ASSOCIAZIONE "IL DISEGNO" : PRESENTAZIONE
“L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere occhi nuovi” (Marcel Proust)
L’Associazione “Il Disegno” è in viaggio dal 1985, con pochi bagagli ma tanti amici…
Un viaggio alla scoperta di cosa sia la difficoltà e la condivisione, l’abilità e l’inadeguatezza, la sofferenza e la gioia: un viaggio alla scoperta di cosa sia la vita in fondo e di cosa ci sia in fondo alla vita.
Un’avventura che trascina i cuori e le menti che spinge oltre il volontariato, sconfinando una volta e per sempre nello straordinario campo dell’amicizia.
Proprio così nasce questa associazione, da una amicizia fra persone che desiderano il proprio bene e quello degli altri e che non hanno paura di dire che tale bene coincide con la presenza di Gesù.
Questo è Il Disegno: il viaggio di un figlio che torna a casa per abbandonarsi finalmente nelle braccia di sua madre, tranquillo, certo di un amore che precede le proprie qualità.
Non diversamente abili, ma totalmente amati!
Così, anche senza viaggiare tento, i nostri occhi cambiano continuamente paesaggi, vengono educati a spalancarsi e a guardare sempre meglio, commossi dalle novità che il cammino ci pone dinnanzi.
L’Associazione il Disegno è fatta di persone uguali tra loro, non nelle qualità, non nelle capacità, ma nel desiderio di essere guardati così come ci guarda una Madre ed attesi così come ci aspetta un Padre.
Associazione “Il Disegno”
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ANDREA ALBERTI PRESIDENTE DEL "DISEGNO"
In questi giorni ho
ricevuto diverse richieste di affrontare la questione dell’eutanasia in quanto
presidente di un’associazione di volontariato che si prende cura del tempo
libero di amici affetti dalle più diverse disabilità. Alcuni di loro hanno solo
lievi ritardi, altri sono costretti su una sedia a rotelle e da tutta la vita
lottano con un’improbabile capacità comunicativa anche solo per chiedere un
bicchiere d’acqua. I più gravi tra l’altro associano condizioni fisiche,
motorie e comunicative drammatiche ad una assoluta lucidità di pensiero.
Frequento l’associazione il Disegno da circa 30 anni e da quasi 15 ne sono il presidente. Ma tutto questo che diritto mi dà di parlare di eutanasia? Nessuno. Nulla di ciò che si fa, nessun mestiere, nessuna opera di volontariato e neppure nessuna condizione personale o familiare dovrebbe dare il diritto di affrontare un argomento così delicato se non parlando di sé.
Ed è questo che farò, racconterò ciò che è successo a me e
che ha cambiato la mia personale visione su questo argomento, ribaltando il mio
precedente punto di vista. Una settimana fa sono stato all’ennesimo funerale di
una persona disabile (Marcello) che per tantissimi anni ha frequentato il
Disegno e che io ricordo fin da quando sono piccolo.
Ultimamente ho partecipato a molti funerali di amici del
Disegno che se ne sono andati senza aver fatto nulla di memorabile su questa
terra, senza aver “cambiato le cose” (come direbbero gli americani) o lasciato
un’impronta nella storia.
E mi sono accorto che non imparo mai, faccio sempre lo
stesso errore. Come quando Michele e Roberta mi chiamarono in ospedale perché
stava morendo il loro amato Simone, come quando la madre di Gianni mi disse tra
le lacrime che la sua piccola peste ci aveva lasciato. Non imparo mai.
Tutte queste volte e anche la settimana scorsa, mentre
guidavo verso il funerale di Marcello ho pensato la stessa cosa: “bene,
finalmente adesso i suoi genitori saranno in pace e sollevati”. E mentre lo
ripetevo tra me e me, pensavo a tutta la fatica che un figlio come Marcello ha
fatto fare ai suoi genitori, quella fisica e quella psicologica. Pensavo che in
55 anni non ha mai fatto un passo da solo, non ha mai detto una parola, non ha
mai mangiato o bevuto o andato in bagno senza che i suoi genitori fossero lì. E
poi pensavo che in 55 anni Marcello non ha compiuto nessun progresso, non ha
costruito nulla per questo mondo, non ha migliorato la società in alcun modo,
non ha studiato e tanto meno ha mai prodotto qualcosa che aumentasse il PIL
anche solo di una frazione di punto. Non poteva fare niente se non utilizzare
uno strano strumento come fosse una pistola in mano ad un bimbo dell’asilo. Ed
anche se gli anni passavano continuava a stringere quella strana pistola e a
produrre un rumore storpiato di uno sparo bambino, per più di 50 anni.
