, tra i pochi ospiti alla cena di
lunedì sera. “Eravamo tutti ex – ha scherzato a Di Martedì su
La7 – e tutti senza cravatta. Quello che ha fatto più fatica a toglierla è
stato Monti”» (Carmelo Lopapa, la Repubblica)
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