Guidavo verso il funerale e pensavo che sollievo per quei
genitori non dover più fare tutto questo e trovare finalmente un po’ di
ristoro, un po’ di pace. Sempre lo stesso errore. Ancora. Come per Simone. Come
per Gianni.
E poi, incredibilmente, incontro quelle persone che
dovrebbero essere sollevate perché il loro figlio capace di nulla aveva
finalmente tolto il disturbo da una vita priva di soddisfazioni ma farcita di
sofferenza e fatica. E invece no. Piangono, soffrono, lo vorrebbero lì,
darebbero tutto per riaverlo indietro, per tornare ad imboccarlo, lavarlo,
pulirlo, metterlo a letto ed alzarlo. Come sempre. Come hanno sempre fatto per
tutta la vita, una vita che non hanno scelto ma che hanno abbracciato senza
paura, senza dubbi, senza misura!
Non si sopporta una vita così con lo sforzo personale, non
basta, non regge.
Se lo sforzo non diventa sacrificio, nel senso etimologico
del termine (sacrum facere, rendere sacro), la fatica e lo sconforto avranno il
sopravvento. Prima o poi, ma sarà così. Quei genitori non erano sollevati dalla
morte di Marcello perché durante tutta la sua vita hanno reso sacro il loro
fare, perché quel figlio valeva come tutto il mondo e in ogni gesto, per quanto
faticoso e doloroso fosse, lo dimostravano.
Cosa c’entra questo con l’eutanasia? C’entra! C’entro io ed
il mio stupore davanti a chi è capace di amare così. Io saprei amare così? In
modo completamente gratuito, senza nessuna umana soddisfazione, senza alcun
orgoglio paterno, senza che nessuno mi dica mai “che bel figlio”, “come è
bravo” e “chissà che soddisfazione ti dà”?
Non giudico chi non riesce più a sopportare il dolore di una
vita difficilissima e tanto meno mi permetterei di farlo nei confronti di
coloro che non sopportano di vedere soffrire ulteriormente i propri cari. Non
sono capace di entrare così dentro quei cuori. Non posso permettermelo. Non
sarebbe giusto, neppure Dio vìola la libertà di ognuno di noi. E, sinceramente,
non so nemmeno io cosa farei se mi trovassi a vivere una situazione così. Non
lo so e non lo saprò davvero fino a che non mi capiterà. Le chiacchiere sono
una cosa, la carne che urla di dolore è un’altra.
Ma per l’ennesima volta la mia visione è stata ribaltata da
una lezione di amore infinito, invincibile, totalizzante e gratuito.
Allora la domanda che mi pongo è un’altra: ma se sapessimo
amare come quei genitori, se sapessimo prenderci cura del dolore delle persone,
sostenerne la fatica, lenire le ferite che la malattia infligge al corpo e
all’anima, davvero l’eutanasia sarebbe un argomento di cui discutere? Se chi
soffre si sentisse amato di un amore infinito, gratuito e totalizzante come si
sono sentiti amati Marcello, Simone e Gianni, davvero desidererebbe privarsene?
Davvero il dolore può vincere sull’amore?
Allontanandomi da quel funerale pensavo che non potrei mai giudicare qualcuno perché si arrende al proprio immenso dolore, non è giusto e non lo farò mai.
Ma non addolciamo una pillola amarissima, non travisiamo la
realtà solo perché fa troppo male, non sacrifichiamo la verità sull’altare
dell’ideologia: legalizzare l’eutanasia non corrisponde a rendere possibile un
estremo atto di amore ma al riconoscimento triste che non siamo capaci di amare
come i genitori di Marcello, Simone e Gianni.
Andrea Alberti
Presidente de “il Disegno”
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